Creato da: ruconcon il 25/07/2005
Sul ritmo della pachanga i ricordi di un giovane 'rivoluzionario'

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Rane Toro

Post n°13 pubblicato il 07 Settembre 2005 da ruconcon

Partiamo in treno nel pomeriggio. Le vetture sono di fabbricazione americana, sembra di essere in un film anni ’40. Anche il controllore indossa una divisa da film americano. Un vagone postale è riservato alla nostra comitiva, con scatole di viveri e bevande e i bagagli di qualche delegazione (particolarmente ingombrante quello dei cinesi). Il treno fa tante fermate, con soste prolungate; sembra che anche gli orari dei treni a Cuba seguano il calmo ritmo di vita tropicale. Per circa 900 chilometri c’impiegheremo più di 24 ore! Di giorno si vede l’affascinante campagna cubana, con zone coltivate a riso e altra roba sconosciuta, seguite da enormi piantagioni di canna, da vastissimi pascoli e da incolti. Belle le coltivazioni di ananas, sembrano tante piante da appartamento in fila. M’incuriosisce vedere che le recinzioni di filo di ferro sono sorrette da alberi, anziché pali; mi spiegano che per sostegno sono piantati rami ancora verdi, che mettono radici diventando alberi. E’ ancora presto per il raccolto della canna da zucchero. Fa caldo e non si riesce a dormire; con un altro compagno ci viene la brillante idea di collaudare le nostre amache, appendendole a dei ganci nel vagone postale. Ci saliamo; il movimento del treno ci fa dondolare, sembra proprio una bella pensata ed altri ci imitano. Dopo poco dobbiamo però rinunciare, perché il dondolìo non induce per niente il sonno, ma la nausea. Peccato, però l’esperimento è servito a dimostrare che il telo ricevuto in dotazione può davvero servire come amaca, anche se stretta, corta e scomoda, e che le corde reggono.
Il principale mezzo di locomozione in campagna sembra essere il cavallo; se ne vedono, belli, al pascolo e, vicino ai paesi attraversati, elegantemente montati da campesinos dall’aria fiera.
Nel 1998 il cavallo è ancora una risorsa importante, non solo per il movimento in campagna; anche in città corrono carri e calessi di varia foggia.
Fa ancora più caldo e il viaggio diventa sempre più lungo e noioso. In una stazione, era forse Holguìn, staccano i nostri vagoni e proseguiamo su una linea normalmente non usata per il traffico passeggeri, ma solo all’epoca del raccolto della canna. Finalmente arriviamo in un piccolo scalo, senza nome, probabilmente uno zuccherificio. E’ ormai notte, piove e si vedono molti lampi lontani del temporale passato. Saliamo su alcuni camion scoperti, da movimento terra, che saranno nelle settimane successive il nostro normale mezzo di trasporto. Percorriamo pochi chilometri di strada sterrata che alla luce dei fari si trasforma poi in pista, di recente spianata e acciottolata per costruire una nuova strada, che sale in collina. Finalmente ci fermiamo davanti una costruzione di legno con tettoia di lamiera, sotto di cui sostano dei militari. Con i fari s’intravedono, a poca distanza sul dosso, degli edifici bassi, in muratura.
Tutto attorno è nero assoluto e ricominciano a cadere goccioloni, ma non ci faccio caso: dal buio vengono, a tratti, forti strepiti, a mezzo tra il ruggito ed il boato. Oppure tra il bramito e il mugghio o… Sono sicuro che si tratti di qualcosa vivo, animale, e che mette timore, ma cosa? Non mi vengono in mente altri urli animaleschi adattabili al rumore cupo che si sente. Che siano gli animali pericolosi di cui ci hanno parlato all’Avana?
Sollecitati dagli ordini dei militari che ci vengono incontro, saltiamo giù dai camion. Sprofondo nel fango fin sopra i begli scarponi nuovi. “Benvenuti all’accampamento della Ciudad Estudiantil Camilo Cienfuegos. Sono il Capitàn Rafaèl
Perez Rivas” dice un tale che indossa una specie di divisa. “L’Ejercito Rebelde è lieto di accogliervi. Mi spiace, siamo al buio perché il fortunale ha interrotto la linea elettrica.” Ho trovato il nome del Capitàn in un articolo di Guizzardi, che ne fa anche la descrizione. “Il Capitano è un tipo curioso di civile militarizzato: la sua divisa infatti è un vero mosaico di indumenti più strani; porta lunghi e infangatissimi stivaletti di foggia americana; un largo sombrero messicano, dalle falde rivolte all’insù e unite tra loro da un pezzo di spago, gli copre un testone rapato; maglietta verde-oliva, come quella delle reclute.”
 

Una volta intruppati ci mettiamo in marcia nel fango verso gli edifici, guidati da alcuni soldati con torce elettriche. Non solo io, tutti siamo impressionati dal baccano che continua. Un soldato se n’accorge e ci fa “Tranquilli, sono le rane toro, ci sono sempre, ma quando piove si fanno sentire di più!”.

 
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