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UNA STORIA INEDITA

Post n°57 pubblicato il 04 Novembre 2010 da saydo
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Dama con ermellino, Platone e Aristotele nella Città ideale, di Ignoto (riproduzione)

 

Descrizione dell’opera.

Platone, indicando con il dito verso l’alto, afferma che a lui piacerebbe abitare all’ultimo piano per essere simbolicamente più vicino al mondo delle Idee. Aristotele, meno idealista e più disincantato, sostiene invece la necessità di occupare il piano terra onde evitare di fare le scale, afflitto com’è dall’artrosi e dai dolori reumatici.
La Dama osserva divertita il battibecco tra i due filosofi, anche se di li a poco verrà denunciata  per aver sottratto un ermellino in casa di un alto prelato, per scopi non del tutto benefici.
Si noti la posizione dei personaggi. I due filosofi sono posti sullo sfondo, la Dama in primo piano. Questo può essere interpretato come un’allegoria della temperanza: le parole vuote e le inutili diatribe (i filosofi) sono aliene dalla moderazione (la Dama). La donna, con saggio distacco, se la ride delle futilità: per lei l’unico problema è come farsi una pelliccia d’ermellino.

Si dice che Pier Giacomo da Monterotondo, un raffinato intenditore d'arte e mecenate, nel mirare quest'opera fu preso da tale commozione da ordinarne 250 copie in formato etichette adesive in occasione della sagra della cicoria, che in quel tempo richiamava numerosi intellettuali da più parti d'Europa.
Il dipinto (cm. 150 x 42) ha subìto una serie di vicende alquanto travagliate. In un primo momento lo troviamo a Firenze, alla corte dei Medici, dove venne usato per coprire una grossa macchia d’umidità che si era formata in cucina. Poi fu la volta di Roma, dove finì per sbaglio insieme a una partita di ravanelli diretta in Vaticano. Qui il Papa volle farlo esaminare da Michelangelo. L’artista era già impegnato nella realizzazione della Pietà, ma promise che non appena avesse avuto del tempo gli avrebbe dato un’occhiata. Il mattino seguente, infatti, si affrettò a depositarlo al Monte dei pegni e con il ricavato – pochi spiccioli – poté acquistare dei nuovi scalpelli. Qualche tempo dopo, la tela fu notata da un critico d’arte, un certo Leopoldo Pollacchio, il quale la comprò ad un prezzo triplicato per usarla come scendiletto.
Teofrasto Filenzoscropoli, un cronista del tempo, ebbe a dire che il Pollacchio non aveva mai capito niente di arte e che si spacciava per un esperto al fine di frequentare i salotti intellettuali dove era facile abbordare qualche compiacente gentildonna. Dopo qualche tempo, Filenzoscropoli vagava per le strade della città senza gli incisivi superiori e con un sorriso ebete stampato in faccia.

Nel 1516 due ignoti personaggi, Bindo Cavastracci e Eugenio Ballonzoli, si contesero la paternità dell’opera. Durante una cena a casa del Pollacchio, in seguito a un’animata discussione, il Cavastracci diede al Ballonzoli del “tacchino ubriaco”. Il Ballonzoli allora, per tutta risposta, gli strofinò dell’ortica in faccia. La situazione era divenuta critica. Tra lo stupore dei convitati, i due si sfidarono a duello, ma il Pollacchio, con la cordialità e la diplomazia che lo distinguevano, placò gli animi degli avversari a furia di randellate.
La contessa Maria Pia Rocca Squinterna, amante del Pollacchio e di una interminabile lista di cardinali e banchieri, da tutti salutata come il simbolo della virtù, intervenne nella disputa: ella propose che dinanzi a una commissione di esperti i due artisti avrebbero dovuto riprodurre l’opera oggetto della contesa. Ballonzoli e Cavastracci si dissero d’accordo, mentre il Pollacchio si accingeva a presiedere l’austera giuria.
Furono convocati i maggiori specialisti del tempo; persino Raffaello si disse onorato di poter dare il suo contributo, ma all’ultimo momento cadde in una cupa depressione a causa di un eccesso di forfora e declinò l’invito.
Ci vollero due settimane per portare a termine quella sfida singolare e un’altra per esaminare i risultati. Alla fine uno dei giudici, dopo una minuziosa analisi, scoprì un piccolo dettaglio nel lavoro del Cavastracci: la Dama era stata disegnata con la testa dell’ermellino, e viceversa. Venne decretata la vittoria del Ballonzoli. Il Cavastracci protestò asserendo che la sua era stata una semplice distrazione, che tutto - prospettiva, proporzioni, colori - era stato riprodotto fedelmente, e che comunque egli avrebbe potuto ripetere la prova in qualsiasi momento. Ma il verdetto della giuria fu inappellabile.

Si era in un periodo foriero di grandi rivolgimenti che ben presto sarebbero dilagati in quasi tutta Europa. La Riforma protestante bussava alle porte. A Wittenberg, Lutero si accingeva ad affiggere le sue 95 Tesi, sebbene, data l'ora, non riuscisse a trovare un negozio aperto per acquistare la colla.
Ancorché in Italia la Riforma avesse difficoltà ad attecchire, tuttavia vi erano molti simpatizzanti; alcuni decisero di espatriare in Svizzera, Germania, Olanda, per entrare in contatto con le idee dei riformatori calvinisti e luterani; altri si organizzarono in associazioni segrete e tramavano nell'ombra per rubare la biancheria intima al papa e farlo così cadere in depressione. Nel frattempo alcuni fedelissimi amici del Ballonzoli, in cambio di alcune sue benevolenze, spiattellarono pubblicamente che egli era uno dei cospiratori. Il Cavastracci lo venne a sapere: quale migliore occasione per vendicarsi del torto subìto e sbarazzarsi definitivamente di quell'arrogante ghibellino! Quindi si rivolse al papa con una lettera delatoria in cui lo metteva al corrente delle terribili mire del suo antagonista.
Il vescovo di Roma scrisse al Cavastracci di apprezzare molto la sua devozione e fedeltà alla causa della Chiesa e che in cambio di quel nobile gesto lo avrebbe insignito dell'alta carica di portascalpelli di Michelangelo.
Il Cavastracci rispose che non aspirava a ricompense, che il suo gesto era del tutto disinteressato, ma che, comunque, onde non arrecare offesa alle saggissime decisioni di Sua Santità, si sarebbe anche accontentato del titolo di imperatore.
Il giorno seguente alcuni sgherri irruppero in casa del Ballonzoli, verso le otto di sera, armati fino ai denti, per arrestarlo, ma siccome stava cenando dovettero aspettare in salotto. Dopo cena gli furono offerte delle erbe digestive, dopodiché fu trascinato davanti al tribunale d'Inquisizione. Qui venne torturato facendogli annusare le scarpe di tutti i partecipanti; resistette stoicamente per alcune ore, ma alla fine confessò le sue colpe e fu rinchiuso a Castel Sant’Angelo, condannato a rimanere sottaceto per il resto dei suoi giorni.

Al Concilio di Trento del 1545 fu deciso, tra l'altro, che il papa non avrebbe più indossato biancheria intima, tranne in occasioni solenni o di fronte ad alte cariche degli Stati cattolici; inoltre fu stabilito che l'opera sarebbe tornata in Vaticano. Dopo qualche tempo, tuttavia, la tela venne trafugata da un gruppo di nani svizzeri per vendicarsi del fatto di non essere stati ammessi tra le fila della guardia pontificia.

 

 

 
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