E' vero che gli Oscar sono premi commerciali. Però il premio al miglior film straniero fa un po' eccezione. Certo La grande bellezza rende finalmente onore, dopo tanti anni, al cinema italiano, che era stato premiato le ultime volte per film graziosi ma modesti, come La vita è bella di Benigni e Mediterraneo di Salvatores.Con Sorrentino stiamo di nuovo parlando di cinema di altissimo livello, anche se La grande bellezza non è un capolavoro come Il divo. Ma Il divo è stato molto apprezzato e poco capito: non un film su Andreotti, ma sulla sua leggenda. Raccoglieva tutto ciò che di Andreotti è stato detto o pensato: storicamente certo, probabile, plausibile, ma anche improbabile o fantasioso. La leggenda, appunto. E attraverso la leggenda, un film sul bene e sul male, sull'idea andreottiana del raggiungimento del bene attraverso il male. Andreottiana, ma non solo: tradizione e vulgata machiavellica che impronta di sé tutta la storia politica italiana; e ancora di più l'immaginario letterario che fin dal 1500 avvolge l'italianità in un alone di intrigo e crudeltà.Anche La grande bellezza rappresenta l'Italia, una dolce vita dei giorni nostri, sensuale e sguaiata, meno drammatica di quella felliniana, più ironica e tollerante, distaccata. E' passata tanta acqua sotto a quei ponti sul Tevere per arrivare al disincanto di Servillo. Non credo sia un film ruffiano. La bellezza delle onnipresenti immagini di Roma, risponde non soltanto alla narrazione che ne fa la co-protagonista del film, ma soprattutto a un gusto pittorico di Sorrentino, evidentissimo anche ne Il divo: un gusto che anima anche le produzioni recenti di Scorsese, che non a caso ha voluto citare. Certo ha incontrato la sensibilità americana per la rappresentazione oleografica della capitale, ma non ci vedrei una furbizia markettara."Grazie alle mie fonti di ispirazione: Federico Fellini, i Talking heads, Martin Scorsese e Diego Armando Maradona", ha detto il regista nel suo discorso di ringraziamento, criticato per l'imbarazzo e per questi riferimenti così insoliti ed eterogenei. Eppure in questo improvvisato elenco di maestri, per quanto si possa non condividerlo (e personalmente su Maradona mi sono già espressa), credo che Sorrentino abbia voluto mettere tutto lo spirito della generazione di mezzo, la prima per cui la formazione è stata indiscutibilmente un concorso di elementi di diversa natura. Magari i nomi non sarebbero gli stessi, ma quanti di noi, dovendo citare i propri cult, farebbero un mix di alto e basso, di libri e fumetti, di rock e canzonette, di film, di filosofi, di TV e di puttanate.E allora siamo grati a Sorrentino che non ha voluto presentarsi né come trombone né come scanzonato piacione italico. Con ironia e understatement è stato semplicemente se stesso e con il suo piccolo pantheon squinternato è stato anche testimone di quella generazione che ha sorriso e gioito insieme a lui.
Il pantheon di Sorrentino
E' vero che gli Oscar sono premi commerciali. Però il premio al miglior film straniero fa un po' eccezione. Certo La grande bellezza rende finalmente onore, dopo tanti anni, al cinema italiano, che era stato premiato le ultime volte per film graziosi ma modesti, come La vita è bella di Benigni e Mediterraneo di Salvatores.Con Sorrentino stiamo di nuovo parlando di cinema di altissimo livello, anche se La grande bellezza non è un capolavoro come Il divo. Ma Il divo è stato molto apprezzato e poco capito: non un film su Andreotti, ma sulla sua leggenda. Raccoglieva tutto ciò che di Andreotti è stato detto o pensato: storicamente certo, probabile, plausibile, ma anche improbabile o fantasioso. La leggenda, appunto. E attraverso la leggenda, un film sul bene e sul male, sull'idea andreottiana del raggiungimento del bene attraverso il male. Andreottiana, ma non solo: tradizione e vulgata machiavellica che impronta di sé tutta la storia politica italiana; e ancora di più l'immaginario letterario che fin dal 1500 avvolge l'italianità in un alone di intrigo e crudeltà.Anche La grande bellezza rappresenta l'Italia, una dolce vita dei giorni nostri, sensuale e sguaiata, meno drammatica di quella felliniana, più ironica e tollerante, distaccata. E' passata tanta acqua sotto a quei ponti sul Tevere per arrivare al disincanto di Servillo. Non credo sia un film ruffiano. La bellezza delle onnipresenti immagini di Roma, risponde non soltanto alla narrazione che ne fa la co-protagonista del film, ma soprattutto a un gusto pittorico di Sorrentino, evidentissimo anche ne Il divo: un gusto che anima anche le produzioni recenti di Scorsese, che non a caso ha voluto citare. Certo ha incontrato la sensibilità americana per la rappresentazione oleografica della capitale, ma non ci vedrei una furbizia markettara."Grazie alle mie fonti di ispirazione: Federico Fellini, i Talking heads, Martin Scorsese e Diego Armando Maradona", ha detto il regista nel suo discorso di ringraziamento, criticato per l'imbarazzo e per questi riferimenti così insoliti ed eterogenei. Eppure in questo improvvisato elenco di maestri, per quanto si possa non condividerlo (e personalmente su Maradona mi sono già espressa), credo che Sorrentino abbia voluto mettere tutto lo spirito della generazione di mezzo, la prima per cui la formazione è stata indiscutibilmente un concorso di elementi di diversa natura. Magari i nomi non sarebbero gli stessi, ma quanti di noi, dovendo citare i propri cult, farebbero un mix di alto e basso, di libri e fumetti, di rock e canzonette, di film, di filosofi, di TV e di puttanate.E allora siamo grati a Sorrentino che non ha voluto presentarsi né come trombone né come scanzonato piacione italico. Con ironia e understatement è stato semplicemente se stesso e con il suo piccolo pantheon squinternato è stato anche testimone di quella generazione che ha sorriso e gioito insieme a lui.