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LA SENIA DI CASTELVETRANO

Post n°21 pubblicato il 23 Marzo 2014 da vito.marino01

LA SENIA DI CASTELVETRANO

Il vocabolo siciliano “senia” (dal greco “zènia”) in italiano significa noria. Si tratta di un antico marchingegno, che veniva azionato dal tiro dell’asino, per prelevare l’acqua da un pozzo poco profondo. A Castelvetrano per “senia” vengono chiamati anche tutti quei terreni coltivati ad agrumi od ortaggi.

L’acqua portata in superficie era utilizzata direttamente per l’irrigazione, ma  poteva essere versata in una “gebia”, dall’arabo “Jebiah (vasca per irrigazione in muratura).

Il nostro territorio, con un sottosuolo ricco d’acqua, nei tempi passati si presentava come  un grande giardino di agrumi. La produzione era composta da “partualli”, cui seguivano: “maniglia, lumii,  pirittuna e lumii duci”. In seguito sono arrivate le varietà più pregiate come il “brasiliano ed il washington”. Nel territorio di Catania esiste il “tarocco”, una varietà che si presenta più appariscente, ma per i gusti dei siciliani si presenta un poco acido, mentre è richiesto ed apprezzato dai consumatori dell’Italia Settentrionale e del Nord Europa.

Durante la passata civiltà contadina i terreni agricoli, l’unica ricchezza della Sicilia, erano di proprietà dei nobili, dei ricchi possidenti eredi di feudatari e della Chiesa; in minima parte anche dei “burgisi” (piccoli proprietari che coltivavano loro stessi il loro podere).

Per la coltivazione, i benestanti cedevano le loro terre ai “mmitateri” (mezzadri) e ai “gabilloti”, (che pagavano un affitto, “la gabella”).

"Lu iurnateri"  (colui che lavorava dietro un compenso giornaliero) e “l’adduvatu o alluveri" dal francese “à louer” (che si può locare)  erano dei lavoratori saltuari, che faticavano più degli altri, ma guadagnavano così poco da patire letteralmente la fame.

In tempi più recenti, espropriati i beni ecclesiastici, scomparso il latifondo, gradatamente questi terreni, sia pur frazionati, sono andati a finire in mano a questi contadini. Sembrava che finalmente la loro sorte fosse cambiata in meglio. Purtroppo con la concorrenza del libero mercato, dai paesi del terzo mondo e da quelli in via di sviluppo, dove la mano d’opera ha un costo bassissimo,  sono arrivati nei nostri mercati i prodotti agricoli ad un prezzo concorrenziale.

Sicché, gli agrumi siciliani, fra i migliori del mondo, non potendo combattere la concorrenza straniera, sono rimasti invenduti e gli agrumeti abbandonati ed incolti.

Intorno agli anni ‘70, la Regione Siciliana, per dare un aiuto al settore, tramite l’AIMA, incominciò a comprare l’eccedenza; si è assistito, così, al macero di montagne di ottime arance distrutte sotto i cingoli del trattore. Una iniziativa che lascia molto riflettere, se pensiamo al terzo mondo che muore di fame ed avitaminosi, per mancanza di frutta.  

Purtroppo anche uliveti e vigneti stanno per subire, per gli stessi motivi, la stessa sorte.

Scompare così a poco a poco una cultura molto antica portata dagli arabi durante la loro dominazione. Sparisce anche la figura del “siniaru” un contadino specializzato per una cultura altamente specializzata. Tutta la famosa “conca d’oro” attorno a Palermo é stata sommersa dal cemento. Il contadino, proprietario e non, non sa adeguarsi alle nuove esigenze di vita; non sa investire i suoi risparmi e la sua mano d’opera in altre attività da crearsi lui stesso ex novo, e preferisce riprendere la strada dell’emigrazione nel Settentrione d’Italia, iniziata un secolo fa dai suoi avi verso le Americhe.   

La Sicilia, terra fertile popolata da grandi lavoratori, chiamata nel passato il granaio d’Italia e per tale ragione contesa da tutti i popoli più progrediti del Mediterraneo, quasi per un destino avverso, resta il fanalino di coda dell’Italia e considerata come il terzo mondo d’Europa.

VITO MARINO

 
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