Creato da smittino il 22/10/2006
Il lato oscuro dell'economia

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il fatto del giorno 2

17/10/2011
Contnua l'altalena delle borse.

11/10/2011
Strano: le agenzie di rating declassano i debiti, sovrani e non, e le borse salgono. Non dovrebbe essere il contrario?
Macché: si tratta dei giochini della speculazione. Tutto quello che si scrive sulla correlazione negativa o positiva fra valutazioni dei rating e andamento delle borse è acqua fresca.

10/10/2011
Ieri Kenneth Rogof (Harward) ha scritto che la c.d. tobin tax sulle transazioni finanziarie è deletaria perché oltre a a produrre un calo del gettito, cioè un calo delle transzioni di borsa, eroderebbbe il volume dei capitali, e gli stessi lavoratori finirebbero per patirne le conseuenze. Io ne dubito. Sulla prima tesi mi chiedo cosa dovrebbero farci gli investitori con i fondi che continuano a detenere dopo la tassa? Circa la seconda, dieci parole: il capitale non è determinato dalle tasse sul suo impego.

22/5/2011
Anche l'Italia è sotto osservazione delle agenzie di rating. Temo che sia il preludio di un prossimo attacco speculativo.

2/5/2011
Ieri primo maggio di negozi aperti e di santi, mentre la disoccipazione giovanile è al 29%. 

11/4/2011
Le Banche troppo grandi non possono fallire, perché il loro fallimento sarebbe di sistema. Se hanno problmi sono soccorse dagli Stati. Ma è proprio questa certezza la causa che spinge queste banche ad assumere rischi altissimi. Per cui il loro possibile fallimento è sempre in agguato.

21/3/2011
Comunque finisca, la guerra libica avrà conseguenze negative per l'Italia: se Gheddafi resterà in sella, si farà baciare anche i piedi; se cadrà dovremo vedercela con gli immigrati e, probabilmente, con il terrorismo.

16/3/2011
I giapponesi hanno i mezzi e forse ce la faranno a ricostruire. Ma in occidente non si pagherà nessun prezzo? Ne dubito.

3/3/2011
Ho l'impresione che il mondo occidentale, in nome della rel-politic, (leggi petrolio), stia abbandonando gli insorti libici al proprio destino di oppressi. Se sarà verificato, sarà un massacro.

 

 

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Il fatto del giorno 1

24/2/2011
Il giornale tedesco BILD ha scritto qualche giorno fa: Mario Draghi non deve essere il nuovo governatore della Banca Centrale Europea; quando lui era il vice presidente, della banca Goldman Sachs, questa ha coadiuvato la Grecia a costruire il pateracchio del suo debito pubblico che tutta l'Europa sta ora pagando.

15/2/2011
Un signore, che è Presidente del Consiglio dei Ministri, è stato rinviato a giudizio per gravi reati. Mi sarebbe piaciuto che le due circostanze non fossero state contemporanee.

13/2/2010
Il popolo egiziano s'è svegliato ed ha conquistato la libertà. Mi ha ricordato l'Ode a Walt Whitman di F.G.Lorca che si conclude con questi due versi: "...si sveglia ogni cen'anni/quando il popolo si sveglia".

3/2/2010
Stamattina il TG1 ha fatto dire al presidente del Consiglio: presenteremo un piano per far crescere il paese del 3% e forse anche del 4%, in 5/a. Tralasciando il futuro del verbo 'presentare', c'è qualche economista che ritiene che il piano sia credibile?

27/1/201
L'EFSF ha lanciato con successo la prima emissione di titoli propri, per reperire i fondi di soccorso all'Irlanda: per 5 mln richiesti c'è stata una domanda maggiore di circa quattro volte. Speriamo che sia così anche nel caso di prossime, probabili emissioni.

4/1/2001
Il sole 24 Ore oggi titola: "Dalle PMI (Piccole e Medie Imprese) una spinta al PIL".
Meno male, visto che quello legato alla finanza è come 'il raggio verde': quando si vede è un'illusione.

1/1/2011 
Gli interessi sui titoli italiani aumentano. Sembra una buona notizia, ma non lo è. Quando gli interessi salgono, significa che i compratori, temendo un default, pretendono di più.

20/1/2011 
Pagano le proprietà o le utilità, i risparmi o le spese?

7/1/2011 
Il banchiere è uno che vi presta l'omrello quando c'é il sole e lo rivuole indietro appena incomincia a piovere (Mark Twain).

 

 

 

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E' la finanza bllezza

Post n°89 pubblicato il 18 Marzo 2011 da smittino

1. Nel post precedente ho raccontato che la speculazione internazionale sta aggravando la situazione economica e complessiva che in questo momento vive il Giappone.
Non ho detto con quale meccanismo, perché nessuno lo conosce con certezza.  Sembra che ci sia una corsa all’acquisto di Yen, per coprire eventuali, prevedibili perdite su titoli di società private di quel paese, finanziati a debito. Sennonché, l’aumento della domanda di Yen fa aumentare il cambio contro le monete che hanno rapporti commerciali col Giappone, il che provoca un aumento dei prezzi delle esportazioni e una perdita di competitività dell'intera economia del paese.
A Napoli si dice: U ccuottu ncopp’u bbulluto, il cotto sul bollito.

2. L’agenzia d'informzioni Reuters ha dichiarato  che alle 23 di ieri notte si sono riuniti in videoconferenza i ministri delle finanze del G7 (USA, Regno Unito, Francia, Germania e Giappone) per far sapere che la banca centrale del Giappone non sarà lasciata sola a difesa dello Yen. La notizia ha fatto, in parte, alleggerire l’attacco speculativo.

3. Ma “chi sono questi speculatori?”, si chiede oggi un esperto di finanza internazionale.
E leggete cosa si  risponde: “Non sono necessariamente cinici personaggi che approfittano del dramma che sta vivendo il paese. In serata (di ieri, n.d.r.) una nota dell’agenzia Dow Jones, riportando un’anonima fonte svizzera, ha sostenuto che il repentino balzo dello yen sia stato provocato dalla decisione di Barclays di chiudere per un’ora la propria piattaforma (Barx), visti gli ampi spread tra denaro e lettera che s’erano aperti sulla valuta nipponica… Ma va tenuto presente che sul mercato yen/dollaro stavano operando parecchie banche straniere che si sono precipitate a fare liquidità per coprire gli acquisti di azioni effettuati a debito. E la via più breve è stata operare sul mercato valutario forword e swaps (a termine)”.

4. Ci avete capito qualcosa? Io poco.
Ma s
o che Barclays, oltre che una banca come tutte le altre, è soprttutto una banca d’affari mondiali e Barx la sua unità operativa per questi affari. Le altre banche cui si fa riferimento non sono diverse. Per  garantirsi dal quasi certo cattivo futuro andamento dell’economia giapponese, tutte hanno fatto incetta di Yen, incuranti delle conseguenze che provocano e che conoscono meglio di tutti noi.
E so anche che i contratti a termine (forward e swaps), essendo delle vere e proprie finzioni di scenari futuri, finiscono per far lievitare i prezzi della 'cosa' contrattata, cioè dei soldi o delle cosidette comodities (petrolio, grano, mais, soia, ecc). Se oggi che il petrolio vale 105 dollari il barile, contratto quello di settempre, va da sé che, viste le aspettative, sono disposto a scontare il prezzo presumibilmente maggiore di settembre. Naturalmente a settembre, in virtù dei contratti a termine stipulati prima, il prezzo del perolio sarà maggiore di quello di oggi. La famosa profezia che si autoadempie (R.Merton): quando si dice che una cosa succede, tutti adottano comportamenti perché aucceda. Nel nostro caso con l'aggravante che i contratti a termine non sono cose che si dicono, ma cose che si fanno. 

5. Ma è la finanza bellezza.

                                                                                                                                                                                                          

 
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Terremotati e aiuti (eventuali)

Post n°88 pubblicato il 16 Marzo 2011 da smittino
Foto di smittino

1. Il recente terremoto che ha colpito l'isola dei samurai ha causato disastri attualmente incalcolabili. E’ molto probabile che il governo di Tokyo, per riparare i danni, che sono secondi solo a quelli dell’ultima guerra mondiale, farà rientrare buona parte dei circa 3.000 mld di $ investiti nelle mura domestiche e all’estero (M.Valsania - Il Sole 24 Ore del 16 marzo 2011, p. 5).
Il ritiro di questi investimenti, nella misura in cui avverrà, verosimilmente, avrà forti ripercussioni sull’economia giapponese, ma anche su quella degli stati prestatori nei confronti del Giappone.
Sullo specifico farò considerazioni, quando si avranno dati concreti. Adesso mi preme fare una sola considerazione. 
Le conseguenze che sono attese per il dopo terremoto hanno già fatto registrare un calo verticale  del c.d. indice Nikkei. Questo indice è un numero, che esprime il valore medio della capitalizzazione della borsa di Tokyo. Dall’11 marzo al 15 marzo , due soli giorni, è calato verticalmente da quasi 10.500 a meno 8.500, con una perdita del 10,55% (cliccare sulla figura).  Fenomeno che non si era verificato neanche durante la recente crisi 2007-2009.
I giapponsi e gli invstitori stranieri, dunque, hanno già subito questa perdita. 
Perché è successo, se in due giorni, in quel disastro, non era disponibile alcun dato ufficiale riguardo ad un qualsiasi, eventuale andamento negativo dell’economia o della finanza?
A mio avviso le poche risposte sono semplici.

2. Intanto ha giuocato un ruolo importante il cinismo della finanza: ‘show mast go on’, lo spettacolo (della finanza) doveva continuare, nonostante il disastro; e per continuare il teatro (la borsa) doveva essere funzionante; e così è stato.
Uscendo di metafora, a borsa aperta, gli operatori locali, forse per lo shock subito, sono stati abbastanza defilati e alcuni, addirittura assenti, ma la grande speculazione internazionale (i famigerati Hedge Fund), specialmente americana ed europea, è stata presentissima, e per paura del peggio ha ‘giocato’ (e sta giocando ancora) al ribasso, sbarazzandosi il più presto possibile del c.d. portafoglio nipponico. Cioè sta vendendo a man bassa i titoli pubblici e privati comprati in Giappone, aggravando così il delicato, quanto pericoloso momento che sta vivendo qul paese.
In secondo luogo una responsabilità non secondaria l'ha avuta e la sta avendo il governo che, pur consapevole di quello che sta succedendo, non ha fin’ora preso l’unico provvedimento adeguato per a frenare la possibile debacle finanziaria: la chiusura della borsa. Magari solo per qualche giorno, ma anche, eventualmente, per un periodo. Evidentemente il governo deve, in qualche modo, rendere conto ai signori della finanza. Anche in questo caso a danno di 'pantalone', perché i dollari che si spenderanno sono risparmi del popolo giapponse.

3. Forse fra qualche giorni ci sentiremo interpellare per un versamento su un conto corrente, per una telefonta a qualche numero indicato da un quiz televisivo, o per qualche altro obolo a favore dei terremotati del Giappone. Se c'è qualcuno che aderisce, che sappia, almno, che altri, volendo,  avrebbero potuto far meglio e di più. 

   

 
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I campioni del profitto

Post n°87 pubblicato il 07 Marzo 2011 da smittino

1. E’ notizia di questi giorni (‘Affari e Finanza’, inserto di ‘La Repubblica’ di oggi 7.3): gli Hedge Fund (HF) hanno sorpassato le banche e sono “campioni  mondiali del profitto”.
I primi 10 migliori fondi, fra i quali spiccano ‘Quantum Fund’ di George Soros e ‘Paulson &C.’ di John Paulson, nel  2010 hanno guadagnato 28 mld di $ USA;  le prime sei banche 'solo' 26 mld.
Una bella sorpresa: questi risultati non solo incrementano il PIL di qualche paese, ma fanno aumentare il valore dei titoli e la ricchezza dei fortunati che li possiedono. Ma sono anche segnali di fuoruscita dalla crisi?
Non ne sarei tanto sicuro.

2. Gli HF, sono organzzazioni (i più importanti vere e proprie società di capitali) che raccolgono fondi e li investono in operazioni ad alto rischio speculativo, lucrando altissimi guadagni, ben lontani da quelli che si realizzano nei mercati regolamentati. A questo tipo di guadagni vanno aggiunte le commissioni relative alle operazioni svolte per conto della clientela, che possono raggiungere la ragguardevole cifra del 20%. Considerando che ciascuna operazione è un investimento di alcune centinaia - a volte migliaia - di mld di $, non è difficile immaginare l’entità dei guadagni che queste organizzazioni realizzano. Del resto le cifre indicate - ufficiali perché pubbblicate -sono eloquenti.
Fino all’ultima crisi gli HF non sottostavano ad alcuna regola. Solo dopo la crisi, quelli che gestiscono patrimoni superiori a 100 mln di $ USA, devono registrarsi presso la SEC (Securities Exchmge Commission, ovvero Autorità di Vigilanza sulla Borsa americana). 
Hanno costi di organizzazione e gestione bassissimi. Per averne un'idea, si pensi che nel 2010 il fondo ‘Paulson & C.’ ha operato con 120 dipendenti, mentre la banca ‘Goldman Sachs’ ha operato con l’organico stabile di 32.500 unità.
Ma quello che più conta è che quasi sempre gli HF fanno capo ad organizzatori che sono stati - o sono stati vicino a - alti funzionari delle principali istituzioni finanziarie mondiali, ministri del tesoro, consiglieri economici dei governi di potenze mondiali, e via elencando, per cui dispongono di informazioni che spesso gli operatori comuni non conoscono, e per questo operano in posizione di vantaggio.

3. Gli alti guadagni degli HF sono - direi per natura - destinati a nuovi investimenti speculativi, che essendo, come abbiamo visto, a bassa intensità lavorativa, non danno luogo ad aumento dell’occupazione, e, quindi, dei consumi, degli investimenti produttivi e della crescita.
Ma c’è dell'altro. Poiché gli investimenti in HF danno alti rendimenti, le banche stesse, invece di investire in credito alle imprese, investono in HF, finendo, così, per depauperare il mercato del credito ‘produttivo’.
E, per ultimo: gli HF oltre a questo danno, sono anche una beffa. Appartenendo ad organismi transnazionali, sono apolidi e, verosimilmente, per la maggior parte del loro busines, non chiamati a rendere conto del loro operato: per trasparenza, tasse, liceità ecc.

4. La mia conclusione in proposito è la stessa del post di questo blog, n. 80 del 22 novembre scorso: finché le risorse nascono, fanno profitti e, come spesso accade, si disperdono nella finanza, è inutile sperare che si cresca.   

 

 
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Non è una cosa seria.

Post n°86 pubblicato il 23 Febbraio 2011 da smittino

1. Forse non molti sanno che le banche fanno un lavoro che ha del miracoloso(sic!): prendono denaro a prestito (depositi), pagando un interesse, e lo prestano (crediti) ad altri facendosi pagare un interesse. E guadagnando la differenza fra l’interesse che pagano e quello che incassano.
Per fare questo lavoro le banche devono garantire, in qualunque momento, la restituzione del denaro che hanno avuto in prestito. Se la garanzia viene meno, sono insolventi.
C’è ancora un particolare: la garanzia riferita è affidata ad una sorta di fondo, che ogni banca deve tenere in contabilità e che, tecnicamente, è denominato riserva. In dipendenza delle regole vigenti, la riserva si aggira intorno al 20% dell’ammontare dei depositi ricevuti e, spesso, non è rappresentata da liquidità immediata.
A volte può succedere che una banca, per motivi diversi, abbia immediato bisogno di liquidi. In tal caso ha tre canali di finanziamento a breve termine:
- si rivolge ad un’altra banca, pagando un interesse. di solito inferiore all’1%;
- partecipa alle aste settimanali della banca centrale (BCE) e ottiene il denaro di cui ha bisogno all’1%;
- preleva la somma che le occorre, direttamente da un apposito sportello d’emergenza della BCE, pagando l’interesse dell’1,75%, con l’obbligo di restituzione di quanto prelevato nelle 24 ore.

2. Il 15 febbraio scorso la BCE ha fatto un’asta, nella quale ha assegnato 253 mld. di euro. La notte fra il 16 e 17 successivi una banca, ancora senza nome, ha prelevato dallo sportello d’emergenza  16 mld di  euro; il 17, più banche hanno prelevato altri 16 mld.
Tanto è bastato per mandare in fibrillazione tutta la finanza internazionale. Perché - è stata la domanda - due prelevamenti così elevati, fatti in emergenza e pagati all’1,75% per sole 24 ore, se uno e due giorni prima erano disponibili somme anche più elevate all’1%? C’era forse in giro qualche banca in stato di fallimento? E quale banca era?
Ancora nessuno sa cosa sia successo.
Siccome nessuno più ne parla, e nella finanza i ‘guai’ succedono ad horas, probabilmente niente di grave c’era sotto. Si sarà trattato del solito errore tecnico, come usa dire.

3. Però io mi sono fatta una domanda: e se la fibrillazione che c’è stata avesse innescato il panico per il timore di qualche nuovo focolaio di crisi, e il panico fosse durato un paio di giorni, cosa sarebbe successo?
La risposta è ovvia: avremmo avuto un nuovo bel tonfo delle borse e poi…e poi.
Ma questa è la finanza che vogliamo?

 
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Innovazione creatività e crescita

Post n°85 pubblicato il 20 Febbraio 2011 da smittino

1. E’ in corso un dibattito sul futuro prossimo che ci attende, relativamente a sviluppo economico e sviluppo sociale e civile più in generale. Avviato in America, è giunto in Italia per merito di alcuni articoli pubblicati sulla stampa specialistica, fra i quali segnalo quello di R. Sorrentino e quello di D. Roveda, apparsi sul ‘Sole 24 Ore’, in ordine, il 17 e il 19 febbraio scorsi.
Le tesi, non tanto contrapposte, sono per il momento quelle riconducibili a due signori che hanno già suscitato tanto interesse intorno a loro. Dei quali signori, qualunque cosa si volesse pensare o dire, ciò che sicuramente non si può pensare o dire è che non abbiano idee chiare.
Il primo è Tyler Cowen, economista ed animatore del blog ‘The great stagnation’.
Egli sostiene che le nuove tecnologie  non hanno indotto l’aumento di produttività che ci si sarebbe aspettato. Per questo, allo stato in cui attuale, non sono la via sicura per la crescita. Se davvero si vuole la crescita, occorrono tecnologie altre, che siano in grado, poi, di sostenere gli effetti nuovi che da essa possono scaturire. Sicché, non è più tempo di pensare alla crescita solo nel suo aspetto dimensionale (aumento della quantità di ciò abbiamo e sappiamo), c’è bisogno, invece, di immaginarla anche e soprattutto come innovazione, perché solo con l’innovazione la crescita sarà anche qualitativa, quella che occorre per misurarci con le nuove sfide che ci attendono.
A fronte di simili tesi, ovviamente ci sono già quelle contrapposte, che possono essere così sintetizzate: con le nuove tecnologie e lo sviluppo esponenziale delle stesse abbiamo ciò che ci serve per crescere. Piuttosto quello che manca è una governance adeguata.
L’altro, studioso è stato un gestore di hdge fund e si chiama Andy Kessler.
Le tesi che sostiene questo signore rafforzano e vanno oltre le convinzioni di Cowen, e sono contenute in un libro da un titolo eloquente: ‘Eat people’ (più o meno: ‘Gente mangiata’); che si possono riassumere come segue.
Le nuove tecnologie elimineranno molte figure professionali (fra queste, non solo quelle minori, ma persino medici, avvocati ecc.) e solo un’innovazione creativa offrirà occasioni di lavoro e, quindi, crescita. Cioè: non sarà sufficiente per crescere la sola innovazione, ancorché qualitativamente nuova. Per crescere sarà sempre più necessario essere creativi. Per innovare nella natura del lavoro, dei lavori, nella gestione delle migrazioni geografiche dei fattori produttivi, ecc., dimenticando per sempre le idee che abbiamo avuto in passato su questi temi. Il lavoro che non dovrà più essere fuori di noi, in posti fissi, ma essere parte di noi, per essere speso dove saremo o vorremo essere.

2. Come è evidente, le tesi riportate in estrema sintesi, ci conducono direttamente ad un liberalismo perfetto.
Sul quale non aggiungo altro a quanto ho già ripetuto in precedenza su questo blog. Per chi volesse averne un’idea, rimando al post n. 74 del 22 agosto 2010.
Qui mi limito a fare una sola considerazione.
Anche io sono convinto che senza innovazione, o innovazione creativa, difficilmente si creeranno nuovi posti di lavoro. Ma questo vale in una visione del mondo ridotto all’insieme dei paesi sviluppati, dove effettivamente se non ci si inventa giorno per giorno, c’è davvero poco da fare. Perché abbiamo tutto.
Per questo penso che, mentre lasciamo lavorare le intelligenze per innovare e creare (magari con qualche sostegno da parte degli stati, cosa che certamente non avviene nel nostro paese, dove la spesa in ricerca e sviluppo è ridotta al minimo simbolico) potremmo impiegare le tecnologie disponibili in luoghi dove mancano persino i beni comuni come l’acqua, senza parlare di quelli di prima necessità, come la corrente elettrica, i medicinali ecc.
Non sarebbe questa una via per crescere subito, in attesa che innovazione e creatività facciano il resto?
 

 
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Una seria domanda ingenua

Post n°84 pubblicato il 09 Febbraio 2011 da smittino

1. All’inaugurazione della nuova sede della London School of Economics la regina d’Inghilterra ha chiesto ai presenti perché gli economisti non hanno previsto la crisi che data 2007-2009, ma della quale ancora non è chiaro l’epilogo.
Seduta stante qualcuno ha risposto qualcosa. Poi un bel gruppetto, formato da esponenti della banca centrale, della Goldman Sachs e da altre celebrità, ha fatto pervenire alla Corona una lettera più circostanzia nella quale, più che rispondere alla domanda, è stato accennato ai motivi della crisi, ricondotti ai bassi tassi d’interesse americani, al denaro facile e all’insolvenza dei prenditore di mutui sub prime. Tutte cose risapute che non è il caso di riprendere.
Oggi un giovane ed affermato professore dell’Università di Chicago, Raghuram Rajan ha pubblicato un lungo articolo, nel quale, in parte,  svela il mistero. “…La vera ragione per cui gli accademici non hanno previsto la crisi - egli dice - potrebbe non risiedere nei modelli inadeguati, nell’accecamento ideologico o nella corruzione, ma in qualcosa di decisamente banale e preoccupante: molti non ci hanno fatto semplicemente caso”.  Per il resto, la risposta che dovrebbero dare gli economisti non accademici, tipo quelli che hanno risposto alla Regina, mistero era e mistero resta.

2. L’onestà intellettuale del professore di Chicago è pari all’impegno che egli ha profuso nella elencazione puntuale sia delle scusanti addotte dalla categoria  per giustificare l’insuccesso,  sia delle ragioni per cui, a suo giudizio, quelle indicate più che scusanti appaiono poco più che balbettamenti. Non c’erano utili modelli esplicativi? No, ce n’erano a iosa. Gli studiosi sono stati accecati dall’ideologia dei ‘mercati efficienti’  e hanno creduto che la crisi si sarebbe riequilibrata da sola? No, ci sono stati economisti che non lo credevano. Gli economisti sono stati ‘corrotti’ dal sistema? No, perché molti sono rimasti indipendenti. Donde la conclusione: molti non ci hanno fatto semplicemente caso... (alla crisi incombente). Poggiata, fra l’altro su argomenti non trascurabili: l’accademia è specialistica; l’accademia è lontana dal mondo reale; fare previsioni è difficile.
Quello che, secondo me, non torna nella riflessione del professore è che il sistema, cioè l’insieme di economia e finanza - finanza regolata e finanza hedge, regolatori e regolati, osservatori, banche ordinarie e d’investimento, in tutte le possibili combinazioni esistenti - è visto come un totem intangibile, perché regolato da leggi: un unicum, complesso si , ma scientificamente indagabile.
Dalla Scienza Economica, appunto.

3. Nel corso dei miei modesti studi di questa disciplina sono venuto a conoscenza di alcune questioni che considero di fondo, fra le quali elenco le seguenti:
- l’economia è una scienza sociale, una scienza, cioè, che si occupa del comportamento economico degli uomini. Come tale, perviene a risultati che hanno un’attendibilità temporale ridotta rispetto a quelli delle c.d. scienze esatte, atteso che la mobilità umana è molto più rapida di quella natura;
- una scienza sociale è, quasi unanimemente, considerata  soggettivistica, dipendente, cioè, dalle premesse di valore degli operatori, e non sono andati lontano coloro che hanno tentato di accreditarne una valenza oggettivistica.
Tralasciando assunzioni consegnate alla storia, tipo:
- l’economia liberista è economia volgare, e la borghesia capitalistica la contrabbanda come scienza, solo per giustificare lo sfruttamento del lavoro (K.Marx);
- l’economia liberista è una scienza al pari della Fisica, nella quale sono distinguibili le stesse leggi (G.Palomba);
tralasciando questo, dicevo, mi chiedo - e chiedo anche a chi volesse rispondere -: che senso ha oggi parlare di mercati, andamento dei mercati, decisioni dei mercati, quando si sa che un’impresa, le scelte del mix fra industria e finanza, il trading in borsa, e le stesse speculazioni, fanno capo alle decisioni persone fisiche, i cui comportamenti sono tutt’altro che razionali, visto che spesso sono legati ad eventi contingenti ed imprevedibili e che la c.d. economia comportamentale è ancora ai primi timidi passi?

4. In attesa di risposta, accenno quello che penso io.
Il liberalismo economico è un’astrazione e il famoso meccanismo della ‘mano invisibile’, che è stato attribuito ad Adam Smith in una versione di comodo e che regolerebbe i disordini economici, in realtà non esiste. Nelle economie occidentali le crisi sono state sempre risolte dai vituperati interventi pubblici. Per cui c’è poco da illudersi: siamo tutti dipendenti statali, banche ed hedge fund compresi.  Senza salari, pensioni, servizi, sussidi, contributi e aiuti pubblici non ci sarebbe attività economica. E i mercati efficienti e la globalizzazione sono costruzioni teoriche per sospingere l’accrescimento della ricchezza, cioè, del ‘Capitale’.
Ma se di questo si tratta, è vagabondo chiedersi perché in certi momenti interviene una crisi. In un sistema in cui la variabile indipendente è il capitale, è evidente, che non potendo esso crescere all’infinito, prima o poi, si va incontro ad una crisi. Cha altro non è se non la mancata crescita, come usa dire oggi, dimenticando però di precisare che è una mancata crescita del capitale.
Io credo che per indagare proficuamente il mondo dell’economia, sia necessario esplicitare le premesse di valore dalle quali si parte.
Se il valore che ci interessa è il capitale, il sistema economico va considerato in funzione di esso, e si deve accettare che la soddisfazione dei bisogni umani resti un fatto residuo. In questa visione, il sistema produce crisi, anche ricorrenti, lo sappiamo per esperienza, ma non abbiamo bisogno di indagini specifiche, per conoscerne le cause: sono connaturate al sistema capitalistico.
Se, invece, il valore che ci interessa è l’uomo, il sistema va visto in funzione dell'uomo, e le ragioni del capitale diventano fatto residuo. Questo funzionamento del sistema non può produrre crisi nel senso voluto dall’economia liberista, ma solo eventuali inefficienze legate all’evoluzione dei bisogni delle persone; alle quali inefficienze si può rimediare mediante una rimodulazione del rapporto domanda-offerta.
Su quanto precede poggio la mia conslusione: l’indagine del mondo economico, cioè, la Scienza Economica, é strettamente legata ai valori che si professano e i risultati ne sono la conseguenza.
Ogni altro tipo d'indagine è priva di significato.

 

 
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"il noto e l'ignoto"

Post n°83 pubblicato il 04 Febbraio 2011 da smittino

1. Quando (fra quanti anni?) avrà esaurito tutti gli effetti, la guerra irachena sarà costata all’America 3.000 miliardi di dollari e al resto del mondo circa il doppio. (Joseph Stiglitz, premio nobel per l’econoia 2001, e Linda J.Bilmes, docente alla Kennedy  School Govenment della Harward University - La guerra di 3. 000 miliardi di dollari - Einaudi Editore 2009).
Nella guerra sono morti 4.000 soldati americani, 100.000 sono stati feriti e decina di migliaia, e forse centinaia di migliaia, sono stati i caduti sul fronte iracheno. (V. Zucconi - La Repubblica del 4 febbraio 2011).
Tutto per motivi che forse non conosceremo mai, ma sicuramente non per quelli che sono stati ufficialmente forniti.

2. Come è noto la guerra è stata giustificata:
1. con il rifiuto da parte di Saddam Hussein  di ‘deporre’ le armi di distruzione di massa. (Inutili sono state a questo proposito le smentite dell’AIEA -Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica);
2. con la certezze che il regime iracheno avesse collegamenti con i terroristi di Al-Qaeda. (Nessuno l'ha mai dimostrato).
A suo tempo siamo stati invitati a credere a quanto riferivano i servizi segreti ed il ministro della difesa americani, ai quali faceva da megafono il governo inglese.
Le persone di buon senso non hanno mai creduto alle loro menzogne. Nemmeno quando Il segretario di Stato americano Colin Powell all’Onu e il premier inglese Tony Blear al Parlamento, hanno mostrato come pistole fumanti le famose ‘provette’ contenenti le armi batteriologiche di cui anche si parlava. La persone di buon senso hanno sempre pensato che i motivi della guerra fossero ben altri. Bastava fare ‘due  più due’ per capire che la guerra irachena era una delle tante guerre per il petrolio. Ma chi poteva convincere il mondo occidentale di una prova del genere, nel momento in cui era ancora sotto shock per il famigerato attacco alle Torri gemelle di New York!

3. Oggi la verità l’abbiamo, e proviene da una fonte al disopra di ogni sospetto: l'ex ministro della difesa americana Donald Rumsfeld. E la verità è che la guerra all’Iraq e all’Afganistan erano state progettate da tempo; si aspettava solo il momento opportuno per innescarle.
In un suo libro dal titolo ‘Il noto e l’ignoto’, che a settembre prossimo uscirà in America, e poi magari anche altrove ed anche in Italia, questo ancora “arrogante” personaggio ci racconta come sono andate le cose. E c’è da rabbrividire.
Ecco alcuni passaggi del libro riportati da Zucconi nell’articolo indicato.
Uno. Nelle ore successive all’11 settembre Bush aveva deciso subito, ancora sulle rovine calde delle torri e del pentagono, di invadere l’Iraq,  e s’informo: “I piani per la guerra sono pronti?”. E quando gli risposero: “ Della guerra in Afganistan?”, lui si stupì e rispose: “Ma no, la guerra in Iraq”.
Non è questa la prova che per le due guerre mancavano solo i piani?
E due. Rumsfel è stato colui che ha fatto diventare incredibilmente leggendaria una sua frase ricorrente. Di fronte ai disastri che succedevano, specialmente nei primi mesi di guerra, non sapeva dire altro che: “Sono cose che succedono”. E dire che uno di disastri irreparabili di qui giorni era la distruzione della civiltà millenaria della Mesopotamia, come lamentava ad una televisione in tempo reale un intellettuale del luogo.
E ancora. Sempre lui, saputo del saccheggio del museo di Bagdad, si limitò ad osservare. “…Qualche vaso…Dio mio, ma quanti vasi hanno questi in Iraq”!


4. Che triste cinica verità!

 

 
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Un colpo al cerchio ed uno alla botte

Post n°82 pubblicato il 29 Gennaio 2011 da smittino

1. Un mio carissimo amico mi ha inviato uno scritto sulla attuale situazione culturale e politica che vive la nostra regione.

La riflessione, individuate le cause dell’attuale degrado in una classe dirigente incolta, che non ha ambizioni oltre il tornaconto personale, propone una linea d’azione civile da svolgere secondo i seguenti steps:
- riscoperta dei valori autoctoni della regione;

- attualizzazione degli stessi secondo canoni di modernità;

- creazione di un movimento ‘autonomo’ che li assuma come riferimento per  un cambiamento, prima culturale e poi politico.
Avendo apprezzato l’idea, che è anche sostenuta da altre molto autorevoli, gli ho fatto sapere di condividerla e, per quel che potrebbe servire, d’essere pronto a partecipare ad ogni iniziativa concreta diretta alla realizzazione dell’obiettivo proposto.

Però ho voluto fargli sapere come ho inteso, o come, secondo me, dovrebbe essere intesa la sua idea. E gli ho scritto quello che segue.

 

2. In generale, quando penso a valori (autoctoni o altri), penso a quelli storicamente determinati, socialmente condivisibili e regolati, di talché siano inequivocabili; quando penso a cambiamenti, penso a risultati di processi; e quando penso a movimenti, penso che i promotori dovrebbero vedersi periferia e non centro del movimento.
So che, per queste convinzioni, potrei essere accusato d'essere un nostalgico dello ‘stato etico’, che tanti guai ha prodotto in passato. Ma ritengo che un’accusa del genere non dovrebbe riguardarmi molto, dal momento che tutto quello che domando è onestà intellettuale nella individuazione dei valori, per far si che non passino per universali qualli personali.

Oggigiorno si assiste a fatti curiosi. C’è, per esempio, il vezzo di ergersi a paladini della c.d. ‘par condicio’, ritenendo che sia il passe-par-tout per attravrsare idee opposte. Così succede che se si prende posizione contro qualcuno o qualcosa, bisogna, necessariamente, additare i contrari, per rispetto di questo totem, che, secondo me, è contrario ad ogni principio morale: un valore, testato come sopra, è o non è. 
E per andare a concretezza.
Si parla oggi di ‘buona e mala politica’, quasi ad accreditare l’idea che quella che scorre davanti ai nostri occhi sia solo ‘mala politica’. È una civetteria. La politica non ha mai avuto bisogno di qualificaficazioni: la politica è la 'Politica' e tutto ciò che ne sta fuori è malaffare, almeno solo peché è impolitico. Penso che questa sia ‘la visione delle cose’ che dovrebbe farci distinguere le situazioni in termini di valori o disvalori.

Per esempio: quando 'vigevano' i valori autoctoni, non solo i mafiosi erano ludibrio, ma anche i portatori di spirito di mafiosità; perché brodo di coltura della mafia. Oggi non è più così. Oggi non si può dare del mafioso ai tanti ‘politici’ (sic!) che fanno affari - leggi 'malaffari' - e che, per nostra dabbenaggine, prendono il caffè con noi; non si può, e sarebbe addirittura ingiusto. Perché, secondo il politically correct che impera, i poverini, fanno solo ‘mala politica’. E’ una buffonata! Sono mafia.

3. Se vogliamo uscire dal pantano in cui siamo cacciati, ritengo che dobbiamo fare più chiarezza sul tema dei valori. E per farlo, dovremo decidere - e dichiarare anche - da che parte stiamo. Diversamente, il pantano lo alimenteremo.

E voglio dirla tutta: coloro che danno un colpo al cerchio ed uno alla botte, se non non ben intesi - e chi ha interesse a ben intenderli? - potrebbero dare ai contendenti l'impressione che si perora loro causa, facendo aumentare, così, i motivi e, per certi spetti, il livello dello scontro.  

Coraggio, amico! Obiezioni, per favore!

 
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A proposito del Fondo Europeo salvastati

Post n°81 pubblicato il 19 Gennaio 2011 da smittino

Qualche giorno fa un noto opinion maker ha posto all’attenzione di tutti un problema sul quale l’Europa forse non sta riflettendo abbastanza, o adeguatamente. E quanto stanno discutendo in questi giorni i 17 ministri dell’Eurogruppo sembra esserne la dimostrazione.
Dice nostro: i CDO (Collateralized Debt Obbligtion) sono stati gli strumenti finanziari che più hanno concorso a determinare la crisi 2007/2008. (Crisi  - aggiungiamo noi - catalogabile come vera e propria depressione, che, ancora, è  tutta con noi).
E  argomenta: è vero che i CDO, per molto tempo,  sono stati graziati dalle agenzie di rating della tripla A, ma nessuno ha visto - o ha fatto finta - che poggiavano su un mare di crediti di valore effimero, essendo in gran parte crediti sub prime. Venuti meno questi crediti, è crollato il valore dei CDO e, con essi, i patrimoni degli intermediari finanziari che li avevano in pancia, con tutto quello che ne è seguito.
Il fenomeno potrebbe ripetersi.

Come è noto, l’Europa ha varato l’EFSF (European Financial Stability Facility), più conosciuto come fondo salva stati,  che è un fondo di garanzia della stabilità finanziaria dell’aria euro, chiamato a  soccorrere gli stati i cui debiti pubblici dovessero essere oggetto di attacchi speculativi.
l’EFSF funziona così:
1. per la sua attività (di soccorso) può emettere propri  titoli, che fino a 440 miliardi di euro sono garantiti dagli stati promotori, comprensivi di una quota di riserva di cui dirò fra poco;
2. quando uno dei paesi considerati a rischio è sotto attacco, su richiesta dello stesso, interviene - eventualmente i concorso con il Fondo Monetario Internazionale ( FMI) - o con prestiti, o comprandone i titoli.
I paesi considerati a rischio sono i c.d. PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna);  alcuni dicono i PIIGS, (Portogallo, Irlanda,Italia, Grecia e Spagna).
La Grecia, in seria difficoltà già prima dell’EFSF, è stata aiutata direttamente dall’Europa e dal FMI.
Sull’Irlanda, l’EFSF è già intervenuto con 85 miliardi.
Per la sua missione, al fondo resterebbero attualmente  355 miliardi. In effetti la disponibilità residua reale è di circa 250 miliardi, perché la differenza è immobilizzata a garanzia del proprio debito, di tal ché possa conservare la tripla A che gli è stata assegnata quando è nato.
E’ una cifra sufficiente?
I ministri dell’Eurogruppo ritengono di no e chiedono di raddoppiare la dotazione originaria. I paesi a debito pubblico con tripla A (Germania, Francia, Olanda, Austria e Finlandia) si oppongono, per timore di veder raddoppiare la loro quota di garanzia dell’EFSE.
Tutto sarà deciso - forse - a marzo prossimo.

Stando così le cose,  c’è la preoccupazione - si dice ‘dei mercati’, ma più correttamente si dovrebbe dire ‘di chi possiede i titoli dei debiti pubblici europei’, che poi, in definitiva, sono banche d’affari  ed hedge fund -; c’è la preoccupazione, dicevo, che i debiti pubblici europei possano  saltare da un momento all’altro: dopo Grecia e Irlanda la possibile difficoltà (sic!) potrebbe riguardare il Portogallo, la Spagna e forse la stessa Italia; e, di nuovo, Grecia e Irlanda. Semplicemente perché l’EFSF non avrebbe più i fondi necessari per intervenire. E sarebbe il crac generale.
E attenzione: l’ipotesi non è del tutto remota, se è vero che la speculazione minaccia il Portogallo, ruota intorno alla Spagna e il c.d. ‘effetto domino’ incombe. (L’effetto domino essendo il passaggio della speculazione da un paese all’altro, fino ad interessare anche quei paesi che, per il momento, si sentono al sicuro).

Questa preoccupazione, probabilmente, ha fatto pensare al nostro opinion maker che l’EFSF, nato con ogni buona intenzione, altro non è se non un enorme CDO che, essendo poggiato su debiti pubblici fragili, contiene i sé il germe di una nuova e deflagrante crisi finanziaria, o depressione che dir si voglia, identica a quella che ancora non è finita.
Né è detto che una dotazione arricchita dell'EFES sia la soluzione deguata. Laddove la soluzione giusta sta forse in una governance unica degli affari finanziari europei. 
Sanno questo l’Eurogruppo, la Commissione Europea , i paesi a tripla A e via elencando? E, con il governo che ci troviamo noi, l’ Italia, quale è la forza negoziale del nostro ministro dell’Economia e delle Finanze che partecipa a questi consessi?

 

 

 
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Ripresa ed occupazione

Post n°80 pubblicato il 11 Gennaio 2011 da smittino

1. Da un po’ di tempo il mondo dell’economia (accademia, policymakers, finanza) mandava messaggi angosciati: la ripresa s’intravede, ma l’occupazione resta al palo; qua e là, addirittura diminuisce. E poiché il fenomemo si verificava in contesti di economia liberale, era considerato anomalo e nessuno provava a spiegarlo.
Fra ieri ed oggi ho avuto modo di leggere due interessanti articoli, uno di un professore dell’Univrsità della California ed un altro del professore dell’Università di Chicago. Ad una prima lettura sembravano distanti dalle vulgate correnti. Ad una lettura più attenta, invece, non appaiono significativamente diversi: opposti nel contenuto, denunciano uno certo smarrimento dell’accademia esperta; entrambi, rinunciano ad esprimersi apertamente sul nodo centrale dell’anomalia liberista 'ripresa si, occupazione no'.

2. Nel primo articolo si legge.
“Una delle intuizioni centrali della macroeconomia è un fatto ben noto  a John Stuart Mill già dal primo terzo del diciannovesimo secolo: ci può essere un scostamento tra domanda e offerta per praticamente tutti i beni e servizi correntemente prodotti (così come fra i tipi di lavoro) se vi è un sufficiente eccesso di domanda per gli assets finanziari. Questa importante verità è causa di gravi problemi.”
L’autore, dopo aver chiaramente spiegato il perché, conclude il suo scritto rafforzando la sua convinzione, ma non nascondendo un rammarico. Così: “…gli economisti del diciannovesimo secolo”, egli afferma, “… capirono come il settore finanziario sia all’origine delle depressioni industriali”.  Sembra tuttavia che questo oggi colga di sorpresa “…non soltanto un gran numero di osservatori, ma anche molti decisori politici chiave”.
L’altro articolo non è meno impegnato.
“L’economia è solo una questione di domanda e offerta.” - è l’inizio -“ Sicuramente esiste una situazione di equilibrio e, in caso contrario, subentrano forze potenti in grado di spingere il mercato verso tale equilibrio. Eppure, visti gli elevati e persistenti livelli di disoccupazione negli Stati Uniti ci si pone una domanda sulla natura del problema: è la domanda aggregata che è troppo bassa, o sussistono problemi di offerta?”.
Seguono una serie di argomenti sui determinanti di domanda e offerta, che si concludono come segue. “La lezione per il policymakers è chiara: invece di cercare costantemente di incentivare la spesa e creare potenzialmente problemi per il futuro, sarebbe più logico incoraggiare la crescita occupazionale facilitando la ‘riqualificazione’ dei disoccupati, soprattutto quelli legati al settore edilizio. Alla fine, una migliore offerta di forza lavoro creerà una domanda più florida”.

3. La divergenza dei contenuti dei due scritti è evidente. Il primo, suggerisce di affrontare la disoccupazione, intervenendo sulla composizione della domanda (aggregata) con politiche di deficit-spending;  il secondo, al contrario, d’agire dal lato dell’offerta (di lavoro), qualificandola, di tal ché possa incrociare la moderna domanda.  Entrambi i suggerimenti implicano spese a carico del bilanci degli Stati.
Quello che nei due scritti si trascura, o, comunque, non emerge chiaramente, è ciò che ho indicato come nodo centrale di un’anomalia liberista.
Che accennerei così.
Primo. Le spese a carico dei bilanci degli Stati ci sono state e, a quanto pare, ci saranno ancora.
Secondo. Nessuno ha il coraggio di dire apertamente che i fondi provvisti da tali spese sono serviti per rimettere il piedi la speculazione, a tutto danno del credito e degli investimenti.
Terzo. Seguendo questa logica, ‘le potenti forze’ che raddrizzano i mercati non agiranno e, quindi, l’occupazione riprenderà solo nei rari momenti in cui la speculazione avrà rendimenti poco convenienti, e nel tempo lungo sarà un problema, come è sempre stato.

4. E concludo da uomo della strada: se i soldi non diventano credito e investimento, altro che occupazione e crescita!

 

 
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L'amante degli speculatori

Post n°79 pubblicato il 25 Novembre 2010 da smittino

1. Un noto economista di una prestigiosa università americana ama gli speculatori finanziari.
Non è il solo, ma, credo che sia in pol position.

2. Egli sulla speculazione finanziaria fa un ragionamento sostanzialmente semplice: gli speculatori, lungi dall’essere causa delle crisi economiche, sono piuttosto coloro che le percepiscono in anticipo, e il loro comportamento non è quello di lupi famelici, che divorano le imprese sane, ma iene che si cibano di imprese morte.
Per dimostralo fa l’esempio di un venditore ribassista allo scoperto, cioè, di un signore che non possiede titoli, ma li vende.
Nessuno pensi a Totò che, in un celebre film, voleva vendere la Fontana di Trevi ad un turista americano. In finanza è possibile vendere titoli che non si possiedono. Anzi, l’operazione relativa ha un nome altisonante: si chiama ‘naked short selling’.
In pratica succede che il signore, sostenendo notevoli spese, si fa prestare i titoli. che. poi, vende, per esempio, a 100, scommettendo che quando li dovrà ricomprare per restituirli, costeranno di meno, ad esempio 50. Se la sua previsione si verificherà avrà guadagnato 50; se non si verificherà, perché, per esempio, i titoli costeranno 150, perderà 50.
Lo speculatore è dunque un signore che rischia e se gli va bene guadagna. Che c’è di strano?
Nulla! 
Anzi,si perde tempo, quando si racconta la fondonia che a speculare sono poche persone che sanno le 'cose della finanza', e che decidono a freddo dove e quando attaccare!
Inoltre, c'è da dire che, essendo gli speculatori gente che annusa le  crisi prima ancora che si verifichino, sono un buon termometro per conoscere lo stato di salute dell’economia.
E c’è ancora di più! Operazioni come quella descritta contribuiscono a determinare una sorta di  benefico ‘moltiplicatore finanziario’. Che, detto in parole povere, significa: contribuiscono a ‘far girare i soldi’. E i soldi che girano sono il lubrificante dell’economia, complessivamente intesa, con tutti i vantaggi che ne conseguono (investimenti, occupazione, crescita ecc.).

3. E’ così?
Macché!
Intanto a chi specula interessa poco delle conseguenze, che magari non vorrebbe, ma che spesso sono  pesanti per le persone che vivono con 1.000 € il mese.
Né è vero che chi ‘gioca’ col denaro, mentre persegue il proprio interesse, realizza l’interesse di tutti, alla maniera del fornaio di cui parlava Adam Smith: il fornaio faceva il proprio interesse, ma  dava il pane; chi gioca con i soldi non dà nulla, nemmeno il lubricante per fluidificare il credito, se è vero che, nella crisi attuale, il credito è sparito dalla circolazione.
E’ vero, invece - perché ne hanno parlato i giornali - che l’attacco al debito pubblico greco - per esempio - è stato deciso  da cinque o sei persone, riunite in un ufficio della grande mela. E chiunque mastica un po’ d’economia sa che quando si rincorre un default (insolvenza) finanziario, tutti gli interessati adottano comportamenti che lo producono (famoso teorema di Merton).
La Grecia l'estate scorsa era certamente in difficoltà ad onorare la scadenza dei suoi titoli. Ma se non  fosse intervenuta la speculazione, fra attivazione governativa e aiuti internazionali, le cose forse sarebbe andate diversamente e, comunque, non  sarebbe insorta la paura che, dopo la Grecia, l’attacco speculativo potrebbe riguardare altri stati, fra cui il nostro.
Ma, poi, perché il noto professore non ci spiega come mai – visto che deve sostenere tanti costi e correre tanti rischi – lo speculatore specula comunque?

4. La verità è che la speculazione è il cancro della finanza, prima ancora che dell’economia. E non occorrono tanti argomenti per sostenere questa tesi. Ne basta uno: i maggiori guadagni garantiti dalla speculazione, tendono a rendere speculativa l’ intera finanza. Con la grave conseguenza del progressivo inaridimento dei flussi di credito all’impresa e tutto quello che ne discende, sempre in termini d’investimenti, occupazione ecc.
Varrebbe la pena, allora, di fare qualche riflessione diversa su questi temi. Tipo la seguente: può vivere la finanza, senza speculazione? Io credo di si. A patto che si faccia riferimento a quella che si genera e si esaurisce nel mondo della produzione.
E che passi pure per la borsa.

 

 
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Una parola fuori dal coro

Post n°78 pubblicato il 15 Novembre 2010 da smittino

1. Grazie al professor Dani Rodrik dell’Università di Harvard oggi abbiamo letto sul ‘Sole 24 Ore’ un articolo originale e intelligente, sulle vicende economiche che sono all’attenzione internazionale di scienza  e policymakers. Originale perché non ripete le noiose vulgate pro o contro il mercato, pro o contro  la finanza, pro o contro alcune scelte di politica economica. Intelligente perché, da un lato ha il coraggio dell’originalità, da un altro, rappresenta una proposta che non parla ex cattedra.

2. In estrema sintesi  l’economista afferma:
- l’economia mondiale è malata,
- ciascun paese pensa che la causa sia di qualche altro paese,
- tutti, chi più chi  meno, ritengono che la mancanza d'istituzioni e regole globali aggravano la situazione;
- nel frattempo si sta innescando, non tanto lentamente, una pericolosa guerra valutaria.
Che fare?
- I tecnocrati e la maggior parte dei policy makers suggeriscono di ‘cercar conforto in una maggiore governance globale’ (rafforzamento del Fondo Monetario Internazionale, del G20 cc.).
- Altri ritengono questa una scelta non convincente, dal momento che in passato il rafforzamento delle regole è stato facilmente aggirato dalle ‘politiche domestiche’, con il semplice giochino: tutto ciò che è vietato non si fa, tutto ciò che non è regolato si può fare (v. Cina, sulle regole del WTO) . E’ meglio frenare in qualche modo l'economia globale - gettando ‘sabbia degli ingranaggi’ dice l’autore -  a costo di sembrare protezionisti.

3. L’opzione da privilegiare, per l’autore, è la seconda, sulla base del seguente semplice ragionamento: ‘Gli economisti insegnano le virtù del libero scambio, perché sono vantaggiose per noi e non per altri. Esporre l’economia nazionale ai mercati globali, invece di contenere l’emissioni in casa, ha il proprio tornaconto. Un’economia mondiale fatta di paesi che perseguono i propri interessi nazionali, forse non sarà ultra globalizzata, ma sarà, nell’insieme un’economia aperta’.

4. Come dire: se davvero vogliamo essere liberali, diamo a ciascun paese, cioè agli Stati, la possibilità di agire sui mercati come soggetti economici, portatori degli interessi previsti dalle loro regole interne, e accettiamo che sia la politica (internazionale) a determinare ‘l’equilibrio tra prerogative nazionali e regole internazionali ‘ che dovessero occorrere.  

 
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Le elezioni americane

Post n°77 pubblicato il 03 Novembre 2010 da smittino


1. Come era stato previsto da molti sondaggi, il Partito Repubblicano ha vinto le elezioni americane di midterm. I telegiornali di questa mattina hanno edulcorato la notizie, parlando di perdita alla Camera e di calo al Senato. La realtà dice che dopo queste elezioni la Camera è a maggioranza repubblicana, mentre al senato  la maggioranza democratica è risicata.
Stanotte, quando a scrutini ancora aperti si è profilata la vittoria del partito avversario il presidente Barak Obama ha telefonato al prossimo nuovo speaker della House of Rapresentatives, per congratularsi, e offrire tutto l’appoggio della sua amministrazione, ‘per risolvere i problemi dell’America’,  ha avuto una risposta secca: i problemi dell’America sono la disoccupazione e il debito dello stato, glissando sull’offerta di cooperazione. Questo significa che da oggi in poi amministrazione Obama avrà la strada tutta in salita, e dovrà fare attenzione alle scelte future.

2. Ma perché i democratici hanno perso queste  elezioni?
I motivi che si adducono sono tanti ed apparentemente di diversa natura.
Intanto, secondo alcuni, è storicamente vero che tutte le amministrazioni americane in carica, tranne un paio, in misura più o meno consistente, hanno sempre perso le elezioni di midterm.
Poi, c’è qualcuno che riduce tutto ad una questione di attenzione degli elettori americani nei confronti di chi è al potere: quando pensano che il potere sia troppo forte, e potrebbe compromettere la democrazia, con il voto contrario lo ridimensionano.
Altri commentatori ritengono che queste elezioni siano state un referendum contro Obama, sul presupposto che la sua azione è stata troppo pragmatica e ha fatto scelte che per accontentare tutti, non sono piciute a nessuno.
Infine, c’è chi pensa che L’amministrazione Obama, avviatasi su un programma ricco di promesse, strada facendo ne ha disperso il contenuto, adottando misure sbagliate sui due fronti più significativi:
a) misure idonee a far uscire il paese dalla crisi economica in atto;
b) impostazione della della politica estera.
Al di là delle differenti formulazioni, è evidente che le spiegazioni elencate, in certa misura, sono affiancabili. Sicché è possibile compattarle così: le elezioni americane del 2 novembre 2010 hanno avuto la valenza di ‘punizione’ dell’amministrazione Obama, perché sin dall’avvio non avrebbe fatto scelte chiare né in ’economia, né in politica estera.
E’ così? Vediamo.

3.Politica economica. Quando l’amministrazione Obama si è insediata alla Casa Bianca ha trovato che:
a) era in atto una crisi economica devastante, di cui ancora non si conoscevano entità , possibile durata ed effetti, presenti e futuri.
b) l’amministrazione Bush ed il suo famoso ministro del tesoro - che, a leggere i giornali del tempo, pare abbia avuto parte nella crisi - avevano varato il famoso piano Tarp, per un valore di quasi 800 mln. di dollari, da distribuire secondo regole precise.
Obama si è fatto carico della realtà trovata e ha deciso - ‘per il bene dell’America’ - di tentarne una gestione bypartizan delle decisioni già prese, anziché pensarne altre, che avrebbero solo fatto perdere del tempo prezioso.
Qui, secondo i suoi sostenitori è stato deludente, perché non ha cambiato le decisioni prese prima di lui, evitando che i fondi Tarp, finissero alle banche, le quali anziché riattivarci il credito alle imprese, ci hanno fatto solo speculazioni finanziarie come prima. Secondo i detrattori, invece, non solo è vero quanto sostenuto dai fautori, quanto è vo anche il fatto che quei fondi hanno portato il debito pubblico alle stesse, con grave danno per il paese.
Aggiungiamoci la riforma sanitaria che, secondo molti americani, ha mortificato la libertà delle persone di sceglire come curarsi, ed il quadro è completo.lta

Politica estera.a) due guerre in pieno svolgimento;
b) un terrorismo pienamente attivo
c) la questione palestinese più intricata che mai.
Obama ha pensato di affrontare i relativi dossier sostituendo all’unilateralismo la politica della ‘mano tesa’ anche e soprattutto nei confronti dei c.d. ‘stati canaglia’. Poiché delle due guerre è cessata - e non certo per una vittoria - solo quella dell’Irak, mentre quella dell’Afganistan continua a seminare lutti; poiché il terrorismo ancora si fa sentire minaccioso; e poiché la conferenza di pace fra israeliani e palestinesi segna il passo, senza che sia in vista una conclusione,secondo i fautori , Obama è stato deludente secondo gli  oppositori ha fallito.
  E’ noto che al suo insediamento l’amministrazione Obama si è trovata a gestire:

4.Sono questi, in breve i motivi per cui, secondo una certa opinione pubblica, i democratici hanno perso le elezioni di ieri.
Prima di sperare che nei prossimi due restanti anni di mandato presidenziale Obama sappia e voglia trarne qualche insegnamento dalla sonfitta che, comunque, ha subito, non si può sottacere che c’è qualcosa che non torna in America.
Tutti le fonti informative riportano che:
a) gli affari delle banche e della finanza vanno a gonfie vele;
b) i loro amministratori sono tornati agli stipendi pre-crisi;
c) il PIL è in crescita.
Come mai aumentano debito pubblico disoccupazione? La risposta non è difficile: le risorse che la crescita del PIL produce, sono disperse nei meandri della finanza.
Ma se la risposta è pertinente, è sbagliato pensare che il vero vincitore delle elezioni non sia stato il Partito Repubblicano, ma il gota della finanza, che così spera di bloccare sul nascere la riforma della finanza, appunto, che l'amministrazione Obama ha in procinto di varare in tempi ravvicinati?
Io credo che non sia sbagliato. 

 

 
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PIL si, occupazione no

Post n°76 pubblicato il 27 Ottobre 2010 da smittino

1. Nel post. n.63 ho parlato di produttività  ed, esattamente, della tesi secondo la quale perché aumentino le retribuzioni, è necessario che aumenti la produttività. Ho sostenenuto che se la tesi è vera, lo è solo nel breve periodo, mentre nel periodo medio-lungo tutto ritorna allo staus quo ante. A meno che non si pensi che l’aumento della produttività possa continuare all'infinito, il che sembra improbabile, almeno per la limitatezza dei due termini posti al denominatore della funzione di produttività, questa essendo espimibile, in maniera semplificata, cosi: p=P/aC+bL (con C = capitale e L = lavoro). Oggi ho letto le seguenti parole: “Nonostante siano stati l’epicentro della crisi, gli USA hanno registrato una diminuzione del Pil pro capite più contenuta, in proporzione, di quella di altri grandi paesi ricchi, con l’eccezione della Francia. Ma la disoccupazione americana è salita più che altrove. La spiegazione sta nella crescita eccezionalmente alta della produttività in America, soprattutto nel 2009.” (Martin Wolf - Il Sole 24 Ore - 27 ottobre).
Ho pensato che scienza economica e mentori sono ben strani.
a) A volte affermano che, perché le ragioni del salario migliorino, deve aumentare la produttività. E la spiegazione che si dà è, più o meno, la stessa: se aumenta la produttività, aumenta il prodotto, e quando aumenta il prodotto ce n’è per tutti, anche per i lavoratori.
b)Altre volte affermano che anche se aumenta il PIL (grandezza che ha molto che fare con il prodotto, per tutti i motivi che non è possibile spiegare in questa sede) ciò non implica un aumento dell’occupazione: il PIL può aumentare semplicemente per un aumento della produttività.
Detta in altri termini:
c) secondo alcuni economisti, un aumento di produttività, facendo aumentare il prodotto, rende possibile un aumento dei salari.
d) secondo altri, il processo descritto si ferma all’aumento del prodotto, senza beneficio per i salari, atteso che può non fa crescere l’occupazione.

3. Inutile chiedere spiegazioni. Non saprebbero darne. Perché fanno finta di non capire che l’economia concreta (altro che scienza economica), più che dei determinismi matematici, è amante di scelte politiche.
Constatano con mano che la ricchezza prodotta dal lavoro (il famoso PIL), anziché essere impiegata in investimenti produttivi ad alta intensità di lavoro, in maniera da far crescere l’occupazione, è incanalata nei meandri oscuri della finanza - dove si valorizza, magari facendo aumentare il PIL, ma lasciando le persone senza lavoro e senza salario - e non rilevano che tutto è conseguenza di scelte precise di un capitalismo autoreferenziale e senza regole.

4. Ai lavoratori e ai sindacati che rivendicano miglioramenti, si risponde sempre con il gingle dell'aumento della produttività, come condizione necessaria. Per concludere che in tema non c’è alcuna sensibilità da parte degli interessari.
Io credo che finché non si prende atto che la produttività non può aumentare all’infinito e che, nella misura in cui può aumentare, almeno in parte deve tornare a vantaggio dei lavoratori, la sensibilità di cui si parla non si troverà mai.

 

 
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La guerra vlutaria di cui si parla

Post n°75 pubblicato il 06 Ottobre 2010 da smittino

1.Dopo la crisi della finanza e quella dell’economia reale, è in corso la cosiddetta ‘guerra delle valute’, cioè, una nuova crisi che, questa volta, si manifesta mediante l’altalena dei cambi delle monete dei paesi che contano di più nei mercati internazionali.
Gli esperti ci raccontano così.
Il commercio mondiale è squilibrato perché:
a. i paesi che prima della crisi finanziaria erano paesi consumatori (e, quindi, importatori), dopo la crisi non possono esserlo più, in dipendenza del fatto che la gente non ha più le risorse necessarie per sostenere i consumi; per non subire conseguenze peggiori (crollo delle produzioni, disoccupazione, disordini sociali) questi paesi, da importatori,  dovrebbero trasformarsi in paesi esportatori. Perché ciò si verifichi è necessario che la loro moneta abbia un valore più basso di quella dei paesi in cui dovrebbero esportare;
b. i paesi  da sempre esportatori  non riescono a tenere le precedenti  quote di mercato, e se non vogliono andare al collasso, devono esportare ai  prezzi i più bassi possibili. Per questo motivo non possono far crescere il valore della propria moneta, rispetto a quello della moneta dei paesi destinatari delle loro esportazioni. Per farlo, tengono la propria moneta legata a quella del paese leader fra gli importatori.
Al primo gruppo di paesi appartengono gli Stati Uniti d’America e molti altri paesi avanzati, fra cui l’Italia; al secondo, la Cina, in qualche misura la Germania, un po’ la Francia e, in qualche modo alcuni paesi emergenti (Brasile, India cc.). Ma s’intuisce che i rappresentanti emblematici dei due gruppi sono, rispettivamente, Stati Uniti d’America e Cina.

2.La disputa (cosiddetta guerra) fra questi paesi per il momento  è fatta di pressioni sulla Cina perché si convinca a far lievitare il valore del proprio Yuan in maniera da far alzare i prezzi della produzione, con due evidenti conseguenze:
a.renderla meno competitiva nei mercati internazionali, con il risultato di un abbassamento delle esportazioni;
b.incoraggiare le importazioni dall’estero.
Se questo la Cina decidesse, favorirebbe una ripresa del commercio mondiale, a vantaggio di tutti e, in definitiva - con l’accrescimento dei consumi interni - anche di sé stessa.
In mancanza di una decisione del genere, si dovrebbe passare ad azioni drastiche.
Le zioni drastiche, secondo Martin Wolf, giornalista esperto di cose economiche di fama internazionale, potrebbero essere:
a. inasprimento dei tributi all’importazione;
b.interventi valutari compensativi, come suggerito da Fred Bergsten sul Financial Times di questa settimana;
c. reciprocità di accesso ai rispettivi strumenti finanziari, come suggerito da Daniel Gros del
Centre for European Policy Studies di Bruxell.
Secondo lui non c’è più tempo da perdere, bisogna agire subito:  col negoziato, o con le azioni drastiche indicate bisogna ottenere dalla Cina una rivalutazione della sua moneta.

3.Su tutto quanto precede ho delle perplessità.
Si può discutere sul come affrontare una crisi valutaria, tra l’altro in corso, senza fare alcun riferimento alle tempeste finanziaria ed economica per le quali ancora ci lecchiamo le ferite (risparmi perduti, disoccupazione, disperazione sociale), come se non ne fossero state la causa determinante?
Credo di no: se non si parte dalle cause ogni misura per evitare o fare una guerra fra valute è destinata al fallimento.
La proposta di inasprimento dei tributi mi sembra contraria allo spirito delle regole del commercio mondiale, per come sono state scritte e sono lette dal WTO. Ma indipendentemente da quest’aspetto, quando si parla di tributi negli scambi commerciali internazionali, dove si colloca il totem della Globalizzazione?
Le altre due proposte sembrano più ragionevoli, ma evidentemente la loro natura implica una forte capacità di negoziato.
Che, per i momento, manca, o è inadeguata.

 

 
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Recessione ed economisti.

Post n°74 pubblicato il 22 Agosto 2010 da smittino

1. Da alcuni indizi è possibile desumere che, in questo scorcio d’estate, iI gota dell’economia si stia occupando della paura che la gente s’allontani dal credo del liberismo economico, con conseguenze che potrebbero essere imprevedibili.
Il primo indizio è la scoperta e, conseguente proposizione, di un libro scritto alcuni anni fa dallo sconosciuto J.Parsson, (La morte della moneta) che sostanzialmente scopre l’acqua calda: in presenza di una enorme liquidità, come è stata per esempio quella verificata nel periodo immediatamente precedente la Repubblica di Weimar, se c’è la corsa alla spesa, c’è un concreto pericolo che l’inflazione s’impenni. Siccome oggi c’è in giro una liquidità enorme, il rimando al libro di Parsson non può significare altro che un avvertimento: attenzione a come la si utilizza. E ci vuol poco a capire che, secondo gli ‘avvertitori’, la liquidità deve continuare ad alimentare i mercati finanziari. Guai, se si pensa ad una diversa destinazione: si avrebbe un’inflazione ingovernabile.
Un altro indizio è l’iniziativa de ‘Il Sole 24 Ore’, che ha dato incarico ad alcuni esperti di avanzare idee su come si esce da questa crisi, che sembra andare al di là di ogni previsione. Non mi soffermo sulle cose dette, perché sono state tante, ed hanno spaziato su tutto e il contrario di tutto. Elenco alcuni titoli degli argomenti svolti dai curatori: ‘Una crisi non compresa’, ‘Dalla finanza al crack delle banche’, ‘Dalle Banche alla bufera degli stati’, ‘Nuove bolle crescono’; tutte ottime esercitazioni accademiche, che, però, sfuggono ad una FAQ (Frequently Asked Question) di cruciale importanza: se in questa crisi ha avuto un ruolo l’elemento personale (economisti, banchieri, agenzie di rating), almeno come possibile concausa.

2. Noi profani abbiamo sempre pensato di si. Ma siamo rimasti a parlarne, inascoltati, sui marciapiedi delle nostre città, o al massimo su qualche blog di ‘rottura’. Quando abbiamo visto che la crisi si esprimeva al massimo, con disoccupati e licenziamenti in tutte le parti del mondo, e banche, hedge fund, private equity, facevano affari, abbiamo pensato che erano quest’ultimi ad aver ‘montato’ la crisi, per lucrarci sopra.
Forse la nostra era un’idea rozza, ma il pensiero  di un grande premio nobel per l’economia, Joseph Stiglitz, poggiato su studi e ricerche di spessore, che nulla hanno a che fare con la semplice accademia, ci corregge solo dando scientificità della spiegazione.
Lo scienziato dice che è in corso “lo scambio di accuse su chi è responsabile della peggiore recessione mondiale dai tempi della grande depressione” : è stata la finanza (borse, banche, assicurazione, hedge fund,private equità) incapace di gestire il rischio, o sono stati i regolatori (governi, banche centrali ecc.) a non fermarli in tempo?
A questi interrogativi risponde lui (Il Sole 24 Ore - 21 agosto 2010) : “Una parte non indifferente della colpa spetta agli economisti di professione. Perché, anche nel momento maggiore del caos finanziario del periodo estate 2007-estate 2009, hanno continuato a sostenere che l’efficienza del libero mercato, prima o poi, avrebbe portato ad un riequilibrio. Su queste assicurazioni i regolatori si sono astenuti da ogni regola e la finanza ha continuato indisturbata a rischiare, nella folle corsa che l’ha portata all’autodistruzione.
Eppure, erano osservabili fenomeni che davano altre indicazioni. Quando le  banche davano incentivi smisurati ai propri amministratori per gonfiare i profitti, e questi  moltiplicavano il rischio qualcuno si poteva, se non si doveva, chiedere quale sarebbe stato in risultato finale di simili comportamenti, irrazionali anche per un’economia liberista.

3. Gli argomenti svolti da Stiglitz per sostenere queste tesi sono complessi, e non è il caso di riferirne i contenuti in un blog da dilettante.
La conclusione, però, è importante. I mercati efficienti, razionali perché sostenuti dalla famosa ‘mano invisibile’ di smittiana memoria, non esistono. Per le seguenti semplici ragioni:
- i mercati sono efficienti, se sono razionali e sono razionali se garantiscono informazioni simmetriche, il che si verifica quando tutti gli operatori hanno le stesse informazioni;
- in caso d’ informazioni asimmetriche i mercati non sono razionali;
- se irrazionali, i mercati non possono essere efficienti;
- la mano invisibile è tale semplicemente perché, in caso di mercati irrzionali, non esiste.
Per spiegazioni nuove occorre una nuova idea di mercato, un nuovo paradigma.

4. Economisti, accademici e non, al lavoro dunque. 

 

 
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Crisi che va, crisi che viene.

Post n°73 pubblicato il 25 Maggio 2010 da smittino

1. Quando ho capito che l’uscita dalla crisi 2007/2008 era aspettata dalla ripresa dei mercati finanziari - in molti hanno brindato alle timide avvisaglie dell’anno scorso - ho subito pensato che ne sarebbe arrivata una nuova: le misure adottate dai governi avevano lasciato immutati investimenti industriali e (dis)occupazione.
La crisi 2007/2008 era iniziata con l’insolvenza dei prenditori dei famosi mutui sub-prime; quella in corso, con l’insolvenza (solo pronosticata) del debito pubblico greco. L’unica differenza è il tipo d’insolvenza. Le conseguenze di questa seconda crisi, prevedibili
, non saranno differenti, se le misure che i governi prenderanno per fronteggiarla, saranno simili a quelle della volta scorsa: saremo di nuovo in presenza di un altro disastro finanziario, che porterà illiquidità, pochi investimenti, molta disoccupazione, maggiore ricchezza (capital gain) per i ricchi e più povertà (meno redditi) per i poveri.
In tutta queste non novità, ciò che stupisce di più è la ripetizione del punto di vista degli economisti neoliberisti accademici. Di fronte ai tentativi, di alcuni governi, di fare scelte politiche per alcuni aspetti diverse rispetto al passato, storcono il naso, e si arroccano nell’acritica ripetizione del loro argomento di sicurezza: lasciate fare i mercati.
Esempio eloquente di tale punto di vista è l’articolo di un noto bocconiano, apparso sul Sole 24 di qualche di giorno fa.
In sintesi egli sostiene che:
- il divieto delle vendite allo scoperto, naked - cioè nude, cioè, ancora, senza possedere nulla - disposto dal governo tedesco per bloccare contratti speculativi sui titoli delle principali banche nazionali, non produrrà effetti, com’è già successo negli USA, che avevano adottato lo stesso provvedimento dopo il fallimento della Lheman Brothers: la speculazione colpisce altrove e/o migra.
- altrettanto dicasi per quello dei CDS, (Credit Default Swap, sorta di assicurazione sull’eventuale insolvenza dei titoli del debito pubblico), anche questi naked. Tra l’altro quello dei CDS è un mercato minimo, rispetto a quello generale.
- entrambi i divieti, tra l’altro, essendo nazionali, possono aumentare le difficoltà delle borse tedesche, piuttosto che diminuirle.
- c’è un accanimento contro gli hedge fund, ma nessuno si accorge che oggi, paradossalmente, sono proprio questi organismi a comprare debito pubblico greco.
- c’è una teoria cospirativa contro i mercati che si dispiega con due argomenti: 1) le agenzie di rating hanno avuto un ruolo attivo nei problemi della finanza del sud Europa; 2) le grandi banche manipolano il mercato dei CDS per mettere in difficoltà gli stessi governi nella gestione dei loro debiti pubblici.  E’ una teoria che non tiene, perché i CDS rappresentano una minima parte dell’insieme dei mercati, e la situazione dei debiti pubblici può essere ben conosciuta attraverso tre indicatori noti a tutti: a) i disavanzi dei bilanci, b) le entità dei debiti, c) l’estensione dei mercati dei titoli che li rappresentano; senza aspettare le decisioni delle agenzie di rating.
- c’è, poi, ancora, contro i mercati, un risentimento morale, spiegato così: 1) gli amministratori delle grandi banche guadagnano troppo; 2) i profitti degli hedge fund (fondi nascosti) hanno una tassazione privilegiata. Anche questo risentimento è fuor di luogo, perché gli intermediari finanziari, banche o hedge fund che siano, operano prendendo a prestito denaro e investendolo a rischio; con ciò, creando quella liquidità tanto necessaria alla crescita, come si è verificato del periodo 2002-2007. Se questo fanno, non lo fanno gratis et amore dei.

2. E’ del tutto evidente che le convinzioni elencate bocciano tutto quello che si sta affannosamente cercando di fare per evitare uno spappolamento dell’euro e dell’Europa. E, anche se non è detto apertamente, sottendono il collaudato cennato jingle accademico.
E’ scolastico. Ma prima di fare considerazioni di ordine generale, vale la pena di farne qualcuna nel merito degli argomenti proposti.

3. Primo. E’ vero: il divieto di compravendita di CDS, imposto dal governo tedesco, opererà solo nelle borse di quel paese e avrà effetti limitati, ma almeno testimonia che c’è qualcuno che vuole mettere fine all’uso del denaro per pura speculazione. Non si dimentichi che l’ammontare totale in circolazione di questi prodotti, supera di diverse volte il PIL mondiale. Se solo i depositi sottostanti, che in cifra sono molto, ma molto, inferiori, fossero impiegati nell’economia reale, per incrementare investimenti, lavoro, consumi ecc., dalle crisi si uscirebbe molto prima, o, addirittura, non ci si entrerebbe.
Secondo. Sicuramente oggi gli hedge fund comprano titoli del debito pubblico greco a prezzi stracciati (si parla del 60 - 70% del valore nominale). Ma se la speculazione ha avuto un ruolo nella svalutazione del debito greco, c’è da scommettere gli hedge fund ne sono stati l’anima. E, poi, non comprano quel debito per beneficenza, ma per rivenderlo alla pari, o forse al di sopra, non appena sarà risanato con il concorso dei fondi europei . E per vendere possono aspettare qualunque tempo, perché a essi i soldi non servono per la spesa, ma per speculare.
Terzo. Il risentimento verso le agenzie di rating è legittimo. Semplicemente per quel che sono: promanano dalle società che devono valutare, sono pagate dalle stesse, quando ci riescono, gli algoritmi che inventano sanno parlare del passato, ma non dare informazioni sul futuro. Hanno più credibilità degli indicatori riferiti dal noto professore (disavanzo dei bilanci, entità dei debiti, mercato dei debiti), perché così si vuole nella ristretta cerchia degli addetti ai lavori. (Abbiamo letto sui giornali di una strana riunione di alcune persone, in un ufficio di New York, qualche giorno prima che fossero pubblicati gli outlook delle agenzie di rating sul debito greco).
Quarto. Stretta cerchia che, purtroppo, esiste al di là delle illazioni: le stesse persone un po’ sono amministratori di banche, un po’ ministri del tesoro, poi capi o funzionari delle agenzie di controllo finanziario, governatori o funzionari delle banche centrali, funzionari del FMI, ecc. Perciò nulla di più verosimile che, anche se non manipolano, sicuramente hanno tutte le informazioni utili per fare il proprio tornaconto.
Quinto. Gli amministratori delle banche guadagnano molto e gli hadge fund pagano poche tasse: purtroppo è vero. E quando a giustificazione si afferma che è per la loro capacità di creare il lubrificante dei mercati, necessario alla crescita, perché non ci si domanda che razza di lubrificazione è stata quella che ha portato alla crisi in corso e a quella che l’ha preceduta!

4. E ora, una sola considerazione sul tema ‘mercati’.
Mercati è una categoria (economica) tipicamente astratta. I mercati possono essere validi strumenti operativi se sussistono le loro condizioni d’esistenza. In caso contrario, non si danno mercati, ma altro, che preferiamo non qualificare.
Le condizioni di sussistenza dei mercati si risolvono nell’osservanza delle regole che li presidiano. Fra esse, l'ugualianza d'informazioni fra gli operatori.
Dalla crisi del 1929, a tutte le successive, fino a quella del 2007-2009, abbiamo dovuto imparare che nessuna di esse è stata superata dai mercati, senza l’intervento degli stati. Domanda: perché? Risposta di prima approssimazione: perché i mercati non hanno avuto la capacità di autoregolarsi. Qualcuno oggi afferma che è successo per troppa ingerenza politica. I classici sostenevano che i mercati non hanno capacità intrinseche di autoregolamentazione. Nei fatti si scopre che tutto è accaduto perché gran parte delle decisioni e delle transazioni finanziarie sono state adottate/contrattate al di fuori di ogni regola di mercato. O meglio: con le regole di coloro che le regole le fanno, e che, così, dispongono, di tutte le informazioni utili per operare in posizione di vantaggio; informazioni che la maggioranza degli operatori non ha. Con danno dei più. Cioè, con danno della comunità. Ragione per la quale, poi, hanno dovuto e dovranno intervenire gli stati, cioè, noi.
E' questa la risposta vera sul perché i mercati non hanno mai vinto una crisi.

5. Varrebbe la pena di ripetere: 'tacete economisti’, se sapete solo limitarvi alla fredda accademia del momento. Fate scienza e trovate che da Adam Smith, a Paul Krugman, per citare il primo e uno degli ultimi economisti capaci di ‘sporcarsi le mani’, passando per Ricardo, Marx, Galbrith, Sen e tanti altri, avevano ed hanno dell’economia tutt’altre idee rispetto a quelle correnti: “Che cosa si può aggiungere alla felicità di un uomo in salute, privo di debiti e con la coscienza a posto? In tale situazione ogni ulteriore fortuna può appropriatamente essere detta superflua, e se egli si esulta per tale superflua aggiunta, ciò deve essere l’effetto della più frivola leggerezza”  (A. Smith - The theory of moral sentiments, p.58 - A. Miller,London).
L’economia, se lo è, come tutte le scienze sociali, è scienza soggettivistica. Senza la guida delle idee e delle scelte degli uomini, a dispetto dei migliori algoritmi e dei mercati, semplicemente non è

 

 
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Perché?

Post n°71 pubblicato il 10 Ottobre 2009 da smittino
Foto di smittino

1. Dunque la Corte Costituzionale ha bocciato il c.d. lodo Alfano, la legge, per intenderci, che disponeva che i processi riguardanti il Presidnte della Repubblica, i Presidenti di Camera e Senato e il Presidnte del Consiglio dei Ministri rimanessero sospesi fino alla cessazione della carica. Perché il Presidente del Consiglio si è infuriato al punto di prendersela con tutti: dalla stampa, alle televisioni, dalla magistratura al capo dello Stato e, forse, anche con i suoi coloboratorii?
Semplice. Lui fra i destinatari della legge è l’unico ad avere processi in corso. Venuto meno il lodo, ritorna automaticamente ad essere un qualunque ‘sottoposto a processo’, e questo, a suo dire, lo distrae dalla quotidiana azione di governo. Forse c’è ben altro, per un soggetto complesso come il Presidente del Consiglio: per esempio, la personale difficoltà a prendere atto che lui è come gli altri. La vignetta di Altan è eloquente (cliccarci su, per leggere meglio).  Ma qui, non ho competenze. Mi fermo, perciò, a qualche considerazione su quello che è successo. E lo faccio cercando di rispondere ad alcune domande essenziali.

1. Poteva la l’alta Corte decidere sulla legge caducata?  Sì, poteva. La Corte, specialmente se interpellata, è l’organo preposto alla valutazione della costituzionalità delle leggi e, cioè, della loro aderenza  alle norme della  Costituzione, che è la legge fondamentale dello Sato.

2.Cosa ha deciso la Corte? . Ha deciso  che se  è vero che le alte cariche dello Stato possono essere sottratte ai procedimenti penali, per non essere disturbati nel loro lavoro, la deroga, per il principio della 'grarchia delle fonti normative', deve essere affidata ad una legge di rango costituzionale, una legge, cioè, che modifica la Costituzione, e non ad una legge ordinaria. La Costituzione non prevede deroghe nell’applicazione delle leggi. Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, dice la costituzione. E il lodo Alfano era una legge ordinaria.

3.La Corte ha mutato orientamento, rispetto a quando ha deciso che il cd. lodo Maccanico (legge 140/2003) era anch’esso incostituzionale, perché in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, tacendo sull’art. 138, e adesso, a proposito del lodo Alfano, ha deciso  che esso contrasta con entrambi?  No. In passato la Corte è stata chiamata ad esprimersi sul  lodo di allora, che conteneva norme riguardanti l’esenzione in questione, e che un Tribunale ritenne incostituzionale, perché in contrasto con diverse norme della Costituzione. (Fra esse non figurava l’art. 138).  La Corte si è pronunciata sulla domanda: stabilito che la legge Maccanico non era conforme all’ordinamento nei suoi contenuti, pur ragionando sull’interferenza con l’art. 3, ha  dichiarato assorbita ogni altra questione relativa ad altri eventuali profili di costituzionalità. Il diritto funziona così.

4.L’attuale sentenza della Corte è una sentenza politica? La corte Costituzionale non è un magistrato, ma un organo costituzionale, a cui è assegnato il compito di cui al punto 1. Essendo questo, i suoi atti possono considerarsi atti politici. Ma con le seguenti precisazioni.
Primo: sono atti che incidono sull’organizzazione sociale, per salvaguardare interessi storicamente condivisi.
Secondo: sono a valenza generale e non pro, o contro qualcuno.
Terzo: sono adottati secondo logica giuridica; sono, cioè, motivati tecnicamente, nel senso che poggiano su presupposti di fatto e di diritto che ne giustificano l’adozione. 

 
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Meglio tardi...

Post n°70 pubblicato il 05 Ottobre 2009 da smittino

1. Sui giornali di ieri si potevano leggere tre tipi di articoli, per molti aspetti, superficiali:
- la crisi è finita e la ripresa è in vista già per il quarto trimestre di questo anno;
- le grandi banche fanno affari con il trading (leggi compravendita di prodotti finanziari in borsa);
- siamo fuori dalla crisi, ma la disoccupazione non diminuisce, anzi, in certe realtà, aumenta ancora.
La superficialità sta nel fatto che i contenuti, pur ricchi di numeri assoluti, percentuali ecc., si ignoravano vicendevolmente. (Chi sostiene che la crisi è finita, sa che la disccupazione mondiale è altissima? Chi dice che la banche fanno affari, sa che gli affari delle banche da soli non scongiureranno la crisi? Sa che forse ne preparano una nuova?). Inoltre, i loro autori non spiegavano in che senso la crisi può considerarsi finita, perché le banche cercano gli affari nel trading e perché, nonostante la fine della crisi, l'occupazione non ne trae giovamento.

2. Ma è solo superficialità? Non credo. Più verosimilmente non si vuole spiegare che si sta puntualmente verificando quello che tanti temevano.
Dopo i fiumi di denaro dati dagli stati e dalle banche centrali alle banche d'effari, queste, anziché riaprire i rubinetti del credito alle imprese, per far ripartire gli investimenti e, quindi l’occupazione, hanno ricominciato allegramente a giocare in borsa, facendo salire le quotazioni e lucrando grossi profitti.  Finanziari, naturalmente. Si dà il caso che i profitti finanziari, sicuramente fanno crescere il PIL, ma la mancanza di nuovi investimenti non fa crescere l’occupazione. Sicché la ripresa di cui si parla è una ripresa che favorisce le grandi banche, ma continua a lasciare i disoccupati con le pezze al sedere come, o peggio di prima.

3. Ciò che più indigna è che chi si occupa di economia, giornalisti compresi, agisce, parla e scrive dei problemi, senza sentire più il minimo bisogno di sapere da dove originano, e se interessano, o no, la gente in carne ed ossa. E’, questa, una vergogna alla quale non mi voglio più associare: non scriverò più neanche una riga che possa riguardare problemi e/o fatti economici. Le risposte che cercavo quando ho cominciato ad occuparmene a livello di studi, me le aveva già date un pensatore di un secolo fa: l’economia liberista, o, più politically correct, liberale, è una scienza di contrabbando, per legittimare l’arricchimento dei ricchi e l’impoverimento dei poveri. Peccato che da un certo punto in poi della mia vita non ho più voluto dargli credito.

4. Ma, come si dice: meglio tardi…

 
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Le profezie di Roubini.

Post n°69 pubblicato il 26 Agosto 2009 da smittino

Nouriel Roubini non ha certamente bisogno di presentazioni:  è stato il primo grande economista del mondo a prevedere con diversi mesi di anticipo che saremmo andati incontro ad una crisi economica e finanziaria devastante, simile a quella storica del 1929. Forse ha esgerato, se è vero che alcuni sostengono che la crisi 2007/2008 non ha raggiunto le dimensioni di quella del 1929. Ma se pensiamo che non li ha raggiunti - almeno fino ad oggi - solo per il diverso modo in cui è stata gestita dalle autorità monetarie, possiamo convenire che Roubini aveva visto bene.
A distanza di due anni dalla terribile estate 2007, molti suoi colleghi prevedono che a partire già dal secondo semestre di questo anno ci sarà una ripresa sostenuta. Lui, ancora  controcorrente, in questi giorni ha preso la parola per dire che la ripresa di cui tutti parlano, se e quando ci sarà, sarà “anemica”.
Probabilmente avrà un andamento a ‘U’ (ripresa piatta per lungo tempo, in attesa di quella più consistente).  Ma forse, addirittura a ‘W’ (ripresina, immediata ricaduta, in attesa di quella più consistente).
A differenza degli altri, Roubini elenca i motivi delle sue convinzioni.
La ripresa potrebbe essere a ‘U’ perché:
  l’occupazione è ancora in calo;
  le banche non sono ancora in grado di fornire tutto il credito necessario perché le imprese investano e le famiglie spendano;
  la bassa redditività delle aziende non stimola nuovi investimenti e nuove assunzioni;
  l’indebitamento pubblico, assottigliando il mercato dei capitali, impedisce quello privato.
Ma potrebbe essere addirittura a ‘W’ se:
  la strategia degli stati per smettere gli aiuti pubblici non sarà abbastanza attenta. Infatti, se sarà accelerata, bloccherà ogni ripresa, se sarà lenta, aumenteranno i tassi di interessi e quindi freneranno prestiti, investimenti occupazione ecc.
  gli speculatori continueranno a portare alle stelle i prezzi di petrolio e generi alimentari (commodities), con possibilità immediate di forti tensioni inflazionistiche.
Nuoriel Roubini ha ragione di nuovo? Speriamo di no.

 

 
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