SEMPRE PIU' EVIDENTI LE REALI MOTIVAZIONI DELLA GUERRA D'AGGRESSIONE ALL'IRAQ, SEMPRE PIU' PALESE LA NECESSITA' DI SPARGERE ODIO ETNICO E RELIGIOSO, CORROMPERE LA SOCIETA', DIVIDERE IL PAESE, PRESERVARE UN GOVERNO FANTOCCIO, ASSASSINARE I LEADER DELLA RESISTENZA DEL POPOLO IRACHENO...UCCIDERE IL PRESIDENTE DI UN PAESE SOVRANO E LIBERO....CHE PERO', CRIMINE DEI CRIMINI, NAZIONALIZZAVA IL SUO PETROLIO.
UNA VERGOGNA SENZA LIMITI..E' IL NUOVO NAZIFASCISMO
Bottino di guerra, il petrolio iracheno
alle multinazionali Usa
di Stefano Chiarini
Petrolio etnico. L'occupazione e la
divisione dell'Iraq con nel mirino Siria, Arabia Saudita e Iran. Una mossa
contro l'Opec Il sacco di Baghdad Presto una legge irachena «made in Usa»
consegnerà nelle mani delle società petrolifere il 70% dei proventi del
petrolio
«Scivolando silenziosamente nella notte
del Golfo Persico i Navy Seals - scriveva un eccitato reporter del «New York
Times» il 23 marzo del 2003 - hanno occupato due terminali petroliferi off
shore con una serie di arditi attacchi terminati questa mattina all'alba, e
sono riusciti ad imporsi alle armi leggere delle guardie irachene ottenendo una
vittoria incruenta nella battaglia per il vasto impero petrolifero dell'Iraq».
Una vittoria che venne subito seguita, come programmato dai dettagliati piani
del Pentagono, dall'occupazione delle principali installazioni petrolifere del
paese e da quella, a Baghdad, del ministero del petrolio presidiatissimo dalle
truppe Usa mentre gli stessi militari americani aprivano le porte degli altri
ministeri o ne abbattevano i muri per invitare la folla al saccheggio della
storia e della memoria dell'Iraq.
Nei prossimi giorni, forse ore, secondo quando ha scritto domenica il
settimanale britannico «The Indipendent on Sunday», l'Amministrazione Bush e il
cartello delle principali compagnie petrolifere, sarebbero sul punto di mettere
definitivamente le mani sul petrolio di quello che Paul Wolfowitz definì «un
paese che naviga sul petrolio».Un paese considerato il terzo al mondo per
riserve petrolifere, dopo l'Arabia Saudita e l'Iran, ma che potrebbe essere in
realtà il secondo, se non il primo. Ufficialmente l'Iraq ha riserve per 115
miliardi di barili di petrolio, il 10% del totale mondiale, ma in realtà nel
deserto occidentale vi sarebbero quantità di petrolio ancora sconosciute. Si
tratta di un petrolio di ottima qualità e molto facile da estrarre a tal punto
che in alcune zone le autorità hanno dovuto gettare delle colate di cemento per
evitare che i cittadini, scavando, facessero zampillare dal suolo l'oro nero.
Un petrolio che quindi costa pochissimo da estrarre.
Questo giardino delle delizie per i petrolieri presto sarà di nuovo, a oltre
trent'anni dalla nazionalizzazione del settore portata avanti dall'allora
presidente Hassan al Bakr e dal vice presidente Saddam Hussein nel 1972, pronto
ad essere sfruttato a condizioni di grande favore dalle grandi multinazionali
come la Bp e la Shell britanniche e le
americane Exxon e Chevron. E magari qualche briciola relativa ai giacimenti di
Nassiriya potrebbe anche essere lasciata dalle compagnie Usa all'Eni. Qualcosa
di assai diverso da quel che sarebbe potuto avvenire se Enrico Mattei non fosse
stato ucciso con il suo aereo il 26 ottobre del 1962 nei pressi di Linate.
Pochi giorni dopo il presidente dell'Eni avrebbe dovuto perfezionare un accordo
con il governo iracheno di Abdel Karim Kassem che il 30 settembre aveva
annunciato la formazione dell'Ente Nazionale Iracheno per il petrolio, per la
produzione annua di 20 milioni di tonnellate di petrolio. Una vera sfida alle
sette sorelle.
La nuova legge che sarà discussa dal governo di Baghdad filo-Usa e filo-Iran e
approvata dal parlamentino uscito dalle elezioni truffa dello scorso anno, si
discosta totalmente da quelle normalmente applicate nella regione e nei paesi
in via di sviluppo dal momento che sotto un sistema chiamato
«Production-Sharing Agreements», o Psa, permette alle società petrolifere di
incamerare il 75% dei profitti fino a quando non avranno ricuperato i costi
sostenuti per poi scendere, se verrà mai quel giorno, al 20%. Esattamente il
doppio di quanto in passato governo di Saddam Hussein aveva offerto alla
vigilia della seconda guerra del Golfo alla Total per lo sviluppo di un grande
giacimento petrolifero e di quanto viene praticato normalmente. Per di più i
contratti avranno una durata trentennale e se qualche futuro governo iracheno
dovesse cambiare idea e rivendicare la sovranità dell'Iraq sul suo petrolio ci
saranno sempre i marines a ricordargli i suoi doveri. Per questo si tratta di
un accordo che difficilmente sarà accettato dal popolo iracheno. Gli accordi di
Psa lasciano si la proprietà dei giacimenti al paese ospitante ma assegnano
gran parte dei profitti alle società che hanno investito nelle infrastrutture e
nella gestione dei pozzi, degli oleodotti e delle raffinerie e per questa
ragione la nuova legge irachena sarebbe la prima di questo tipo mai adottata da
un grande paese produttore di petrolio della regione. Senza contare che nel
caso di controversie tra lo Stato iracheno e le società petrolifere, la
sovranità irachena non avrà alcun valore e le parti dovranno ricorrere ad un
arbitrato internazionale. Le società petrolifere, secondo il documento ottenuto
dall'Indipendent, inoltre potranno esportare liberamente i loro profitti senza
alcuna condizione e nel farlo non saranno soggette ad alcuna tassa. Sia
l'Arabia saudita che l'Iran - così come l'Iraq dal 1972 ad oggi - controllano
invece entrambi il settore con società statali nelle quali non vi è alcuno
spazio per le compagnie straniere, così come la gran parte dei paesi che
aderiscono all'Opec. Le legge costituirebbe quindi una sorta di pericoloso
precedente per l'Organizzazione dei paesi esportatori da sempre nel mirino dei
«neocon» secondo i quali la guerra e l'occupazione dell'Iraq sarebbero dovute
servire per disgregare i paesi arabi, prima l'Iraq, poi la Siria e infine l'Arabia Saudita
e quelli musulmani come l'Iran, sia per lasciare campo libero ad Israele sia
per assestare un colpo definitivo all'Opec. E proprio a tal fine la
costituzione provvisoria dell'Iraq, scritta dagli esperti Usa, apre la strada
alla divisione del paese in tre «patrie etniche», una curda, l'altra sunnita e
la terza sciita, che gestiranno autonomamente lo sfruttamento dei nuovi pozzi
petroliferi lasciando al governo centrale solamente una percentuale dei
proventi derivanti dai giacimenti già in via di sfruttamento. Ciò significherà
non solo un permanente conflitto tra le tre entità, ciascuna facilmente
ricattabile dalle multinazionali, ma costituirà anche la fine di un ruolo
preminente del governo centrale e quindi di qualsiasi forma di «Welfare» e di
intervento dello stato nell'economia.
La legge che legalizza la rapina delle risorse irachene non è stata redatta,
come si potrebbe pensare dal governo iracheno ma dalla BearingPoint, una
società Usa assoldata dal governo americano per «consigliare» le autorità di
Baghdad con un proprio rappresentante fisso presso l'ambasciata Usa nella «zona
verde». Nel giugno del 2003 la
BearingPoint ricevette un contratto per «facilitare la
ripresa economica irachena» al quale si aggiunsero una serie di compiti assai
delicati: Redigere il budget iracheno, Riscrivere la legge sugli investimenti,
organizzare la raccolta delle tasse, redigere le nuove regole liberiste per il
commercio e le dogane, privatizzare le imprese irachene, porre fine alla
distribuzione di generi alimentari a prezzi politici, creare una nuova valuta e
fissare i tassi di cambio. Una volta perfezionata, la legge sul petrolio è
stata presentata al governo Usa, alle società petrolifere e, a settembre, al
Fondo Monetario Internazionale. Molti deputati iracheni ancora ne sono
all'oscuro.