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Respiro Libero

disserazioni

 

 

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Post n°12 pubblicato il 30 Gennaio 2014 da essenza_di_follia

 

Con Osservanza

Oggi mi è successo una cosa strana è di famiglia che usiamo la parola "Con Osservanza" alla chiusura di uno scritto.

 Pertanto nel messaggiare sulla Comunity mi è venuto spontaneo scriverlo. la risposta che ho avuto è stata la seguente:


con osservanza?
Da come scrivi, sembra che ti piaccia porti come schiavo, sbaglio?


La mia risposta è stata che aveva valenza di rispetto, null'altro.


Per avere conferma che non avevo detto stronzate e che forse stavo nel torto.

Ho fatto una mia ricerca.........

Edf*


il Due_net Magazne di San Vittore


 

Torno a scrivere «con osservanza»
Adriano Sofri

da Panorama di Adriano Sofri
Pisa, 14 giugno 2004

Era una formula che mi insegnò mia madre e che abbandonai quando cessai di credere in Dio. Ora l'ho riadottata.
Anche per merito di un grande antifascista: Leone Ginzburg.

Per l'età, e le circostanze deplorevoli, inclino a ripensare al passato remoto e agli antenati.
Occasioni fortuite risuscitano ricordi e suscitano domande. Scrivo spesso istanze di vario genere per i miei vicini detenuti, o correggo le loro, moderando certe formulazioni di ossequio barocco o servile, in favore di parole più controllate e dignitose.

Il passaggio più delicato è il saluto finale, che precede la firma.
Opto per un «Rispettosamente», o un «Ringrazia e cordialmente saluta».
Tuttavia ho in mente un'espressione che impiegava mia madre, e che insegnò a noi bambini, iniziandoci alla compilazione per nostro conto di domande in fogli protocollo. Bisognava scrivere:
«Con osservanza...».
Mia madre era riservata e attenta alle forme.
Aveva una bella scrittura corsiva, di quelle che si sono perdute, e ogni tanto ne riconosco l'eleganza sobria in qualche lettera di vecchie signore gentili.
Sapevo imitare bene la sua scrittura, specialmente in quella conclusione:
Con osservanza, e la firma.

Venne poi un momento in cui non fui più disposto a scrivere per mio conto Con osservanza.
Dev'essere successo più o meno al tempo in cui non mi sembrò più possibile credere in Dio.
Le autorità andavano destituite e le stesse formule del linguaggio comune, pronunciate da tempo immemorabile senza ricordarne un'origine umile o servile, finivano sotto osservazione.
Perfino i saluti.
«Servus!».

Chi si farebbe una questione dell'origine dell'affabilissimo «ciao», che è la parola «schiavo»?
Eppure, viene una stagione in cui ci si vergogna anche di dire «ciao». Avevo un cugino, coetaneo, che l'educazione più rigidamente triestina aveva addestrato a rispondere al richiamo paterno:
«Comandi!».
Quel «comandi!» aveva ormai poco di disciplinare o di militaresco ed equivaleva a un «sì», un «eccomi» (sarà quella l'origine del cordiale saluto friulano «Mandi»?).

Insomma, in quella ribellione al linguaggio costituito per una adolescenziale correttezza politica, non c'era parola comune che la passasse liscia.
Figuriamoci: «Con osservanza».
Nell'osservanza risuonava un'obbedienza più ligia e conforme, una soggezione conventuale o una sudditanza asburgica.

Fra tutte le autorità quella anonima della burocrazia sembrava poi la più immeritata e offensiva: dunque le mie domande, a un'anagrafe o un ministero o una direzione didattica o qualunque altro ufficio competente, curavano di concludersi seccamente, con qualche formula brusca, o senz'altro con la firma nuda.
Mi accorgo ora che, sia pure a passioni spente, qualche coda di quell'iconoclastia è durata, sicché una delle prime imprese in cui mi impegnai al mio ingresso in galera, alcuni anni fa, fu di protestare contro le domandine carcerarie prestampate in cui figurava la formula:
«Il sottoscritto... prega...».
Mi sembrò che pregare fosse più appropriato a sudditi o devoti che a cittadini, sia pure a diritti sospesi, e che andasse meglio:
«Chiede».

Il ministero mi diede ragione, benché non del tutto.
Sui nuovi prestampati è scritto:
«Richiede».

Così, per salvare la faccia.
Bene.
Di tanto in tanto, in calce alle istanze dei miei compagni detenuti, tornavo a scrivere:
«Con osservanza».
Alle mie no.

Ora è successo che da Einaudi siano uscite le lettere dal confino (1940-1943) di Leone Ginzburg, che ho letto con grande emozione.
Ginzburg fu infatti un uomo di ammirevole intelligenza, cultura, rettitudine e coraggio.
E poi io ho conosciuto e amato le persone della sua famiglia, suo figlio Carlo mi è carissimo.
Le lettere hanno un interesse soprattutto culturale e letterario, riguardando il lavoro editoriale della Einaudi negli anni di guerra.
Io sono stato piuttosto colpito e commosso dai rari e discreti accenni alla vita di famiglia che Leone conduceva nel confino di Pizzoli, in Abruzzo, con la moglie Natalia e i bambini.

Ne parlerò un'altra volta.
Adesso mi premeva un dettaglio.
Ricorderò che Leone Ginzburg sarebbe morto nel 1943 nel carcere romano di Regina Coeli.
Claudio Pavone ha ricordato che quando Ginzburg venne consegnato dal braccio degli italiani a quello dei tedeschi che lo avrebbero torturato a morte, «da una cella qualcuno cominciò a fischiare l'inno del Piave.
Fu un fischio limpido e sicuro.

I Tedeschi probabilmente non compresero, gli Italiani si commossero».

Il dettaglio sta nelle istanze che dal confino di Pizzoli Leone Ginzburg indirizzava al ministero dell'Interno, per esempio per essere autorizzato a recarsi fino all'Aquila a farsi curare da un dentista.
«Il sottoscritto sarebbe grato a codesto on. Ministero se l'autorizzazione di cui sopra potesse essergli rilasciata con cortese sollecitudine, dati i forti dolori da cui è affetto. Con osservanza» (4 febbraio 1942).

Oppure per chiedere di essere autorizzato a soggiornare all'Aquila nella circostanza del parto della moglie Natalia, previsto per il marzo del 1943:
«Il sottoscritto confida che codesto Ministero vorrà concedergli l'autorizzazione di temporaneo soggiorno all'Aquila. Con perfetta osservanza».

Oppure per trasferire il confino in un comune della Valle d'Aosta, dove Natalia e i bambini avrebbero potuto trovare il sostegno dei genitori di lei: richiesta respinta.
«Confidando in un sollecito accoglimento della presente domanda, il sottoscritto porge i sensi della sua perfetta osservanza» (10 febbraio 1943).
Dunque io ho ricominciato a chiudere le mie istanze di qualunque genere, comprese le autorizzazioni alle cure dentistiche, con la formula che mi insegnò mia madre:
«Con osservanza».
Ho fatto un lungo giro, prima di tornarci.
Quando lo scrivo, provo una certa fierezza.


 

 
 
 
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