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Le fiere riminesi tra '500 e '600

Post n°27 pubblicato il 15 Maggio 2022 da montanariantonio

Rimini "moderna"/1

Le fiere riminesi tra '500 e '600"
il Ponte", 15 maggio 2022

Una "fiera delle pelli" si tiene fin dal 1500 a Rimini tra Borgo San Giuliano e le Celle, per la ricorrenza di sant'Antonio dal 12 al 20 giugno, dal ponte di Tiberio o della Marecchia (con le botteghe di legno) sino al torrione del monastero del Monte della Croce alle Celle, posto lungo la strada per Cesena (lato a monte) poco dopo il bivio con la via per Ravenna.La "fiera delle pelli" è seguìta da quella di san Giuliano nata nel 1351 nell'omonimo Borgo (dal 21 giugno, vigilia della festa del santo, sino al 22 luglio). Il calendario resta stabile fino all'inizio del 1600, quando soprattutto a causa delle carestie, le due fiere sono spostate fra settembre ed ottobre, inglobando pure quella di san Gaudenzio nata in ottobre nel 1509.Sino al 1538 la fiera di san Gaudenzio si svolge fuori dalla porta di San Bartolo, verso la attuale Flaminia uscendo dall'arco d'Augusto, che apparteneva al quartiere di Sant'Andrea ed anticamente aveva fatto "l'ufficio di porta, e perciò fu detto porta di San Genesio, e di San Bartolo" (L. Tonini). Dopo il 1538 la fiera è spostata alla piazza maggiore, nell'antico foro romano, "propter ruinam" dello stesso Borgo di San Gaudenzio, provocata "dalle ultime guerre con i Malatesti" (C. Tonini).All'inizio del secolo la crisi economica ha unificato ad ottobre (poi tra 8 settembre ed 11 novembre), in una "fiera generale" i tre appuntamenti tradizionali: delle pelli, di san Giuliano e di san Gaudenzio.Nel 1627 esse, sempre come "fiera generale", sono anticipate dal 15 agosto al 15 ottobre, e nel 1628 ritornano dall'8 settembre all'11 novembre. Nel 1630 è sospesa la "fiera delle pelli" per la pestilenza, preceduta da due anni di carestia. Nel 1656 nasce la fiera di sant'Antonio sul porto, dal 6 all'11 luglio, riscoperta di recente (M. Moroni, 2001).Già nel 1613, narra Adimari, cinquanta mercanti tra forestieri e cittadini, hanno chiesto una nuova fiera in primavera, "mossi dalla bona commodità del vivere et negotiare, et conversare et fare esito delle loro mercantie in questa città". Nel 1656 c'è questa iniziativa che si ripete nel 1659, ma è sospesa nel 1665 per volere del governatore di Rimini. Riprende il 22 maggio 1671 per undici giorni (cioè sino al primo giugno), con l'autorizzazione di papa Clemente X del 13 agosto 1670.Nel 1678 l'apertura è posticipata al 3 agosto, per sperimentare, come si legge in un atto comunale, "se in questo tempo potesse prendere quell'augmento che hoggi giorno fa' conoscere l'esperienza non ritrovarsi, a causa forse di venire in tempo scarso di monete per non essere seguiti li raccolti".Non sono d'accordo i doganieri: in agosto con la franchigia per la fiera riminese, non pagherebbero dazio le barche che ritornano dalla fiera di Senigallia. Il 10 maggio 1681 la fiera sul porto è sospesa. Ogni anno era andato "diminuendo il concorso" di mercanti e compratori per cui non portava "se non incomodo" ai commercianti di Rimini.Nel 1691 la fiera riprende. L'anno precedente il prefetto delle "Entrate" ha scritto al Consiglio: sono andate in disuso e sono state tralasciate le due fiere tradizionali, quella d'ottobre dalla porta del Borgo di san Giuliano alla Madonna del Giglio, e l'altra di maggio sul porto. Nel giro di un secolo l'appuntamento autunnale di san Gaudenzio era passato dal Borgo di porta romana a quello di san Giuliano. Il prefetto proponeva di "rimettere ò l'una ò l'altra", con un calendario adatto sia alla città sia ai mercanti forestieri.Il 17 giugno 1690 il Consiglio civico ha approvato (25 contro 12) di ripristinare alla fine del maggio 1691 "la fiera che si faceva nel Porto", seguendo concessioni e privilegi papali del 1670. Il segretario comunale Felice Carpentari il 18 ottobre 1690 ha suggerito un posticipo al 6 luglio, in deroga agli ordini di papa Clemente X del 1670, "parendo che in detto tempo si rendesse più facile l'introduzione, e più numeroso il concorso" dei mercanti. Ed il Consiglio ha approvato (34 contro 6).Il 14 febbraio 1693 non è però giunta ancora l'autorizzazione allo spostamento della data quando in Consiglio si approva (32 contro 11) un nuovo memoriale del prefetto delle "Entrate" che invita ad osservare il vecchio calendario di fine maggio. Lentamente le fiere riminesi vanno di nuovo "in disuso". Soltanto nel 1726 si riapre quella sul Porto in onore di sant'Antonio.
Antonio Montanari

 
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Profili

Post n°25 pubblicato il 25 Febbraio 2022 da montanariantonio

 
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In Gambalunga

Post n°24 pubblicato il 17 Febbraio 2022 da montanariantonio
Foto di montanariantonio

"La Gambalunga racconta": dal 9 febbraio ogni mercoledì sui social la Biblioteca scopre i suoi tesori fra curiosità e notizie tratte dai fondi antichi, dall’archivio fotografico, dai periodici locali d’epoca. E con i consigli di lettura dei suoi affezionati frequentatoriIl mappamondo con la scritta Rimini cancellata, o la sfera armillare in bronzo dove appare inciso il termine dialettale ‘garbino’, e poi i libri proibiti e le riviste di moda dell’800, il dibattito storico sul segno zodiacale della nostra città.Ogni mercoledì, sui canali social del Comune di Rimini, verrà pubblicata la rubrica “La Gambalunga racconta”, curiosità e notizie tratte dai fondi antichi della Biblioteca, dall’archivio fotografico e dai periodici locali, con immagini e aneddoti su persone, libri, fotografie e cimeli, protagonisti del presente e del passato della ricca e stratificata raccolta della Biblioteca. Ma anche interviste e consigli di lettura da parte dei giovani lettori e dei bibliotecari che racconteranno di libri letti e approfondimenti.

 
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Rimini 1621, poco pane e tante armi

Post n°22 pubblicato il 20 Giugno 2021 da montanariantonio


Rimini 1621, poco pane e tante armi


"il Ponte", 20.06.2021, n. 24, ANNIVERSARI


 

A Roma il 13 dicembre 1600 arriva con magnifica pompa una confraternita riminese di 180 uomini vestiti con un lungo sacco nero e preceduti da uno stendardo costato duemila scudi d'oro. Tra loro c'è lo storico Cesare Clementini (1561-1624) che ne parla nel suo "Raccolto istorico", apparso a Brescia in due tomi nel 1617 e 1627. L'eleganza di quel corteo contrasta con le condizioni in cui viveva Rimini. Carestie, pestilenze e guerre (lontane, ma segnalate in loco dai continui, costosi passaggi di truppe), sono i mali che affliggono pure la nostra città.
Scarso raccolto è segnalato nel 1606. Epidemie in bovini, pecore e porci, nel 1611. In tutta la regione è avvertibile un processo d'involuzione a partire dal 1618-19. Nel 1615, come scriveva monsignor Giacomo Villani (1605-1690), un'altra insurrezione popolare aveva distrutto il ghetto ebraico. Per carestie ed epidemie del 1618 egli ha dato la colpa all'apparizione di una cometa. Per il 1649 Villani ricorda una rivolta della "plebs ariminea" contro i consiglieri municipali ed i cattivi amministratori dell'Annona per l'eccessivo costo del grano di cui "tota Italia fuit in penuria". Nel 1650 attribuisce ad un'eclissi di luna la rovina d'Italia prodotta dalle guerre. Secondo lui la crisi di Rimini nasceva dalla scomparsa dei cittadini migliori. Erano rimasti gli incapaci ed i meno ricchi.
Di soldi in giro ce ne sono pochi. Il Cardinal Legato riduce le cariche (a pagamento) in Consiglio civico, i cui componenti passano da 130 a 80. Diminuisce la popolazione urbana. Dalle circa diecimila anime tra fine 1500 e 1608, si passa nel 1656 a 7.717 con più di tre anni. Sui dati precedenti manca ogni altra precisazione circa l'età. Nel 1524 le anime registrate sono 5.500, ma dai cinque anni in avanti. L'alta mortalità infantile faceva prendere queste precauzioni statistiche.
All'inizio del secolo la crisi economica ha unificato ad ottobre in una "fiera generale" i tre appuntamenti tradizionali: la fiera delle pelli per sant'Antonio (12-20 giugno), la fiera di san Giuliano (presente dal 1351) tra 21 giugno e 22 luglio e la fiera di san Gaudenzio (nata nel 1509) ad ottobre. Era l'effetto di un declino commerciale ed economico a cui non si sapeva reagire. Già nel 1613, narra Adimari, cinquanta mercanti tra forestieri e cittadini, avevano chiesto una nuova fiera in primavera, "mossi dalla bona commodità del vivere et negotiare, et conversare et fare esito delle loro mercantie in questa città". Essa arriva nel 1656.
Nel 1614, come leggiamo in una cronaca di Anonimo datata 1728, "fu una inondazione così grande, che unitasi la Marecchia con altri fiumi, e massime in lontano col Rubicone che apportò danno molto notabile restando le barche, cessata quella disperse per gli orti di Marina, e molte fracassate, e moltissimi marinari anegati, e molte merci perite, e la terra per tutta la campagna ove era stata l'inondazione restò per molto tempo infeconda".
Due anni dopo per un fortunale (citato dal canonico Giacomo Antonio Pedroni nei suoi "Diari"), affondano molte barche, "s'affogarono assai persone" e si registrano molti danni nel borgo di san Giuliano.
In tutta l'Emilia-Romagna "attorno al 1620 si ha il punto di svolta della congiuntura economica italiana e l'inizio della depressione seicentesca", ha scritto F. Cazzola (1977). A Rimini nel 1621 a causa della penuria dei raccolti si deve pensare al sostentamento dei poveri "trovando a censo ingenti somme" (C. Tonini, 1896). È l'esplosione di una carestia che avviene tra 1618 e 1621, e che coincide con un periodo di guerre nella nostra regione che ne compromettono l'economia per molyi decenni. Gravi carestie si ritrovano alla fine degli anni 40 del secolo.
Un dato che riguarda Bologna illustra la drammatica situazione degli anni Venti: scompaiono quasi 15 mila abitanti. In quel periodo diminuisce anche l'importazione del grano: e ciò, leggiamo in un pregevole studio del 1891 ("La popolazione di Bologna nel secolo XVII") apparso nella rivista della bolognese Deputazione di Storia patria (vol. IX, III serie), "può essere tanto la causa come l'effetto" della diminuzione degli abitanti. Il 1621 è definito proprio come anno di carestia. L'autore della ricerca è Giovan Battista Salvioni (1849-1925), docente di Statistica nell'Ateneo di Bologna.
In quel saggio s'intravede la commossa partecipazione ai fatti narrati con il richiamo alle celebri pagine manzoniane sulla peste desolatrice de "I promessi sposi". Narrare quella di Bologna "senza avere il pensiero rivolto al grande Maestro sarebbe impossibile e basterebbe questo a farci deporre la penna, se, per fortuna, chi scrive non dovesse abbandonare ogni velleità in olocausto all'austera disciplina delle cifre". Le quali arrivano a 23.691 decessi con "33 curati, 27 medici, 17 astati, 87 barbieri, 48 porta cocchietti, 23 beccamorti, 244 meretrici, 361 facchini, 11.561 donne, 11.128 diversi, 162 cittadini.
Per il 1622 riminese ritorniamo al cronista Giacomo Antonio Pedroni: dopo alcune considerazioni sulla carestia che imperversava e sul micidiale rincaro dei prezzi dei generi alimentari, annota che "più persone facevano delle piadine di sarmenti e fave macinati insieme, per mangiarle in così gran bisogno". Queste miserabili piadine fabbricate con ingredienti vili e vilissimi avranno avuto la forma, se non la composizione, delle attuali, leggiamo in una pagina storica del sito web del Comune di Rimini, che possiamo ipotizzare composta dal saggista Piero Meldini, prima insegnante di Lettere e poi direttore della Biblioteca Gambalunga.
Circa le cause della crisi italiana del Seicento, apriamo un testo di Enrico Stumpo (2012), dove si richiamano le tesi di Carlo M. Cipolla (1959) e Ruggiero Romano (1971). La risposta del primo rimanda al crollo ed al declino dell'economia più sviluppata. Quella del secondo al ritorno di certe forme di feudalesimo. Stumpo ricorda che l'Italia di allora era l'insieme di piccoli Stati, divisi e separati tra loro non solo politicamente ma anche economicamente. Per tutti esiste poi la terribile concorrenza straniera.
Come sempre anche per Rimini c'è dietro nel bene e nel male uno scenario europeo da cui non si può prescindere considerando le nostre vicende cittadine soltanto come espressione dei respiri delle nostre contrade.prima edizione a Modena nel 1710, e poi ristampato nel 1714 (sempre a Modena), nel 1720 e 1743 a Napoli ed infine ad Arezzo nel 1767. Il suo titolo è "Del governo della peste e delle maniere di guardarsene". Muratori presenta notizie che testimoniano lo sguardo attento di uno scrittore che vuole documentare quel tragico fenomeno che coinvolge tutta l'Europa, come evidenziano le cronache del 1713 da Praga ed Amburgo, per illustrare un problema che nello stesso 1713 ha coinvolto la specie bovina dei ducati di Modena e Reggio.
L'intenzione di comporre "un trattato popolare" è spiegata così: egli non vuole usare i "termini astrusi, con cui alcuni Professori della Medicina cercano di farsi credito con poca spesa presso i meno intendenti". Per Muratori, nei sospetti di contagio bisognava "alleggerire di gente le Città". Fondamentale allo scopo, precisa, è l'organizzazione dello Stato. Come ha scritto Ezio Raimondi (1967), Muratori è l'erudito razionalista di gusto moderno che crede in una scienza che si applica sempre al reale. Lo vediamo quando lo stesso Muratori osserva: nel 1576 a Venezia c'è stata una orribilissima strage perché i medici disputavano se fosse peste vera o no. I ricchi, aggiunge, hanno l'obbligo di soccorrere i poveri.
Sono "tempi calamitosi": così li definisce il cardinal Galeazzo Ruspoli Marescotti (1627-1726) al Consiglio Municipale di Rimini in una lettera del 27 gennaio 1703, spiegando che bisognava non fare spese superflue, si dovevano evitare abiti sfarzosi e gioielli, anche se falsi. La città s'adegua con una serie di norme che mirano ad imporre un'attenta cura per evitare sprechi nelle vesti, nei servitori e nel modo di gestire la propria famiglia, come scrive Luigi Tonini.
Ruspoli Marescotti era a capo della Congregazione del Sollievo, sorta per decisione di Clemente XI nel marzo 1701 ed attiva praticamente fino al 1715 (anno delle sue dimissioni), per favorire la modernizzazione agraria, il controllo dei prezzi ed il miglioramento della viabilità (G. Motta, 2008). Essa era composta da altri quattro cardinali oltre che da prelati e laici che facevano parte dell'organizzazione amministrativa dello Stato. La chiusura della sua attività è ufficialmente datata 1725. Marescotti (come apprendiamo in un testo di G. De Novaes, 1802) aveva riedificato la città di Rimini "quasi distrutta dal terremoto del 1672". Luigi Tonini da scritti di Monsignor Giacomo Villani (1605-1690) riprende la notizia che scosse e crolli durarono a sentirsi per lo spazio di cinque mesi. Un'accurata biografia di Villani è presentata da Carlo Tonini nella sua storia della cultura riminese (1884).
Nel 1703, racconta Luigi Tonini, un grande terremoto scuote nuovamente la città, ma per fortuna non provoca danni. I quali sono temuti l'anno dopo per il corso del fiume Marecchia rivolto verso la città. Nel 1705 si pensa di chiamare un perito forestiero che il Pontefice aveva mandato a Ferrara per i ripari da farsi al Po. Tra 1709 e 1710 le casse comunali riminesi debbono provvedere con grandi spese a mantenere i ventimila militari tedeschi che transitano diretti a Napoli "ove quel popolo si era levato a tumulto contro il governo de' Francesi". I tedeschi inondano tutta la Romagna. Nemmeno le case dei poveri sono risparmiate dall'obbligo degli alloggi, per cui (scrive Tonini) quegli infelici dovettero più e più volte levarsi il pane di bocca. Poi passano le truppe pontificie di pari consistenza numerica per combattere atti di prepotenza imperiale, come l'occupazione di Comacchio e le minacce al duca di Parma perché cedesse il proprio potere allo Stato di Milano.
L'esausto erario comunale necessita di entrate: si rincarono i dazi e si inventano nuove imposte che colpiscono soprattutto il mondo agricolo che protesta duramente con il potere politico locale. Tra 1712 e 1713 una peste bovina si era diffusa nel territorio lombardo, in quello veneto, nello Stato ecclesiatico e nel regno di Napoli: ma le "patrie memorie" sono mute, osserva Luigi Tonini. Per la guerra col Turco ci sono passaggi di truppe sino al 1720, come si ricava da mons. Antonio Sartoni che fa "un quadro assai doloroso della nostra Città in quelle congiunture", leggiamo ancora in Luigi Tonini. Sartoni era un suo zio paterno. Carlo Tonini ricorda nella citata storia della cultura riminese uno "Zibaldone di memorie inedite" composto da Sartoni.
Muratori in uno scritto del 1715 osserva che "l'istoria principalmente dipende da documenti sicuri e copiosi". Luigi Tonini intitola il capitolo sugli anni 1720-1738 con una confessione dolorosa: "Scarsezza di notizie". Poi annota sul 1721: "Continuavano i sospetti del contagio" per cui i Consigli comunali decidevano cure e spese per la vigilanza con cui tenergli chiuso l'accesso alle nostre contrade.
Antonio Montanari

 


 
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1620, quei libri raccontano

Post n°21 pubblicato il 10 Marzo 2020 da montanariantonio

1620, quei libri raccontano



Nel 1620 si documenta il patrimonio dei libri lasciati alla città di Rimini tre anni prima da Alessandro Gambalunga, scomparso nel 1619. Quei volumi ci parlano ancora oggi, raccontando la storia di una famiglia e di una comunità.
Iniziato il 3 settembre e completato il 17 novembre 1620, l'inventario della biblioteca, redatto dal notaio Mario Bentivegni, registra 1.438 volumi contenenti poco meno di duemila opere a stampa. Assisteva al lavoro Michele Moretti, che reggerà la biblioteca per trent'anni, dal 1619 al 1649.
La preziosa tesi di laurea di Silvia Pratelli(1991) ci consente una conoscenza approfondita e particolareggiata del nucleo originario della biblioteca, come osserva il prof. Piero Meldini, direttore gambalunghiano dal 1972 al 1998.
Preziosa è definita questa tesi anche in un recente articolo milanese (su «la Biblioteca di Via Senato», 2019), a proposito della scelte di Gambalunga che sembrano «obbedire non solo e non tanto agli interessi e ai gusti di un uomo colto e intellettualmente curioso qual era», quanto piuttosto «alla previsione di un uso non esclusivamente privato della raccolta».

Alessandro Gambalunga nasce a Rimini nel 1564 da un ricco commerciante di ferro, Giulio (+7.4.1598), figlio di un maestro muratore lombardo passato alla mercatura, e di Armellina Pancrazi, di famiglia nobile, terza fra le quattro mogli del padre. Alessandro sposa nel 1592 Raffaella Diotallevi, figlia di Giovanni Battista.
I suoi beni sono da lui lasciati ad Armellina Gambalunga, figlia del fratello Francesco e di Lucrezia Serafini.
Francesco nasce da Ginevra Bartolini, la seconda delle quattro mogli di Giulio Gambalunga. Alessandro è forse figlio della terza moglie del padre Giulio, Armellina Pancrazi.
L'erede Armellina (o Ermellina) Gambalunga nel 1603 sposa il bolognese Cesare Bianchetti (1585-1655) con cui genera nove figli. Armellina scompare nel 1638.
Delle sei femmine, cinque entrano nella vita religiosa: sono Cecilia, Maria Maddalena, Camilla, Lucrezia, Alessandra e Costanza (che sposa Simone Bistrigari).
I tre maschi sono Giorgio (che sposa Anna Maria Ratta), Giulio e Giovanni (divenuto poi abate).
Giulio da Ottavia Pavoni ha il figlio Alessandro e da Marina Diplovatazi in seconde nozze nel 1654 ha Giulio Cesare, marito di Anna Teresa Balducci nel 1675 ed erede ufficiale dei beni del ceppo gambalunghiano.
Ultimo discendente del ramo bolognese, è Giulio Sighizzo Bianchetti marito di Gertrude Albergati, morto nel 1761.
Il Comune di Rimini diventa unico proprietario della Biblioteca e del palazzo Gambalunga con transazioni che vanno dal 1802 al 1847, come ricordava Luigi Tonini.

Nel testamento datato 25 settembre 1617, Alessandro Gambalunga dichiara che i suoi libri «s'habbino meglio e più lungamente conservare, poiché concerne pubblico commodo, utile et honore».
La sua libreria dovrà essere aperta a tutti e quindi passa al Comune, ci sarà un bibliotecario («persona di lettere idonea ed atta») stipendiato con i propri soldi e nominato dai Consoli della città. Altra somma egli destina per nuovi libri ed il restauro di quelli vecchi. Il 9 agosto 1619 nomina il bibliotecario, un dottore in legge suo amico, Michele Moretti, che diventa pure amministratore dei suoi beni. Il palazzo in cui si trova la biblioteca è stato da lui costruito tra 1610 e 1614. Il 12 agosto 1619, Alessandro Gambalunga scompare lasciando 1.438 volumi. Moretti resta in carica sino al 1649.
Nel 1583 a circa trent'anni egli si è laureato in Diritto civile e canonico a Bologna. La sua famiglia rappresenta il miracolo economico di quegli anni, un «felice momento» della città «confermato dagli svolgimenti nell'edilizia privata», ovvero le residenze dei nobili e dei notabili, e «dalla cura posta dalle autorità pubbliche nei restauri al porto, ai ponti, alla fontana», nel riassetto viario e nell'apertura di nuove strade (G. Gobbi e P. Sica. «Rimini», 1982).
La Gambalunga è l'unico tentativo riuscito per aprire una biblioteca pubblica, e la prima della nostra regione, secondo G. Montecchi (1977).


Come disse nell'aprile 2000 a Rimini il prof. Ezio Raimondi, Gambalunga precorre il mecenatismo moderno. Era intervenuto quale presidente dell'Istituto Beni Culturali di Bologna all'inaugurazione della mostra documentaria "Vedere il tempo". La passione civile che ha sempre guidato il "lettore" Raimondi in tutta la sua grande carriera di studioso e di docente, lo portò a sottolineare come una biblioteca debba far riflettere sul destino comune, e ad entrare in contatto con il diverso. "E chi è oggi il diverso?" significativamente si chiese alla fine.

La prima biblioteca pubblica d'Italia fu anch'essa a Rimini, nel convento dei frati di San Francesco di Rimini, a fianco del Tempio malatestiano. Il suo progetto risale al 1430, per iniziativa di Galeotto Roberto Malatesti, che segue una intenzione dello zio Carlo (morto l'anno prima). Sigismondo dona ad essa "moltissimi volumi di libri sacri e profani, e di tutte le migliori discipline", cone scrisse Roberto Valturio ("De re militari", XII, 13).
Nel 1475 Roberto Valturio lascia ad essa la propria biblioteca personale. Nel 1490, la biblioteca francescana è trasferita dal piano terra a quello superiore del convento, come ricorda una lapide in latino. Nel 1452 a Cesena si apre la Biblioteca Malatestiana. Seguono quella patriacale di San Domenico a Bologna (1464), e quelle di Piacenza (1509), Parma (1523), e Ferrara (inizio 1500). L'Angelica di Roma è del 1604, l'Ambrosiana di Milano del 1609.
La fine della biblioteca francescana di Rimini è avvolta nel mistero. Nel 1560 un inventario conta "circa" 273 volumi. Monsignor Giacomo Villani (1605-1690) annota: quelle carte preziose finiscono in mano ai salumai. Federico Sartoni (1730-1786), sostiene invece che i frati vendettero la libreria alla famiglia romana dei Cesi, alla quale appartengono i fratelli Angelo (vescovo di Rimini dal 1627 al 1646) e Federico, fondatore dell'Accademia dei Lincei nel 1603. Aldo Francesco Massèra (bibliotecario gambalunghinano dal 1909 al 1928) incolpa i Conventuali riminesi d'aver lasciato "disperdere le ricchezze raccolte" (1928).
I frati vendettero liberamente la libreria alla famiglia romana dei Cesi, come pare sostenere Sartoni? Forse essi furono costretti non dico dal vescovo romano, ma dalle loro misere condizioni (che risultano da molti documenti).
Tra 1711 e 1715 è bibliotecario Ignazio Vanzi. Dal suo nipote Giuseppe [1734] discende la pronipote Maddalena [1836] che sposa Gaetano Nozzoli, padre di mio nonno Romolo [1876-1966]. Nel 1938 e nel 1960 mio padre Valfredo [1901-1974] fu vicedirettore alla Gambalunga.
Antonio Montanari


ARCHIVIO Gambalunga 400 anni

ARCHIVIO "il Rimino"
Il 3 dicembre 2012 sul "Corriere Romagna" è apparsa una lettera, firmata da Alberto Cristofano:
Una botta di conti, come dicevano i nostri vecchi, non fa mai male. Dunque, il fondo Augusto Campana presso la Biblioteca Gambalunga è costato 500 milioni di lire alla Fondazione Carim nel 1998, 170 mila euro al Comune di Rimini secondo il progetto 2004 di sistemazione (quale la spesa effettiva?), ed i volumi non sono ancora accessibili al pubblico. Saranno pubblicati in digitale sul web: ma chi paga, e quanto costa tutto il lavoro? In tempi di magra, questa botta di conti non è inutile. Si chiama trasparenza.

Nessuno ha spiegato chi paga.

Sul "Ponte" datato 16 dicembre 2012 è apparsa questa lettera mia, che lo stesso "Corriere Romagna" ha ritenuto opportuno cestinare:
A proposito di Augusto Campana e della Biblioteca Gambalunga di Rimini. Mi vi sono recato il 13 ottobre per ricercare un suo saggio del 1931 che il vecchio catalogo a schede detto Staderini dà in due segnature. Soltanto in una di esse c’è quel saggio. Il quale è stato pubblicato nel primo volume dei "Tesori delle Biblioteche italiane", opera che un tempo si trovava completa nella stessa Gambalunga, senza segnatura sulla relativa scheda Staderini, per cui ho chiesto informazioni se per caso fosse stato spostato dalla Sala di Studio dove altre volte in passato lo avevo consultato. Non sono riuscito a sapere ed a trovare nulla, neppure il 17 ottobre quando per richiamarmi alla precedente ricerca sono ripassato nel catalogo Staderini per esaminare la scheda che ho appena ricordato. Ohibò, mi sono detto, dopo i volumi dei Tesori etc. manca pure adesso la scheda che era presente al 13 ottobre.
© by Antonio Montanari

 
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