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Rimini 1621, poco pane e tante armi
Rimini 1621, poco pane e tante armi
"il Ponte", 20.06.2021, n. 24, ANNIVERSARI
A Roma il 13 dicembre 1600 arriva con magnifica pompa una confraternita riminese di 180 uomini vestiti con un lungo sacco nero e preceduti da uno stendardo costato duemila scudi d'oro. Tra loro c'è lo storico Cesare Clementini (1561-1624) che ne parla nel suo "Raccolto istorico", apparso a Brescia in due tomi nel 1617 e 1627. L'eleganza di quel corteo contrasta con le condizioni in cui viveva Rimini. Carestie, pestilenze e guerre (lontane, ma segnalate in loco dai continui, costosi passaggi di truppe), sono i mali che affliggono pure la nostra città.
Scarso raccolto è segnalato nel 1606. Epidemie in bovini, pecore e porci, nel 1611. In tutta la regione è avvertibile un processo d'involuzione a partire dal 1618-19. Nel 1615, come scriveva monsignor Giacomo Villani (1605-1690), un'altra insurrezione popolare aveva distrutto il ghetto ebraico. Per carestie ed epidemie del 1618 egli ha dato la colpa all'apparizione di una cometa. Per il 1649 Villani ricorda una rivolta della "plebs ariminea" contro i consiglieri municipali ed i cattivi amministratori dell'Annona per l'eccessivo costo del grano di cui "tota Italia fuit in penuria". Nel 1650 attribuisce ad un'eclissi di luna la rovina d'Italia prodotta dalle guerre. Secondo lui la crisi di Rimini nasceva dalla scomparsa dei cittadini migliori. Erano rimasti gli incapaci ed i meno ricchi.
Di soldi in giro ce ne sono pochi. Il Cardinal Legato riduce le cariche (a pagamento) in Consiglio civico, i cui componenti passano da 130 a 80. Diminuisce la popolazione urbana. Dalle circa diecimila anime tra fine 1500 e 1608, si passa nel 1656 a 7.717 con più di tre anni. Sui dati precedenti manca ogni altra precisazione circa l'età. Nel 1524 le anime registrate sono 5.500, ma dai cinque anni in avanti. L'alta mortalità infantile faceva prendere queste precauzioni statistiche.
All'inizio del secolo la crisi economica ha unificato ad ottobre in una "fiera generale" i tre appuntamenti tradizionali: la fiera delle pelli per sant'Antonio (12-20 giugno), la fiera di san Giuliano (presente dal 1351) tra 21 giugno e 22 luglio e la fiera di san Gaudenzio (nata nel 1509) ad ottobre. Era l'effetto di un declino commerciale ed economico a cui non si sapeva reagire. Già nel 1613, narra Adimari, cinquanta mercanti tra forestieri e cittadini, avevano chiesto una nuova fiera in primavera, "mossi dalla bona commodità del vivere et negotiare, et conversare et fare esito delle loro mercantie in questa città". Essa arriva nel 1656.
Nel 1614, come leggiamo in una cronaca di Anonimo datata 1728, "fu una inondazione così grande, che unitasi la Marecchia con altri fiumi, e massime in lontano col Rubicone che apportò danno molto notabile restando le barche, cessata quella disperse per gli orti di Marina, e molte fracassate, e moltissimi marinari anegati, e molte merci perite, e la terra per tutta la campagna ove era stata l'inondazione restò per molto tempo infeconda".
Due anni dopo per un fortunale (citato dal canonico Giacomo Antonio Pedroni nei suoi "Diari"), affondano molte barche, "s'affogarono assai persone" e si registrano molti danni nel borgo di san Giuliano.
In tutta l'Emilia-Romagna "attorno al 1620 si ha il punto di svolta della congiuntura economica italiana e l'inizio della depressione seicentesca", ha scritto F. Cazzola (1977). A Rimini nel 1621 a causa della penuria dei raccolti si deve pensare al sostentamento dei poveri "trovando a censo ingenti somme" (C. Tonini, 1896). È l'esplosione di una carestia che avviene tra 1618 e 1621, e che coincide con un periodo di guerre nella nostra regione che ne compromettono l'economia per molyi decenni. Gravi carestie si ritrovano alla fine degli anni 40 del secolo.
Un dato che riguarda Bologna illustra la drammatica situazione degli anni Venti: scompaiono quasi 15 mila abitanti. In quel periodo diminuisce anche l'importazione del grano: e ciò, leggiamo in un pregevole studio del 1891 ("La popolazione di Bologna nel secolo XVII") apparso nella rivista della bolognese Deputazione di Storia patria (vol. IX, III serie), "può essere tanto la causa come l'effetto" della diminuzione degli abitanti. Il 1621 è definito proprio come anno di carestia. L'autore della ricerca è Giovan Battista Salvioni (1849-1925), docente di Statistica nell'Ateneo di Bologna.
In quel saggio s'intravede la commossa partecipazione ai fatti narrati con il richiamo alle celebri pagine manzoniane sulla peste desolatrice de "I promessi sposi". Narrare quella di Bologna "senza avere il pensiero rivolto al grande Maestro sarebbe impossibile e basterebbe questo a farci deporre la penna, se, per fortuna, chi scrive non dovesse abbandonare ogni velleità in olocausto all'austera disciplina delle cifre". Le quali arrivano a 23.691 decessi con "33 curati, 27 medici, 17 astati, 87 barbieri, 48 porta cocchietti, 23 beccamorti, 244 meretrici, 361 facchini, 11.561 donne, 11.128 diversi, 162 cittadini.
Per il 1622 riminese ritorniamo al cronista Giacomo Antonio Pedroni: dopo alcune considerazioni sulla carestia che imperversava e sul micidiale rincaro dei prezzi dei generi alimentari, annota che "più persone facevano delle piadine di sarmenti e fave macinati insieme, per mangiarle in così gran bisogno". Queste miserabili piadine fabbricate con ingredienti vili e vilissimi avranno avuto la forma, se non la composizione, delle attuali, leggiamo in una pagina storica del sito web del Comune di Rimini, che possiamo ipotizzare composta dal saggista Piero Meldini, prima insegnante di Lettere e poi direttore della Biblioteca Gambalunga.
Circa le cause della crisi italiana del Seicento, apriamo un testo di Enrico Stumpo (2012), dove si richiamano le tesi di Carlo M. Cipolla (1959) e Ruggiero Romano (1971). La risposta del primo rimanda al crollo ed al declino dell'economia più sviluppata. Quella del secondo al ritorno di certe forme di feudalesimo. Stumpo ricorda che l'Italia di allora era l'insieme di piccoli Stati, divisi e separati tra loro non solo politicamente ma anche economicamente. Per tutti esiste poi la terribile concorrenza straniera.
Come sempre anche per Rimini c'è dietro nel bene e nel male uno scenario europeo da cui non si può prescindere considerando le nostre vicende cittadine soltanto come espressione dei respiri delle nostre contrade.prima edizione a Modena nel 1710, e poi ristampato nel 1714 (sempre a Modena), nel 1720 e 1743 a Napoli ed infine ad Arezzo nel 1767. Il suo titolo è "Del governo della peste e delle maniere di guardarsene". Muratori presenta notizie che testimoniano lo sguardo attento di uno scrittore che vuole documentare quel tragico fenomeno che coinvolge tutta l'Europa, come evidenziano le cronache del 1713 da Praga ed Amburgo, per illustrare un problema che nello stesso 1713 ha coinvolto la specie bovina dei ducati di Modena e Reggio.
L'intenzione di comporre "un trattato popolare" è spiegata così: egli non vuole usare i "termini astrusi, con cui alcuni Professori della Medicina cercano di farsi credito con poca spesa presso i meno intendenti". Per Muratori, nei sospetti di contagio bisognava "alleggerire di gente le Città". Fondamentale allo scopo, precisa, è l'organizzazione dello Stato. Come ha scritto Ezio Raimondi (1967), Muratori è l'erudito razionalista di gusto moderno che crede in una scienza che si applica sempre al reale. Lo vediamo quando lo stesso Muratori osserva: nel 1576 a Venezia c'è stata una orribilissima strage perché i medici disputavano se fosse peste vera o no. I ricchi, aggiunge, hanno l'obbligo di soccorrere i poveri.
Sono "tempi calamitosi": così li definisce il cardinal Galeazzo Ruspoli Marescotti (1627-1726) al Consiglio Municipale di Rimini in una lettera del 27 gennaio 1703, spiegando che bisognava non fare spese superflue, si dovevano evitare abiti sfarzosi e gioielli, anche se falsi. La città s'adegua con una serie di norme che mirano ad imporre un'attenta cura per evitare sprechi nelle vesti, nei servitori e nel modo di gestire la propria famiglia, come scrive Luigi Tonini.
Ruspoli Marescotti era a capo della Congregazione del Sollievo, sorta per decisione di Clemente XI nel marzo 1701 ed attiva praticamente fino al 1715 (anno delle sue dimissioni), per favorire la modernizzazione agraria, il controllo dei prezzi ed il miglioramento della viabilità (G. Motta, 2008). Essa era composta da altri quattro cardinali oltre che da prelati e laici che facevano parte dell'organizzazione amministrativa dello Stato. La chiusura della sua attività è ufficialmente datata 1725. Marescotti (come apprendiamo in un testo di G. De Novaes, 1802) aveva riedificato la città di Rimini "quasi distrutta dal terremoto del 1672". Luigi Tonini da scritti di Monsignor Giacomo Villani (1605-1690) riprende la notizia che scosse e crolli durarono a sentirsi per lo spazio di cinque mesi. Un'accurata biografia di Villani è presentata da Carlo Tonini nella sua storia della cultura riminese (1884).
Nel 1703, racconta Luigi Tonini, un grande terremoto scuote nuovamente la città, ma per fortuna non provoca danni. I quali sono temuti l'anno dopo per il corso del fiume Marecchia rivolto verso la città. Nel 1705 si pensa di chiamare un perito forestiero che il Pontefice aveva mandato a Ferrara per i ripari da farsi al Po. Tra 1709 e 1710 le casse comunali riminesi debbono provvedere con grandi spese a mantenere i ventimila militari tedeschi che transitano diretti a Napoli "ove quel popolo si era levato a tumulto contro il governo de' Francesi". I tedeschi inondano tutta la Romagna. Nemmeno le case dei poveri sono risparmiate dall'obbligo degli alloggi, per cui (scrive Tonini) quegli infelici dovettero più e più volte levarsi il pane di bocca. Poi passano le truppe pontificie di pari consistenza numerica per combattere atti di prepotenza imperiale, come l'occupazione di Comacchio e le minacce al duca di Parma perché cedesse il proprio potere allo Stato di Milano.
L'esausto erario comunale necessita di entrate: si rincarono i dazi e si inventano nuove imposte che colpiscono soprattutto il mondo agricolo che protesta duramente con il potere politico locale. Tra 1712 e 1713 una peste bovina si era diffusa nel territorio lombardo, in quello veneto, nello Stato ecclesiatico e nel regno di Napoli: ma le "patrie memorie" sono mute, osserva Luigi Tonini. Per la guerra col Turco ci sono passaggi di truppe sino al 1720, come si ricava da mons. Antonio Sartoni che fa "un quadro assai doloroso della nostra Città in quelle congiunture", leggiamo ancora in Luigi Tonini. Sartoni era un suo zio paterno. Carlo Tonini ricorda nella citata storia della cultura riminese uno "Zibaldone di memorie inedite" composto da Sartoni.
Muratori in uno scritto del 1715 osserva che "l'istoria principalmente dipende da documenti sicuri e copiosi". Luigi Tonini intitola il capitolo sugli anni 1720-1738 con una confessione dolorosa: "Scarsezza di notizie". Poi annota sul 1721: "Continuavano i sospetti del contagio" per cui i Consigli comunali decidevano cure e spese per la vigilanza con cui tenergli chiuso l'accesso alle nostre contrade.
Antonio Montanari
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