Creato da docsamurai il 23/04/2009

SUBARAU

per una nuova etica del Kendo

 

INTERLOCUTORI CERCANSI!

Questo blog è di tutti. Qualcuno scrive, ma consapevole che i Vangeli sono già stati redatti. Qui ogni affermazione è discutibile. Cerchiamo sinceramente interlocutori sereni e critici per un confronto utile a tutti. Leggeteci e, soprattutto, dateci del Vostro. Il Kendo ne ha bisogno.

 

IL DECALOGO DELL'ARBITRO DI KENDO

1. Seguire corsi tecnici tenuti da attuali competenti per futuri competenti

2. NON arbitrare in tornei importanti senza un'adeguata esperienza

3. Farsi la confessione e la comunione prima di ogni gara. Se non credenti o se appartenenti a religioni che non prevedano nè l'una nè l'altra, farsela lo stesso. Aiuta.

4. Dotarsi di adeguati apparati ottici dopo essersi sottoposti a visita oculistica specialistica.

5. Ascoltare i consigli dei Maestri che conoscono veramente il kendo: poco importa il numero dei dan, molto importa la capacità tecnica e di spirito.

6. Spogliarsi da ogni sudditanza e acquisire personalità di giudizio

7. Rifiutare il nepotismo

8. Rigettare l'esterofilia

9. Mettersi in discussione

10. E, soprattutto, rispettare i kendoka

 

 

 

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Un'intera Vita in una Prova

Post n°5 pubblicato il 03 Maggio 2009 da docsamurai

 

Quando iniziai a praticare kendo, in primo luogo attratto dalla dimensione interiore, psicologica e storica che tale disciplina mi comunicava, non avrei pensato di accedere all’agonismo. Anzi, non rientrava proprio nel mio orizzonte, nonostante mie svariate esperienze di competizione in numerosi altri sport. Semplicemente, non sono riuscito – sin da subito – a considerare il kendo uno sport. Ne conseguiva una dissociazione tra la pratica della “Via della Spada” e l’idea che essa potesse tradursi in un momento agonistico.

Pian piano, tuttavia, il mio atteggiamento prese a modificarsi. Senza rendermi conto, e consapevole che il kendo rimaneva una Via e non un semplice sport, in me si fece strada l’idea della competizione. Essa divenne presto una necessità, e a quel punto altrettanto necessaria si fece in me l’urgenza di una comprensione: perché non limitarmi a una pratica “pura”, che agisse come un mantra dinamico sulla mia anima, e avvertire invece il bisogno imprescindibile di misurarmi con antagonisti?

Facendomi strada a fatica tra gli ingarbugli etici delle convenzioni, ho guardato con sempre maggior chiarezza a ciò che io ero, al di là di ogni sovrastruttura addossatami dall’esterno o auto-edificata, e ciò che via via ho compreso – meglio, ho riconosciuto – è stata la natura samuraica del mio essere.

Potrei affermare di aver già vissuto questa dimensione in altre vite, e che ciò sia ritornato a me attraverso la pratica. A ogni modo tengo questa idea per me: non mi andrebbe di esser tacciato di pazzia su questioni che mi sono care. Ad ogni modo, quest’animo guerresco è sopravanzato, imponendo le sue regole, del tutto spontanee: perché se il pavido non può far altro che seguire il proprio istinto alla fuga, il Guerriero, altrettanto istintivamente, cede alla forza interiore che lo porta alla morte, se è il caso, ma alla difesa dell’onore e della propria sopravvivenza attraverso la “prova”: lo shiai di nipponica memoria.

Ma un guerriero è se stesso solo in guerra. Meglio: un guerriero nobile è se stesso solo se impegnato in un conflitto nobile. E sebbene la guerra, ai nostri giorni, sia tutt’altro che cessata, essa (tranne nei luoghi in cui imperversa l’abominio dei conflitti più miseri) ha assunto le forme del terrorismo psicologico, sottile e letale, nel quale ci si ritrova spesso intrappolati senza potersi difendere come sarebbe invece giusto che a un uomo vero fosse concesso.

Quel che dunque resta, unicamente – oltre, è chiaro, all’impegno per una vita esemplare e onorevole – è il momento della competizione, dell’agone: l’occasione in cui i samurai moderni, in po’ tutti vagolanti nella condizione spiacevole di ronin, recuperano l’occasione di mettere a confronto la loro leale competenza guerriera, di sfidare idealmente la loro vita, di incrociare spade che, non più fisicamente mortali, sanno portare colpi che comunque tagliano il nostro cuore di bushi come vere lame che attraversino la carne.

Ho preso dunque coscienza, in questo mio cammino, che il mio spirito può trovare nel kendo la sua dimensione. Ma che la completezza di essa consiste, in parte non piccola, nella possibilità che un cuore guerriero – il mio come quello di molti altri che si sentano non semplici “atleti”, ma samurai – torni a provarsi in combattimento: un duello codificato da norme che non giungono tanto dalla volontà di federazioni sportive quanto dal fatto, imprescindibile, che l’uomo è in costante conflitto col suo prossimo, che ciò è inevitabile, e che la nostra unica possibilità di vera civiltà non consiste nel sottrarsi paurosamente allo scontro (per poi, magari, ribadirlo subdolamente attraverso altre modalità psicologiche), ma nel renderlo il più onorevole e leale possibile.

E ricordando a sé e a ognuno che, per un samurai, l’eventualità del morire in un combattimento onorevole rappresenta l’occasione più concreta di una Buona Morte.

Matsumoto Oda

 

 

 
 
 

Spirit of Kendo

Post n°4 pubblicato il 01 Maggio 2009 da docsamurai

Il successo nel kendo si fonda su un principio naturale, cosmico: la supremazia del più forte. La Natura, nelle sue cose, opera in questo senso offrendo ai suoi membri – e secondo suoi criteri - doti più o meno spiccate. Maggiori e più affinate le doti, superiore la possibilità che l’essere vivente sopravviva al conflitto naturale e che, reciprocamente incrociandosi, migliori la specie d’appartenenza.

Il conflitto è però necessario: senza l’opposizione aggressiva dei contendenti non sarebbe possibile determinare le condizioni che fanno degli individui viventi – suddivisi per specie – i più adatti alla sopravvivenza.

In altre parole, la Natura è una guerra continua.

La differenza di fondo tra tutte le specie viventi e quella umana è che le prime agiscono sulla base di un puro istinto affidato alle loro elementari funzioni cerebrali; la specie umana, invece, aggiunge al puro istinto la facoltà della valutazione e considerazione delle circostanze (il contesto e la prospettiva), che all’atto del conflitto si traduce in strategia.

La parte non più soltanto intellettiva, ma anche intellettuale della contesa si riduce a poca cosa, però, se si perde il senso ancestrale, originale, del conflitto per la sopravvivenza.

Gli occidentali in genere e ancor più gli europei contemporanei non sono più avvezzi a pensare in termini di sopravvivenza. L’idea della Morte – che è l’angoscia profonda che tutto smuove con energia – sonnecchia infatti latente nelle lontane nicchie della loro coscienza, non ne influenza più la quotidianità, non sorge ad imporre quelle scelte severe e risolute che sarebbero, invece, dovute da ognuno a se stesso.

Temperamento e Personalità degli individui umani hanno subito una contrazione, si sono ridotti a un piccolo nucleo quasi inattivo, sufficiente appena ad affrontare l’ordinarietà. Affatto la Stra-Ordinarietà. Altrettanto può dirsi del kendoka contemporaneo medio, il quale tende, in tutto è per tutto, ad essere uno sportivo piuttosto che il praticante della Via (“Do”).

La differenza fra le due condizioni è rimarchevole.

Lo sportivo si limita a corrispondere alla codificazione di un gioco che simula (e null’altro) la primordiale competizione per l’Esistenza: si dà vita ad un confronto, la cui meta è l’alloro, o il trofeo, cioè un pacifico riconoscimento sociale. Esistono i più bravi e i meno bravi, i più dotati e quelli meno, proprio come in natura: ma la tecnica e la prestanza fisica sono i parametri principali sui quali si fonda la prestazione sportiva, alla quale è sufficiente quel ridotto nucleo attivo di temperamento e personalità superstiti per completare il quadro della performance sportiva.

Chi invece segue la Via - prima che praticare un’attività che è anche sportiva, ma solo in ragione della sua componente dinamica – si confronta sul piano della Vita e della Morte, e lo fa in prima istanza con se stesso.

Lasciare gli zori ai bordi del tatami e porre i piedi nudi su di esso dovrebbe rappresentare a tutti gli effetti, nella consapevolezza del kendoka, l’ingresso in un territorio di guerra, nel quale - pur nel rispetto e nella lealtà reciproca - la posta è la Sopravvivenza.

Se il praticante la Via della Spada fosse sempre cosciente di ciò, e l’idea della lotta per la Vita gli bruciasse in fronte costante come il segno sanguinante della lama, allora l’atteggiamento del suo spirito renderebbe ogni sua azione, ogni suo progresso, ogni apprendimento, ogni respiro, ogni istante di debolezza e di immediata ripresa un concerto di vincente consapevolezza. Perché chi lotta per la Vita (e non solo per la propria), e chi, nel frattempo, pur ostacolandola in ogni modo attende al varco la Morte con cuore rilassato, vince e vive comunque.

In un certo senso non muore mai.

E ciò perché la reale vittoria della Morte sta tutta nella paralisi che la paura di essa infonde nell’anima non pronta, e perciò inerme.

Il solo braccio disarmato di chi è pronto a morire per vivere si oppone con successo alla più sapiente lama. E anche senza più braccio – qualora la lama riesca a reciderlo - sia ben chiaro che il Ki uccide più dell’acciaio.

A tanta disposizione d’animo, tuttavia, bisogna prepararsi. Non si nasce, di solito, antagonisti naturali della Morte. Istinti innati alla componente animale della nostra specie, insieme alla facoltà intellettuale del discernimento, tendono a far si che l’essere umano cresca prudente. Inoltre, le convenzioni del sociale e della civiltà (parole entrambe false e orribili) giorno dopo giorno lo spingono a dimenticare la parte attiva di sé, la componente superomistica che, da sempre, nella lotta trova la cura ai propri mali e alle proprie miserie. Quel che ne risulta è un ripugnante quadro di pavore nei modi e nei tempi della vita umana.

Ritrovare il tesoro di temperamento e personalità sepolto nell’animo di ognuno è frutto di una cammino personale, certo. Esso chiede però di essere pur messo in moto da Qualcosa. O da Qualcuno.

Un Maestro e una germinale forma di Satori (l’Illuminazione) sono necessarie all’avvio di questo percorso che possono trasformare l’atleta praticante di kendo in un Samurai: portatore dello spirito del Subarau (il Servire), nel quale si condensano i valori altamente poetici della compassione, della dedizione, della certezza, della coscienza. E della Vittoria per la Vita, propria ed altrui.

Sarà una gran cosa quando avremo imparato a salire sul tatami per uccidere: noi stessi e il nemico; e per salvare: l’avversario e noi stessi. E quando avremo imparato - con lo stesso animo che affronta e accetta la Morte perché ama la Vita - a raccogliere, qua e là lungo la nostra strada, i delicati petali di ciliegio che il vento ci dona.

E faccia seppuku chi invece, distratto e perciò misero, i dolci petali continua a calpestare. Con cieca stoltezza.


Katomi Masashiro

 

 
 
 

CONI o non CONI? Ma che dilemma!

Post n°3 pubblicato il 29 Aprile 2009 da docsamurai


CONI (nel senso di Comitato Olimpico Nazionale Italiano) e Kendo sono elementi che già da anni vengono nominati secondo una strana dinamica che a tratti li vede sul punto di uno sposalizio in stile hollywoodiano, a tratti, invece, li mantiene separati come se fra essi fosse inevitabile un profondo abisso.

Alle vicende a tutti note relative al dilemma CIK/FIK – e che vi risparmio in questa sede perché è venuto a noia, e per non sollevare vespai che non mi interessano – di recente si è sentita, da qualche parte, la notizia che la FIS (Federazione Italiana Scherma), primo step verso l’avvicinamento al CONI, avrebbe manifestato interesse a “inglobare” - verbo fastidioso ma realistico - il mondo del kendo per favorirne il sostegno e la promozione.

Del resto, per quanto giapponese, il kendo sempre scherma è.

Rimane però il fatto che, sin qui, si sia trattato solo di parole e voci: nessuna joint venture è intervenuta di fatto tra federazioni kendistiche (espressione che per alcuni è già una bestemmia, poiché l’unica federazione riconosciuta sarebbe la CIK) e FIS o CONI.

Chi ne sa di più afferma che, in effetti, di fusione con la FIS si starebbe ragionando, ma più da parte della FIK che della CIK. Il che dovrebbe sorprende, giacché è strano pensare che una non federazione (la FIK) possa avere più chance di una federazione a tutti gli effetti (la CIK).

Ma – ecco il punto – si tratterebbe davvero di chance, per la CIK? O piuttosto di un impiccio? Mi spiego meglio.

Ciò che la FIK è stata e non è più da tempo risulterebbe favorita da una così significativa fusione: il suo nome ed il kendo da essa rappresentato balzerebbe agli onori di una considerazione sportiva ufficiale e nazionale, pronta a fare il gran balzo nel caso in cui il kendo divenisse disciplina olimpica, come tutti si auspicano e come meriterebbe visto che anche la gara del “chi sputa più lontano” è sul punto di ammantarsi del drappo con i cinque anelli.

In teoria, un vantaggio simile dovrebbe far gola anche alla CIK. Con delle controindicazioni, però: perché tutti i ruoli di micropotere verrebbero messi in discussione, presidenza e vicepresidenza decadrebbero (ogni cosa, ricordiamolo, passerebbe sotto l’egida della FIS), incarichi e ruoli verrebbero rimescolati e non pochi, che della CIK fanno loro personale appannaggio, si troverebbero defraudati di alcuni vantaggi: ad esempio, di girare il mondo per stage e viaggi a spese dei singoli ed inermi kendoka italiani, i quali pagano annualmente l’iscrizione a una federazione che risulta poi inesistente sotto ogni aspetto.

Quando la FIK era FIK (e lo dico senza partigianeria, ma con senso storico), i kendoka usufruivano di vantaggi che, in fin dei conti, convergevano tutti in una concreta promozione del kendo: più tornei, maggiore possibilità di spostamento per le gare e, quindi, di confronto tecnico e agonistico. E molto altro. Oggi la CIK non assicura nulla: neanche, di quando in quando, la gratuità di qualche stage, richiedendo invece costi che, ad avviso di molti, sono esorbitanti.

In altre parole: i kendoka vivono per il loro kendo, e la federazione vive…grazie ai soldi dei kendoka? Non è accettabile.

Alla CIK noi tutti – o meglio, tutti coloro che la pensano come me, e che non sono pochi – chiedono un investimento morale che muova verso il bene del kendo e non del vantaggio personale.

Il kendo non ha bisogno di federazioni, stando così le cose: in questi termini, infatti, essere stretti in una struttura talmente miope ed angusta non procura vantaggi a nessuno. Non c’è respiro, non c’è libertà, non c’è promozione.

All’apertura dell’XI torneo Mu Mun Kwan, il presidente della CIK - con un discorso breve ma compunto e solenne - ha sottolineato la volontà federale di riconoscere l’aspetto privato di alcuni tornei, pur tributando ad essi una sorta di patrocinio morale. Al sentire queste parole, espresse con una gravità quasi ridicola, ho sorriso mio malgrado alla spudoratezza di questa persona che, manipolando tutti i presenti, in realtà tirava fuori sé e la federazione da ogni e qualsivoglia responsabilità istituzionale, pur tenendosi vicino all’eventualità che i meriti di un torneo quale il MMK potessero, in qualche modo, illuminare anche la CIK.

Penoso.

Trovo che il kendo italiano meriti di più. Esso merita impegno, serietà, affetto, responsabilità; merita contributi, organizzazione, servizi; merita, in altre parole, promozione.

Che poi a garantire ciò sia un ente denominato CIK, FIK, FIS o CONI, ai kendoka non può fregare di meno.

 

Il kendo ai kendoka, dunque. La politica, cortesemente, altrove.


Tachiro Kengi

 

 
 
 

Gioie e Dolori del Kendo: il torneo Mu Mun Kwan 2009

Post n°2 pubblicato il 24 Aprile 2009 da docsamurai

Mancavo da Lodi dal 1986. In 23 anni la cittadina è cresciuta, e quel che ricordavo come un piccolo paese avvolto nella bruma invernale si è rivelato un luogo brioso, ricco, con una vitalità piacevole e accogliente. Pianure verdi cullano l’abitato e dalla sua periferia al centro è un crescere di strutture organizzate, di persone cortesi, di strade pulite che si stringono attorno a un centro storico bellissimo, con massicci portici pieni di luci, movimento e umana simpatia.

Mi ha fatto dunque un gran piacere tornarvi in occasione dell’XI edizione del Mu Mun Kwan.

L’MMK è considerato uno dei momenti più significativi del kendo italiano, e anche quest’anno non ha deluso. Forse un po’ meno frequentato rispetto ad altre edizioni, ha mantenuto i suoi elevati standard, raccogliendo ancora una volta rappresentative di alto contenuto tecnico e umano.

La parte migliore del torneo è certo l’organizzazione.

Cesare Kim è un simpatico folletto che dai suoi indecifrabili occhi a mandorla esprime calore e ironia, sempre indaffarato da un capo all’altro del palazzetto per porre rimedio alle esigenze dell’ultimo istante: una traduzione per gli ospiti stranieri, la sistemazione di un angolo scollato dello shiaijo, l’elaborazione al computer degli accoppiamenti delle squadre, e tutto quel che viene.

Il M° Kim è il guru di questa come di molte altre manifestazioni, campionati italiani compresi. Papà di Cesare, porta scritta sul volto e nei modi la compassatezza di chi abbia conosciuto molto della vita, sia nella sua componente interiore che in quella combattiva e disciplinata del kendo.

Potrei accennare ad altre persone ottimamente dedite ogni anno alla realizzazione dell’MMK, ma soprassiedo perché non è questo il nocciolo della questione. Dire bene del torneo è superfluo, giacché i contenuti espressi, sia in termini di stage (tenuto dal M° K.C. Ko, Hanshi 8° Dan di kendo e direttore tecnico della nazionale coreana, e fin troppo “up”, considerato il tasso tecnico dei partecipanti,) che di gara, parlano da soli.

Conta piuttosto soffermarsi sul contraltare della manifestazione – la cui responsabilità non è imputabile alla stessa – e che si ripropone nella maggior parte dei tornei nazionali organizzati e/o riconosciuti dalla Confederazione Italiana Kendo: l'arbitraggio.

Poiché a Lodi c’ero, ho osservato e ho ascoltato. E adesso scrivo, per analizzare pubblicamente la generale scontetezza dei kendoka.

Mi son detto che per partecipare a un serio torneo di kendo sono necessari sacrifici. Il kendo è una passione, certo, ma è anche un’attività fisicamente stressante, tecnicamente difficile, mentalmente impegnativa. Il kendoka – uomo di sentimenti, valori e passioni - mette tutto di sè per prepararsi adeguatamente a un, che so?, MMK. Ogni atleta sostiene delle spese per potersi confrontare sul parquet. Molti vengono davvero da lontano, o non hanno alle spalle alcuna forma di contribuzione.

Da questo punto di vista, del resto, la Federazione latita.

Sin qui, ad ogni modo, tutto ok: ogni kendoka segue per scelta la voce della propria passione.

Che ogni cosa venga però poi vanificata da certa approssimazione fa storcere il naso. E anche preoccupare. Mi spiego.

Prima dell’inizio delle gare, il M° Kim, dall’alto della sua delicata autorevolezza, ha offerto ai kendoka alcune indicazioni affinché gli ippon potessero essere riconosciuti come tali. Tale chiarificazione è stata oggettivamente utile perché espressa pubblicamente e a chiara voce.

Sullo shiaijo, però, ogni coordinata è saltata.

Coloro i quali avrebbero dovuto rappresentare la salvaguardia della precisione e correttezza di un combattimento – gli arbitri – evidentemente erano per la maggior parte distratti mentre il M° Kim provava ad illuminare tutti – indistintamente – con le sue considerazioni di tecnica e di spirito.

Così, al momento delle gare ecco prender vita paradossi stupefacenti: chiari ippon negati un istante prima al kendoka A, identicamente eseguiti due secondi dopo dall’avversario kendoka B venivano riconosciuti all’unanimità arbitrale come colpo vincente.

Ancora, da un lato ripetute titubanza nell’accordare un colpo agli atleti italiani – nessuno escluso – e dall’altro lato costante atteggiamento di entusiasta benevolenza esterofila verso gli atleti stranieri: più o meno un ippon per colpo

Ho dinanzi agli occhi I kote inflitti dai coreani - atleti veramente eccezionali dai quali ognuno di noi può solo imparare - ai loro avversari: volavano sfiorando - più che colpendo - il guanto dell’avversario, con tecnica bellissima e implacabile, e giustamente veniva loro riconosciuto il colpo. Ma se un atleta italiano avesse fatto qualcosa di simile, nessun arbitro della nostra federazione gli avrebbe riconosciuto l’ippon: perché, come recita la filastrocca, “se non senti il kote, il colpo non c’è…

Potrei dire altro, ma non importa.

Conta piuttosto riflettere su una questione: quali parametri deve seguire un kendoka? E quali un arbitro? E c’è la possibilità di un punto di incontro tra i parametri degli uni e degli altri?

Insomma, il kendoka da chi si deve guardare? Dall’avversario o dall’arbitro?

Sul fronte tecnico e arbitrale la federazione è dunque chiamata a chiarire d’autorità alcune questioni, se ne è in grado e se la “politica estera dello sport” non la mette, come temo, sotto scacco.

Noi siamo qui per darle alcuni suggerimenti e aiutarla.

Chiudo rilevando che quanto sopra detto non và però assolutizzato: a fronte di arbitri incompetenti, o con manie di protagonismo, o poveri di spirito di imparzialità, primeggiano anche personalità umilmente magnifiche: voglio ricordare ad esempio il M° Zago, il M° Pomero o il M° Lancini – insieme a pochi altri – ai quali và il plauso e la gratitudine dei fianchi, dei polmoni e dei cuori dei kendoka, i quali sanno che - con tali maestri all’arbitraggio - non saranno costretti a spomparsi inutilmente alla ricerca dell’ippon che nessuno, al di fuori di loro, pare essere più in grado di riconoscere.

Con cordialità.

 

Sentzo Tomori



 

 
 
 

Cominciamo da qui...

Post n°1 pubblicato il 23 Aprile 2009 da docsamurai

&a

 

Per tutti voi che vivete di Kendo e per il Kendo, oggi prende vita questo nuovo blog il cui titolo è già un programma: SUBARAU.

 

Come certo in molti saprete, SUBARAU è il verbo giapponese il cui significato è "Servire", e dal quale deriva il termine SAMURAI, a tutti noi tanto caro.

Ed è proprio con spirito di servizio che questo blog si affaccia al mondo del web e del Kendo: per sostenere la nostra amata "Via della Spada" nel recupero del suo fondamento etico che l'aspetto puramente agonistico sta, giorno dopo giorno, emarginando.

I puristi del Kendo non dimenticano certo che, alla base di questa arte marziale, sono posti i pilastri del Bushido, il Codice del Guerriero.

Tra essi spicca il costante richiamo a un sentimento ai nostri giorni quasi obsoleto: quello dell'ONORE. Trasferendoci dalla pura astrazione del concetto alla sua concreta applicazione, scopriamo che "Onore" può assumere molteplici sfumature di significato. Di tale varietà non mancheremo di trattare - insieme a chi vorrà seguirci - attraverso i post che pubblicheremo a partire da oggi, e con cadenze che risponderanno alle esigenze oggettive del nostro Kendo, filtrato attraverso le esperienze nostre e di chi vorrà contribuire alla causa che ci siamo prefissati: di edificare una nuova etica del Kendo, improntata a quella tradizionale e in contrasto col trend mistificante e utilitaristico cui la nostra amata Via è sottomessa da sovrapposti obiettivi "politici" (in senso sportivo) che nulla hanno a che fare con l'Arte della Spada in senso tradizionale.

Forse rimangono in giro pochi Samurai: uomini e donne disposti ancora a "servire" - spesso con sacrificio - quella dimensione guerresca e nobile che vive nei loro cuori. Noi, che ne riconosciamo il grande valore umano, desideriamo stringerci a loro, e da loro essere abbracciati idealmente, al fine di porre termine a situazioni a nostro avviso poco chiare, spesso palesemente antisportive ed eticamente inaccettabili.

Ci auguriamo sentitamente che tutto ciò porti a qualcosa.

Siamo consapevoli, del resto, che perché ciò avvenga è basilare associare i cuori e le voci per richiamare all'onestà intellettuale e all'onore samuraico chi tende a trasformare un Mondo Superiore, quello del Kendo, in una torbida palude nella quale gestire l'andamento delle cose sulla base di scelte opportunistiche.

Buona fortuna a tutti, dunque, in nome di quel gesto sublime che il maestro Kim - in occasione degli ultimi CC II svoltisi a Roma - ha definito "Magnifico Ippon": il colpo decisivo nel quale, oltre al punto utile alla competizione, si racchiude molto altro: una sapiente ricerca di tecnica, spirito, valore e lealtgrave;.

Una miscela di grandezze che qualcuno, da qualche parte, sta cominciando a dimenticare...

 

Hajime Kenzo 


 

 
 
 

 

INTERLOCUTORI CERCANSI!

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IL PENTALOGO DEL KENDOKA

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2. Bushido

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5. Pazienza...(e Bushido...!)

 

 

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