Taglia Trentotto
Il mio primo acido libro. Questo blog ne è la continuazione
Post n°28 pubblicato il 09 Marzo 2012 da tagliatrentotto
Il mio futuro è assai incerto. Non è un caso che le zingare mi rincorrano per strada per leggermi la mano. Spesso mi fanno notare come la linea della vita sia un po’ sconquassata e inconsistente, difficile da seguire con lo sguardo fino alla pensione. Il passato al contrario è un segno duro sul palmo, una cicatrice di stronzate che io tento di addolcire con della crema Nivea nella speranza di diventare saggia un giorno. In genere però cerco di non tornare mai adolescente per non farmi carico di quelle stronzate. A ben pensarci sono stata felice solo nel 1984, gli anni prima e gli anni dopo me li ricordo tutti corrosi e piuttosto heavy metal. Nel 1984 uscì Like a Virgin. Fui felice perché appresi che si può fare le vacche anche vestite da madonne. Sono certa però che negli anni Ottanta la felicità pervadeva completamente i nostri animi e tutti ne assaggiavamo almeno una fetta. Gli italiani si dichiaravano contenti nei sondaggi e il suicidio era un affare unicamente finlandese. L’evasione fiscale già allora sputava Suv figli di redditi che sulla carta non erano mai nati, ma che in realtà scoppiettavano in cassa di risparmio. Anche l’occupazione viaggiava stabile su un convoglio felice e le segretarie d’azienda fiorivano ovunque. Grazie al boom economico la gente si bruciava i propri anni migliori in lavoro straordinario, e dai capannoni all’orizzonte si levavano grandi fiammate di valore aggiunto a lembire il cielo dei distretti industriali. Nelle ore in eccesso se ne andava tutta la creatività, quella che forse oggi riserveremmo ad educare un Tamagotchi. Il vero hobby degli uomini italiani era quello di far crescere la busta paga e i risparmi di una vita. Ed erano uomini in pace con Dio e con la società. In fondo ci voleva poco per guadagnarsi il paradiso: bastavano un tornio meccanico e la santa messa. Tutto quello che avveniva dopo aver timbrato il cartellino alla fine di un turno erano distrazioni sentimentali. Le palestre accoglievano solo yuppies, nati anche loro da poco, forse coetanei delle migliori hit di Madonna. I lavoratori delle fabbriche venete invece si facevano crescere i muscoli sulla squadrabordatrice e assieme ai bicipiti aumentavano anche i fatturati delle aziende. Nessuno allora distoglieva il pensiero dal lavoro svagandosi con del sesso inutile. L’Escort era solo un’utilitaria che potevi anche pagare a rate, non certo una puttana con una marcia in più. Negli anni Ottanta, quando eravamo tutti padroni di noi stessi e dominavamo le aziende, mia madre mi intimava di continuare a studiare. Non so perché lo faceva. Siamo unicamente quello che produciamo. Ora l’incantesimo dell’industria si è rotto. Dicono che stavolta non è colpa dell’inflazione, ma di evasione e corruzione, quelle che mi avevano reso felice nel 1986. Sul Veneto laborioso dove un tempo divampavano lavoro nero e lavoro straordinario è calata una cappa di sfiga e mancanza di commesse, e così il fuoco produttivo del Nordest si è spento. Siamo il fumo che vendiamo. Un call-center di troppo. Uno stage aziendale fregatura dell’ultima ora. Gli hobbies, i social network e tutto ciò che ci aiuta a costruire un’esistenza al di là del nostro centralino perduto, ci danno la speranza di un’altra identità che nasce dalle ceneri di una carriera. Siamo costretti ad amare il giardinaggio, ed agitare il pollice verde al posto del vaffanculo col dito medio è ormai la nostra professione. Tanti hobbies servono a coprire un solo buco, neanche un buco nell’anima, che ci dia la sicurezza che le telenovelas e le corna fanno ancora parte delle nostre vite, un vero e proprio buco in agenda che dura da Carnevale a Natale, dove non conosciamo più né innamoramenti nè fatture da stornare. Siamo tutti cassaintegrati. Siamo il nulla che ostentiamo. Meglio sarebbe mettere delle attività preferite dentro al vuoto, altrimenti la noia, il porno e il Grande Fratello si impossesseranno di noi impiegati dimenticati. Il découpage, l’uncinetto e la briscola occuperanno presto tutto il nostro calendario. Dovremo farcene una ragione di questa nuova occupazione. Ma vi dico una cosa. Una ex bulimica che viene improvvisamente privata delle sue bolle di vendita è doppiamente scornata. Il suo destino non è di farsi crescere il pollice verde o altra opzione di vaffanculo, ma di preparare una Torta della Nonna. Poi un’altra. E un’altra, fino a radere al suolo tutto l’albero genealogico di ingredienti parenti. Quando il dolce far nulla le si conficca nella carne come un pugnale, non è agli allegri scacchi che pensa ma ai fiocchi di mais. Fiocca il desiderio di overeating. Mangiare è il mio lavoro, l’occupazione dalla quale non mi licenzio mai. Ho tutto il tempo per cucinare. Accendo il fuoco. Ma poi succede sempre che si sente quel terribile odore di centralino bruciato. Un curriculum sprecato. Un vitello tonnato. Le mie ore straordinarie sarebbero ancora più affascinanti se ci aggiungo cinque vasetti di Nutella. Volo alla Coop. La spesa non è più la stessa di quando ero bambina e lanciavo il carrello verso i carboidrati. Ora ho molta più paura di ingrassare. Oggi, fare la fila alla cassa del market è come fare la coda per il sussidio statale. Ho sempre quella faccia da veneta sconfitta, travolta dalla bulimia e dall’economia. Eppure mia mamma mi diceva di continuare a studiare se volevo sfondare. Di quegli studi che, se hai un po’ di fortuna e ti applichi abbastanza, ti fanno finire dritta dritta tra gli esuberi aziendali, sulla lista dei nomi da tagliare. Electrolux rigurgita impiegati per le strade. Quel vomito del capitale in crisi che pensavo fiottasse solo dai grandi complessi industriali, ora è tutto dietro a casa mia. Montagne di impiegati che devono cambiare vita, così su due piedi. Dicono che qualche manager, a lungo andare, sia finito a dormire in macchina, declinazione moderna di clochard su un’ Audi. Siamo cibo spazzatura per le aziende. Ma il cibo spazzatura da che mondo è mondo risolve ogni male. Ce lo portiamo frettolosamente alla bocca quando siamo tristi e mastichiamo più che possiamo. Purtroppo si tratta quasi sempre di assunzioni sfortunate. Torno al pane. Torno alla mio vecchio mestiere. Non mi considera di troppo neanche quando mi fotto venti brioches in pacchi famiglia. Di cui voglio solo essere figlia. Funziono come una fabbrica di paranoie che non stacca mai, neanche quando la felicità mi spacca le budella . La malattia è una carriera brillante. Corre liquida tra scenari di recessione e la morte dell’industria italiana. Mi infilo anche io nel tunnel della depressione come fanno certi operai congedati. Mi preparo un toast a sette piani. Ma all’improvviso mi contatta la Manpower di Treviso. Forse un’azienda mi desidera. Il mio lavoro non è mangiare. Il mio lavoro è fatturare. |
Post n°27 pubblicato il 31 Gennaio 2012 da tagliatrentotto
Un disoccupato ha tutto il diritto di fare il morto. Morto quasi per davvero. Non ci sono sveglie a riportarlo nel mondo reale il lunedì mattina e non c'è la fragranza del caffè a dargli una botta di vita prima di timbrare il cartellino. Tutto tace almeno fino alle dieci, quando le segretarie invece vivono già da qualche ora. Il disoccupato in fondo è riposato. Si alza dal letto e si spalma in volto una cremina Shiseido. Meglio che in futuro siano pratici campioncini della farmacia di sotto, e anche tutto il resto dell'esistenza dovrà essere consumata in dosi mini. La lozione serve per correggere l'incarnato grigio topo, tipico di coloro che vivono di sostegni al reddito. Ma quale reddito? Forse una volta ce n'è stato, ma ora il disoccupato si è bruciato perfino il TFR ai saldi di Pinko su alcune gonne di ottima fattura che potranno fare anche da paralume, se c'è ancora la corrente elettrica. Chi perde il lavoro non ha più niente per cui lottare. Non scende in strada con l'utilitaria ad affrontare il traffico di tangenziali impazzite per raggiungere l'ufficio. Non combatte per fare entrare una puntata di Beautiful nella sua pausa pranzo. Non è affatto un eroe della quotidianità, come amano descriversi le persone che lavorano e si fanno il mazzo, vere mattonelle della nostra società. Qualcuno giustamente può pensare che il nullafacente se ne sia andato altrove. Che se ne sia andato per sempre. Un disoccupato lo si lascia sparire in maniera silenziosa. Quando confida di essere stato licenziato, i conoscenti gli danno una patta sulla spalla e gli organizzano una festa. E così diventa gradevolmente invisibile. Se non lo incroci più alla fermata del bus o sul regionale delle 7.35, te ne fai rapidamente una ragione: gli avranno tagliato il contratto in banca. Ma non ammetterà mai di aver preso un calcio nel culo, dirà sempre a tutti di aver perduto il lavoro. Di averlo distrattamente dimenticato al bar. Di averlo messo in lavatrice per sbaglio. Ce l'aveva in tasca, assieme alle Vigorsol, ma ad un certo punto gli è caduto nel tombino mentre camminava per strada. Oppure se l'è giocato alle slots. L'ha perso punto e basta, e nessuno si è offerto di restituirglielo. La nostra carriera si è dileguata per sempre. Ma non si tratta di una brutale defezione, quanto di una normale dipartita, del tutto fisiologica ad un mercato malato. E' una cancellazione dolce e alla gente va bene così. D'altronde i posti di lavoro sono contati, meglio se qualcuno accetta questa blanda transizione da alfa a beta adottando un furetto e ritagliando origami dalle 9 alle 5. Meglio se qualcuno si adagia su una deragliata vita da bohémien, coltivando piante sospette e sparando ai vicini. Si, questa è la morte lenta per mano del sistema capitalistico. Da cazzuti turnisti di fabbrica improvvisamente diventiamo tutti freelance senza palle, orgogliosi self-employed senza una tessera sindacale, quelli che ce l'hanno fatta col piccolo business online, lavorando col culo comodamente attaccato alla poltrona di casa. Il disoccupato si è rivolto allo stato. C'è sempre una qualche mutua che ci impedisce di impazzire e che ci permette ancora di fare code agli sportelli come le persone normali. Ma gli assegni statali si esauriranno presto. Ci mancherà l'aria. Ci mancherà uno zero al conto corrente. Faremo un ultimo tentativo di sbarcare il nostro cv alla Geox che ci sbatterà la porta in faccia, vile magazzino di scarpe con la para bianca! I fidanzati dei disoccupati li guardano con un misto di pena e tenerezza e si fanno quasi convincere a presentare quegli esempi di professionalità ai loro datori di lavoro. Poi però li guardano meglio e cambiano immediatamente idea, lasciandoli morire davanti alla tv del mattino, i telefilms anni Ottanta sono la morte più vintage. Il disoccupato non fa più parte del mondo, intendo quello sano, impegnato e propositivo, fatto di ordini, fatture e tanta evasione. Al massimo fa parte di una band. E' improvvisamente caduto in una melma nera ricolma di bamboccioni e pidocchi fannulloni di cui il Veneto produttivo si dimentica in fretta. Ma un licenziamento fa figo, insomma, la working girl fino a Natale un lavoro ce l'aveva, e sente ancora i suoi skills che le corrono giù per la schiena e fremono per essere utilizzati in un'altra azienda. Presto si congeleranno anche loro in un'atrofia mentale prossima al rincoglionimento. Dalla bocca della working girl usciranno solo sillabe senza un valore aggiunto e stronzate dalla carriera breve. Quando finiscono i soldi, finiscono anche i saldi e tutto il divertimento che deriva dall'avere tanto tempo libero. Che è il vuoto. Ore enormi. Calma isterica. Le stesse mutande per tre giorni di fila. Il vacante ora si sente piccolo come una lumaca. Ma la lumaca almeno una casa la possiede, mentre lui tra un pò non possiederà neanche più quella. E' stato abbandonato dal suo lavoro, parenti e amici. Gli unici a cercarlo sono i call-center che per vivere contano su un numero massiccio di casalinghe e di individui che hanno perso il lavoro. Il teleselling non molla mai le sue prede per nessuna ragione al mondo. Trova sempre un depresso in casa disposto a correre al telefono pur di sentire una voce amica, anche se si è appena seduto sul water. Non sei veramente disoccupato se non vieni raggiunto da almeno una televendita di mobili al giorno. Non sei veramente licenziato se non salti come la pallina di un flipper da una compagnia telefonica ad un'altra. Ed è solo quando non hai un lavoro che ti accorgi di non avere neanche più una privacy. La working girl che ora non esiste più, una volta avrebbe risposto Ficcatevelo nel culo il vostro corso di informatica. Adesso le televendite sono le sue uniche amiche. Il centralino Infostrada un padre con la voce registrata. Rispondere a vanvera la sua sola occupazione. |
Post n°26 pubblicato il 25 Gennaio 2012 da tagliatrentotto
Arriva un momento in cui noi ragazze lasciamo l'università. Niente anno sabbatico, cerchiamo subito lavoro. Spammiamo alle aziende il curriculum senza esperienze, dove il nostro potenziale e l'hobby del giardinaggio sono tutto. Se potessimo davvero scegliere, vorremmo che nel nostro libretto di lavoro ci fossero solo società quotate in borsa con uffici talmente grandi dove l'eco amplifica le vendite a dismisura e i colleghi non si incontrano mai. Nel nostro libretto dovrebbe fare capolino almeno una S.p.A. diretta da manager in giacca e cravatta che mai e poi mai si farebbero scappare dalla bocca qualche famoso venetismo come Diocan, se i guadagni non impennano. Qui in campagna invece ci sono ancora tante società di persone, di carne e sangue. Le S.n.c sono nate e cresciute dalle case dei contadini, direttamente dai garage dove una volta si tagliavano le tavole di legno. Basta guardarsi intorno, qualche villetta negli anni Ottanta ha partorito un'aziendina famigliare dove oggi lavorano Bepi e i figli. Miracoli economici di qualche metro quadro. Le zone industriali sorgono proprio dietro a casa e in mezzo c'è l'orto, se proprio dovesse andare male col tornio. Queste sono le ditte individuali di cui ti puoi fidare, quelle dove il padre si improvvisa anche padrone, quelle dove il padrone prima o poi ti fa da padre. Ti fidi del padrone quando dice che i dipendenti sono dei figli. Quando si è una famiglia si naviga meglio in mezzo alla crisi e non ci si divide se cala il fatturato. Un padrone può divorziare, come ha fatto il mio che ci aveva preso gusto per le ragazze dell'est, ma l'azienda e i dipendenti rimarranno la famiglia a vita, le corna non c'entrano. Le Electrolux e le spa troppo cresciute invece minacciano tagli al personale, e solo il fantasma buono della C.G.I.L. che improvvisamente appare per le strade dei distretti industriali può ricucire le ferite. Quando le multinazionali stanno male si liberano in un battibaleno della parte malata, del settore che non rende, con uno zac. Non c'è famiglia che tenga. Il sindacato locale viene a raccoglierne i pezzi e a seppellirne la morale troppo globale, e tu finisci a picchettare assieme ai colleghi strappati dal libro paga, il libro più bello che c'è, finché c'è scritto il tuo nome. Nella nostra famiglia metalmeccanica tutto è filato liscio finchè piovevano gli ordini e c'era da mangiare per tutti. Eravamo figli dello stesso capitale, magazzinieri e centraliniste. Il mio nome stava saldo sul libro paga e lo stipendio ogni mese aveva la stessa puntulità del ciclo, senza darmi quei fastidiosi brufoli sul mento. Tutti ci volevamo bene, noi fratelli nati dalla stessa linea di produzione. Il padrone ogni tanto mi urlava nelle orecchie che non valevo una sega, ma tant'è, io mi vendicavo aprendo profili falsi su Facebook, uno per ogni giornata INPS passata su quel cazzo di scrivania con la laurea in tasca ( e da lì non è mai uscita). Non ho mai pensato di cambiare parenti e farmi adottare dall'Electrolux, dove non avrei mai avuto un nome, ma solamente un numero di matricola, e poi, per i miei diciott'anni, anche la tessera oro della C.G.I.L. Non ho mai provato a tradire i parenti mandando un cv galeotto alla Veneta Cucine, florida azienda di Biancade, in cui si narra di meravigliosi fuori busta elargiti a brevi mano, tutto esentasse. Ero sicura che ce l'avremmo fatta a superare la crisi, la mia famiglia ed io. Non mi è mai passato per la mente che l'aver spesso rotto i coglioni al lavoro, e l'aver più volte pianto sui miei passati disturbi alimentari e i vari runaway boyfriends, potesse incrinare il rapporto col padrone. No. Un padrone veneto non licenzia mai i suoi dipendenti e non fa tagli al personale che non siano sotto forma di parole laceranti o altre motoseghe su come svolgi il tuo lavoro. Non si libera di te neanche se ti fai ore ad inventarti facce diverse sui social network -StefaniaMissPadania o PercoraNera. Finchè non sono arrivati i cinesi - così ha detto il mio padrone - a copiare il duro lavoro dei veneti. Noi non abbiamo mai brevettato niente in tanti anni di vacche grasse. Il disegnatore tecnico schizzava i particolari metallici che poi finivano in macchina, pronti ad essere stampati. I cinesi -così ha detto il mio padrone- hanno preso i pezzi migliori e li hanno rifatti, un pò più tozzi, lunatici, ma in grado di fotterci una fetta del mercato. Quando non ci sono più soldi un padre abbandona i suoi figli. E non te lo dice in faccia, ma lo capisci da atteggiamenti poco genitoriali, come l'accordarti improvvisamente troppa libertà, libertà di andartene altrove. Un giorno è giunta da noi la C.G.I.L di Conegliano, la stessa che ha fatto rimpiangere all'Electrolux di Susegana di avere tanti esuberi. Ho subito riconosciuto le facce cazzute della FIOM, gente che è abituata a tamponare il sangue che fuoriesce dai tagli. Mi sono detta Finiremo tutti massacrati come in Electrolux, ho visto gli operai morire per le strade per mancanza di lavoro. Ma no, niente paura. Venivano per annunciare la cassa integrazione, che è un pò come un padre adottivo che prima o poi entra nelle vite di tutti noi, specie quelle lavorative. Ma se i cinesi continuano a copiare sai che presto sarà il tuo turno di restare orfana. E' Natale. Trovi una lettera di licenziamento sotto l'albero. Ci dispiace doverle comunicare che l'azienda si vede costretta a ridurre il personale. Il sangue continua a sgorgare. Non hai più un padre. Che strano, dicono che il Natale vada sempre passato in famiglia. |
Post n°25 pubblicato il 25 Gennaio 2012 da tagliatrentotto
Ciao a tutti, |
Post n°24 pubblicato il 25 Gennaio 2012 da tagliatrentotto
Alcune persone nascono con un destino denso di pendolarismo. Probabilmente, nella loro vita, correranno su dei binari precisi o si troveranno nel bel mezzo di strane coincidenze. |
Inviato da: pgmma
il 22/12/2013 alle 14:25
Inviato da: enasinnerworld
il 26/08/2012 alle 22:25