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Post N° 57

Post n°57 pubblicato il 08 Novembre 2005 da unaqualunque_s

"Perchè non mi hai detto che eri incinta?"
"Non lo sapevo."
Si stringeva l'asciugamano alla vita, la sua voce tremava.
"Non voglio restare qui, sono tutta sporca."
"Ti farò dare qualcosa dalle inservienti."
Arrivò un'infermiera.
"Venga, che l'accompagniamo al suo letto."
"Vai" sussurrai, "vai."
E la vidi che si allontanava in quel corridoio dalle luci ammezzate, senza voltarsi.
A casa, mi sfilai le scarpe senza sciogliere i lacci e le scaraventai lontano da me, poi mi stesi sul letto così com'ero.
Sprofondai in una fossa di bitume, e mi svegliai all'alba, perplesso, già stanco.
M'infilai sotto la doccia.
Italia aspettava un figlio, l'acqua scivolava, s'incanalava, correva lungo la pelle e Italia aspettava un figlio.
Cosa avremmo fatto adesso?
Ero nudo nel bagno della casa che dividevo con mia moglie, m'insaponavo il ciuffo di pelo dell'inguine.
Dovevo riflettere, e invece correvo, i pensieri si accavallavano, come fondali dietro le quinte di un teatro.
Arrivai in ospedale molto in anticipo ero in ansia, avevo il presentimento di non trovarla.
Infatti non c'era, aveva firmato e se n'era andata.
"Quando?" chiesi all'infermiera.
"Adesso."
Risalii in macchina e percorsi il ciale che costeggiava gli edifici dell'ospedale.
La trovai alla fermata dell'autobus.
Stentai a riconoscerla perchè indossava un camice da infermiera.
Era appoggiata al muro, da una mano le pencolava un sacchetto di plastica da cui traspariva la spugna del mio asciugamano.
Mi fermai accanto a lei, non mi vide.
Le strade cominciavano appena ad animarsi.
Mi tornò in mente quella volta che l'avevo attesa in macchina, e l'avevo spiata.
C'era caldo, lei era truccata, ancheggiava, mi piacevano i suoi tacchi alti, mi piaceva che fosse volgare.
Quanto tempo era passato?
Ora indossava quel camice troppo largo, si era smagrita ancora di più durante quell'estate.
Solo ora mi accorgevo di quanto fosse cambiata.
Si era scolorata, per colpa mia, forse, si era scolorata così.
Un pagliaccio senza belletto.
Eppure, per me era ancora più bella, ancora più desiderabile.
E ora non c'era più nulla, solo lei addosso a quel muro, al centro del mirino.
Fui assalito da un timore insensato.
E se qualcuno la centrasse?
Se una pallottola le finisse nel petto, e se lei scivolasse a terra scordando solo una scia di sangue sul muro dove la sto guardando...
Volevo gridargli di togliersi da lì perchè qualcuno ora stava premendo il grilletto, un cecchino appostato alle mie spalle, magari sul tetto dell'ospedale.
Aveva una faccia così, di una che sta per essere colpita ma non ha la forza di scansarsi.
Invece si muove, esce dal muro e non è successo niente.
C'è il dorso dell'autobus, è lui che la copre.
non faccio in tempo a fermarla, è già salita.
Mi metto appresso all'autobus, al suo tubo nero che rutta un fumo appestante.
Si ferma di nuovo, lascio la macchina in mezzo alla strada e salgo anch'io.
Cerco Italia per farla scendere con me, ma la trovo troppo tardi, quando la porta si è già richiusa.
E' sprofondata dentro un sedile, la testa appoggiata al vetro.
Mi porteranno via la macchina, pazienza.
"Ciao, Gramigna."
Ha un sussulto, si volta, riprende fiato.
"Ciao."
"Dove stai andando?"
"Alla stazione."
"Parti?"
"No, volevo vedere gli orari dei treni."
Restiamo così, in silenzio, gli occhi sulle strade che stanno cominciando a riempirsi del primo traffico.
C'era una madre che attraversa con due bambini, Italia la guarda.
Le metto una mano sulla pancia.
Una mano grande, ferma.
Il suo ventre geme.
"Come ti senti?"
"Bene", e mi toglie la mano, si vergogna di quel rumorio interno.
"Di quanto sei?"
"Di poco, due mesi, nemmeno."
"Quando è successo?"
"Non lo so."
I suoi occhi sono immensi e calmi.
"Non ti devi preoccupare di niente, non mi devi dire niente, ho già deciso da sola."
Scuoto la testa, ma non dico nulla.
E forse lei si aspetta che io dica qualcosa.
Guarda di nuovo fuori, le strade che traballano oltre il vento.
"Ti chiedo solo un favore, non ne parliamo più. E' una cosa brutta."
Scendiamo dall'autobus, passeggiamo uno accanto all'altra, senza toccarci.
Italia è vestita da infermiera e siamo così deboli insieme.
Dentro la vetrina di un negozio c'è una ragazza che toglie il cartello dei saldi per allestire la mostra autunnale, si muove a piedi scalzi su un tappeto di foglie e castagne di plastica.
Italia si ferma a guardare la vetrinista che adesso sta infilando un vestito a un manichino spettinato.
"Va di moda il verde quest'anno..."
Stiamo camminando verso il parcheggio dei taxi.
Ci sono tre vetture che aspettano.
Attraversiamo di corsa perchè il semaforo sta per scattare.
Apro la portiera e faccio salire Italia, poi mi chino su di lei e le metto in mano i soldi per pagare la corsa.
"Grazie" sussurra.
"Non ti preoccupare" dico a voce bassa perchè non voglio che l'autista mi senta, "adesso organizzo tutto io, stai tranquilla."
Lei stira le labbra in un modo che vorrebbe sembrare un sorriso, invece è solo un ghigno esausto.
Ha voglia di restare sola, e forse non si fida più di me.
Allungo una mano nell'abitacolo, gliela passo sul volto, voglio redimerle quello sguardo ferito, sbarrato.
Chiudo lo sportello e il taxi se ne va.
Rimango solo, faccio qualche passo: verso dove?
A riacchiappare i pensieri, la macchina ferma in mezzo alla strada.
Sono in ritardo per la camera operatoria, pazienza.
Ha sperato fino all'ultimo che le dicessi qualcosa di diverso.
C'era una speranza appoggiata in fondo ai suoi occhi, come una scopa dimenticata in un canto, ho finto di non accorgermene.
Non ho avuto nemmeno il coraggio di essere spietato, di indurla io a quella decisione.
Ho lasciato che facesse la sua scelta, che prendesse lei la colpa, e in cambio le ho offerto un taxi.






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Commenti al Post:
lorteyuw
lorteyuw il 24/03/09 alle 15:18 via WEB
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