Racconto a più mani

La creatura


  La pioggia batte forte, spietata contro alle lamiere. Un cuore liquido e metallico suona le sue note tribali in questa notte che sembra la notte di tutte le notti per l’oscurità dei suoi colori bruni. Dai vicoli della periferia  si alzavano come spettri evanescenti i vapori delle fogne caldi e dolciastri al tempo stesso, i profumi della terra  che vomita rabbiosa il veleno assorbito nel corso delle ere, e che non riesce, e vuole più contenere. L’arroganza della specie prediletta è arrivata fin troppo in basso a lambire l’essenza stessa di tutte le cose.   Nel più profondo intestino di quei  cunicoli sotterranei la Creatura è tenuta nascosta, prigioniera  della sua stessa furia. Costretta entro solide mura da catene che la tirano nelle quattro diverse coordinate spaziali. Ad ogni trazione corrisponde una eguale e forte reazione nell’altra direzione.          Zack DelaRocha  è uno dei sei guardiani, e da decenni assiste a questa inarrestabile furia cieca che non conosce arresto e ogni giorno e notte si chiede perché quella creatura non s’arrenda e si dia pace.   Non ha scelto lui questa vita, né lui né gli altri cinque che ogni 8 ore si danno il cambio-turno nella camera blindata. A sedici anni quelli della Sicurezza lo avevano prelevato alla sua famiglia, dicendo ai suoi genitori che loro figlio era stato scelto tra milioni per servire la Sovrana Mano e che avrebbe portato prestigio e onore alla sua gente. Li avevano coperti di crediti e tutti si erano presto dimenticati di lui.   Zack il gigante da allora viveva  seppellito nei sotterranei con i suoi cinque colleghi. Troppi anni erano passati e la sua adolescenza era cresciuta come muschio strisciante tra le mura umide di quella cella che lo tenevano aguzzino e prigioniero al tempo stesso. In fondo lui e i suoi colleghi avevano almeno due  cose in comune con quella creatura, la prigionia e il fatto di non aver avuto mai la possibilità di scegliere. Erano, più di chiunque altro, nati incatenati al proprio destino.  La pioggia non mollava la sua presa come le mandibole di una alligatore strette attorno alla gola della preda, mordeva a strattoni tutto quanto incontrasse sotto la sua inesorabile caduta e nell’aria si respirava qualcosa di nuovo. Quando Kjnasky venne a dargli il cambio i due si guardarono negli occhi senza scambiarsi una parola , come se entrambi sapessero che qualcosa di nuovo e terrificante come l’esplosione improvvisa di una bomba avrebbe raggiunto e dilaniato presto le loro esistenze.