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la pattumiera dei giorni usati

 

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Afghanistan, the land of Islam (parte I)

Post n°55 pubblicato il 26 Gennaio 2014 da Talix76
Foto di Talix76

Afghanistan, the land of Islam (parte I)

 

E’ successo di nuovo, questa mattina, all’alba.

In uno dei suoi disordinati riaffiorare, la memoria  si e’ presentata con ricordi di viaggi passati che credevo ormai dimenticati.
E’ una strana sensazione: ti accorgi d’un tratto che pezzetti della tua vita scomparsi nel tempo sono ancora lì e riemergono con una precisione inaudita: ricordi il tono di un colore, ricordi l’oscurita’ di un’ombra, ricordi la singolarita’ del petalo di un fiore, la radice affiorante di un albero, l’ammaccatura di un’auto che passa e scompare per sempre all’orizzonte, il bordo di una strada, i contorni di una nuvola; persino l’insetto che ti ha ronzato intorno!
Una sbronza di immagini da stordirti il cuore mescolando appagamento e amarezza;
gia’, perche’ razionalmente ti accorgi che la leggerezza che l’aver dimenticato ha  elargito e’ stata solo illusione e l’esistenza ti si appesantisce nuovamente sotto il peso dei suoi ricordi.
La verginita’ di passato e’ svanita: a che e’ servito resettare  il tempo andato?
D’altro canto emotivamente non si puo’ non provare euforia nel riscoprirsi, come sfogliando un vecchio album di fotografie dell’infanzia.

 

Afghanistan 12 Agosto 2013




Non ci posso credere!

Fuori da ogni logica umana io e Paolo ci  incamminiamo solitari tra sentieri che costeggiano il fiume cercando cosa  neppure noi  lo sappiamo.
Sentiamo in lontananza della musica tribale; ci dirigiamo la.
Non abbiamo deciso dove andare, non ci siamo detti cosa cercare o cosa fare;

forse perche’ non volevamo esternare la nostra paura.
Semplicemente obbediamo a degli istinti primitivi che ci impongono di andare, da qualche parte, avanti.
Seduto davanti al pc, tutto questo adesso e’ cosi’ dannatamente folle.
Intimoriti come due bimbi, abbiamo aspettato invano la nostra guida che non e’ arrivata  mai.
Accanto a noi una caserma da cui entravano ed uscivano pick-up armati.

Loro li dentro, blindati, al sicuro e noi fuori, all’aperto.
Per terra, sotto i nostri piedi, bossoli di mitragliatore.
Alla fine ci siamo detti: “andiamo!”, e ci siamo incamminati.
Non sappiamo dove arriveremo, ma per arrivare qui e’ necessaria una premessa…..



Bartag Valley, Tajikistan , un giorno imprecisato prima del 12 Agosto 2013

 

“Questo orribile mondo non e’ privo di grazie,
non e’ senza mattini

Per cui valga la pena svegliarsi.”

La realtà esige - Wislawa Szymborska

 

E’ qui che sono felice, su una vecchia branda sfondata, nel mio sacco a pelo, sotto un albero di melo.
E sono cosi’ felice da sentirmi pacificato con il mondo intero senza una ragione.
L’alba si affaccia appena dietro le montagne rocciose - che una leggera brezza accarezza sui fianchi - ingiallendole;
uccelli si affaccendano nelle mattutine abluzioni, cantando.
una mela tonfa: apro gli occhi;
subito un’altra cade su di me.
Sorrido.
Non sento piu’ lo spazio e il tempo ma una sola dimensione interiore resa ancor piu’ remota dalla vaghezza del primo risveglio.
Le fronde del melo frusciano in alto una dolce melodia.
Rimango intontito in questo stato per un po’, solo, nel mondo, senza niente e senza nessuno con quel misto di eccitazione e angoscia che da  il sapersi soli e sperduti; nessuna coscienza, solo sentire: che estasi!

E’ proprio cosi’ che l’avevo immaginato.

Uno di quegli attimi terreni che sono pregati di durare.

 

Come ci sono arrivato?
Lentamente riprendo il contatto con la realta’.

Ah, la moto, eccola li appoggiata al melo.
E Paolo? E’ tornato indietro, a Khorog.

Chissa’ se ha trovato difficolta’.
In un villaggio senza generalita’, ospite di uno sconosciuto il cui nome ho annotato su un libro (che non posso ricercare avendone dimenticato il titolo  – un giorno, magari, riaffiorera’ anch’esso dall’oceano delle dimenticanze e non andra’ piu’ via, come quel doganiere albanese che aspettava, invano, una foto da me immemore del suo indirizzo e che ora, memoria beffarda, e’ riaffiorato: Elia, Tropojia): ma cosa mi ha portato fin qui?
Un ricordo ne richiama ricorsivamente un altro e voglio, ora che posso, preservarli per il futuro.


Pamir Highway (tre o quattro giorni prima)

Voglio cominciare a ricordare dal momento in cui abbandono la M41, la Pamir Highway, in direzione sud verso il Karghush Pass;
la strada cessa di essere asfaltata e diventa una pista sterrata a tratti rocciosa e a volte sabbiosa.
Arsura, aridita’, e’ a questo che il paesaggio inneggia.
Superato l’ultimo posto di controllo (una sentinella e un cane ) il Grande Pamir si palesa in tutta la sua maestosita’.



La sensazione di attesa e di aspettativa e’ alta.
So che tra poco, dopo un tornante o una salita, mi apparira’ l’Afghanistan, percorreremo insieme silenziosamente un lungo tratto di strada  per giorni interi.
Mi aspetto,  minuto dopo minuto, la sua apparizione che pero’  non avviene.
La moto sobbalza e scalcia sui sassi, sculetta e si affossa nella sabbia.
Un rigagnolo si affaccia ogni tanto sul sentiero per sparire alla curva successiva;
Non gli presto molta attenzione ma lui, silenzioso, si riaffaccia ingrandendosi sempre di piu’, comincia a creare solchi, scava gole via via piu’ profonde, acquista impeto.
Quando mi accorgo, tardi, che e’ gia’ un fiume adulto che mi scorta capisco che la genesi e’ qualcosa che puo’ essere solamente idealizzata: e’ il Pamir, materializzatosi dal nulla!



Sulle sue sponde , quando si allarga in piane stagnanti, pascolano silenziosi i cammelli mentre tuona e frastorna quando si insinua tra gole strette e profonde.
L’attenzione per la strada faticosa, le continue soste per godere di tanta bellezza paesaggistica e le conseguenti pause di riflessione introspettiva mi distolgono dalla realta’.
Finche’, dopo un tornante, si apre  in lontananza, a pochi chilometri, un muro di roccia scura e neve bianca di 7000 e piu’ metri a imporre uno stop forzato di contemplazione ed un brusco ritorno alla realta’: “e’ l’Hindu Kush!” – esclama Paolo!
”E se quello e’ l’Hidu Kush allora li, cosi’ vicino, c’e’ il Pakistan!” – penso.
”Ma allora queste montagne, questi sentieri accanto a me sono l’Afghanistan!”
Ci sono arrivato!
E’ emozionante.
Lo e’ per ragioni incomprensibili.

 

Flash-back (perche’ l’Afghanistan?)

Samarcanda ,Uzbekistan - novembre 2011
Dall’alto di uno dei minareti del Registan di Samarcanda, sul quale e’ possibile salire elargendo una piccola mancia al custode di turno dopo aver, a seguito del suo invito, gentilmente e ripetutamente rifiutato per abbassare il numero di banconote da scucire, guardando esattamente verso sud, si puo’ intravedere una lunga catena di  montagne innevate.
La mia fantasia paesaggistica, capace di scorgere  il Caucaso dal porto di Bari e addirittura gli Urali dalle colline dell’alta Murgia, non se lo fece ripetere due volte e in quel momento con scatto felino la risposta anticipo’ la domanda:” E’ Afghanistan!”.

“Ma dove e’?” .

Il lavorio della curiosita’, soprattutto se hai qualche giorno libero a disposizione, non ci penso’ due volte a insinuarsi nella  zucca tra i neuroni in stato gassoso liberamente erranti con moto browniano.
C’era di sicuro qualche vaga motivazione pregressa che rendeva quella terra affascinante ai miei occhi ma  il motivo scatenante, cio’ che diede fuoco alle polveri, il casus belli, insomma, avvenne in quel preciso istante: una semplice visione in lontananza dall’alto di un minareto!


Se poi percorsi o no centinaia di chilometri verso quelle montagne, varcandole e proseguendo verso l’ Afghanistan, saltando dal tempo in corsa e seguitando quindi verso la cittadina di confine di Termiz, poco importa se fu azione reale o solo immaginata.
E se, per la troppa paura che il suo nome suscitava, non riuscii neppure a fotografare il ponte dell’amicizia che le truppe sovietiche varcarono nel 1979 e neppure ad avvicinarmi al posto di frontiera, non merito certo di essere citato come pusillanime.
Il mio organismo doveva ancora ricodificare il sentimento della paura.

 

Tayebad, Iran - Dicembre 2012

Se mi sforzassi di trovare una giustificazione per la quale la cittadina di Tayebad debba essere meritevole di visita turistica da parte di un europeo, proprio non riuscirei ad indicarne una.
Non poteva certo definirsi una escursione imperniata sul senso della vista (vedere bellezze paesaggistiche), quindi voltai verso il senso dell’olfatto;
Mi ripetevo continuamente, per dare un senso a quella cazzata : “voglio sentire che aria tira alla frontiera afghana, voglio solo annusarne l’odore”.
Salii quindi su un autobus a Mashhad e scesi a Tayebad.
Affittai un taxi per recarmi a Islam Quala (la frontiera afghana).
L’autista si mostro’ alquanto preoccupato ascoltando la parola “Afghan border” ma l’occidentale denaro in un paesino che non ne vedeva uno chissa’ da quanto gli soffoco’ i timori sul nascere.
In meno di sette chilometri avrei finalmente soddisfatto quella mia stupida curiosita’  sentendomi come Robert Byron nella sua via per l’Oxiana;


Effettivamente

“.. e’ cominciata quella sensazione da fine del mondo, che avevo notato in precedenza nella pianura in cui la Persia e l’Afghanistan si toccano…”
solo che non c’era piu’ traccia di papaveri da oppio, lupini gialli e iris bianche ma solo un’anonima arida strada perfettamente rettilinea che convergeva all’orizzonte verso il nulla.

L’autista,che pur viveva a pochi chilometri da li’, stranamente si fermo’ piu’ volte a chiedere informazioni agli autisti dei tir schierati in una interminabile lunga linea retta finche’ , a pochi chilometri, una postazione militare di controllo mi obbligo’ a vuotare il sacco.
Non potevo fare altro, confessai: ero solo curioso di dare un’occhiata (ehm..un’annusata) alla frontiera afghana.
Mi ritirarono il passaporto e mi lasciarono proseguire (che strani questi iraniani, piu’ gentili del previsto!)
Le onde radio precedettero di poco il mio arrivo alla frontiera dove un altro doganiere mi aspettava per istruirmi sulle limitazioni della mia visita: non potevo oltrepassare una certa recinzione blu.

Passeggiai molto teso avanti e dietro per quell’angolo remoto del mondo sentendomi addosso gli occhi dei frontalieri.
Ma dopo  soli pochi minuti mi sentii amalgamato con tutta quella gente e cominciai a girare piu’ sereno e indisturbato.
Oltrepassai la recinzione blu, piu’ per un capriccio che per curiosita’;
c’erano parcheggiati molti autobus  in avanzato stato di degrado, sequestrati dalle autorita’ iraniane;


in un angolo decine di bus dell’ UNHCR sembravano risalire piu’ alle ondate  di profughi del conflitto sovietico che all’ultimo con gli americani.
Non potevo crederci: avevo vinto il mio timore, ero a pochi metri dall’Afghanistan!
Le ultime sinapsi sbiadite  rimandano a me sull’uscio della casa di un professore (mi aveva incontrato in una piccola moschea a Tayebad e mi aveva invitato al funerale di un amico e quindi a casa sua) mentre scherzo con sua moglie su un mio possibile ritorno;
”Magari un giorno torno in moto diretto in Afghanistan”, le dissi e – mi si e’ impressa benissimo nella memoria – la sua espressione gaudente subito si fece cupa e preoccupata e con gesticolare nervoso mi disse : “no no no no no Afghan!

Iran, ok.

Afghanistan, no no no no”.
Quel suo reverenziale timore per l’Afghanistan anziche’ spegnerla, accese in me una miccia…


Porto di Bar, Crna Gora (o forse era Dubrovnik, Croazia ?) – Aprile 2013


L’ultimo elettroshock neuronale che aumento’ la mia curiosita’ per la terra e le genti afghane credo di averlo ricevuto parlando con due motociclisti russi, di San Pietroburgo, che si recavano a Bari.
Uno dei due aveva lineamenti centro-asiatici e quando, parlando di possibili e futuri  viaggi, gli accennai al mio desiderio di andare in Afghanistan, il suo tono si fece serio e confesso’ di essere un veterano della guerra russo-afghana, sconsigliandomi fermamente di recarmici.
”believe me, don’t go, it’s not safe”.
E lo disse con tale enfasi da lasciarmi per un po’ senza parole.
Ma lasciate sedimentare nella mia zuppiera cranica, le sue parole operarono all’incontrario, stuzzicando ancor di piu’ la mia curiosita’:
”chissa perche’ aveva tanto paura”- mi dissi…


 
 
 
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