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Tania Nienkötter Rocha - rochatania@libero.it

 

 

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La paura della libertà in Rete: dalla Cina alla Tunisia

Post n°549 pubblicato il 26 Febbraio 2007 da Tatianna

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Qualche anno fa digitare google.com da un computer cinese ti portava su openfind.com, un motore di ricerca alternativo, probabilmente più gradito al Governo di Pechino. Adesso c'è un Google cinese, google.cn, perfettamente legale in Cina e perfettamente piazzato per sfruttare quell'enorme mercato. Che oggi non è protetto dalla Grande Muraglia, ma dal Grande Firewall. Letteralmente il «grande muro di fuoco», ma più tecnicamente una infrastruttura tecnologica - definita, appunto, firewall - che protegge elettronicamente le porte dell'Internet cinese. Questa infrastruttura ha anche un nome ufficiale: progetto «Scudo dorato». Si dice abbia bisogno di quasi 30 mila persone per funzionare e sia costata qualcosa come 800 milioni di dollari. Per realizzarla i cinesi hanno anche potuto usufruire di tecnologie occidentali, in particolare quelle della società Nortel, la stessa che fornisce all'Fbi e alle altre agenzie statunitensi i sistemi che intercettano e tengono sotto controllo il traffico Internet americano. Un grande occhio e un grande orecchio sempre aperti sulla rete dei Mandarini per filtrare tutto ciò che potrebbe essere sconveniente. Almeno secondo la censura di Pechino. Una censura molto liberal, nulla a che fare con quella saudita o iraniana. In Cina passano senza difficoltà i porno e le star di Hollywood, ma sono bloccati senza speranza i temi politici, soprattutto quando invocano la democrazia. O la libertà per il Tibet.

Esisterebbe una lista di parole proibite, ma sembra sia considerata un segreto di stato e come tale rigidamente salvaguardata. Un articolo di Wikipedia, l'enciclopedia collaborativi del Web, riporta un lungo elenco di parole e concetti che, se intercettati, rendono inaccessibile il sito che li contiene. Si va da «democrazia» a «genocidio», da «Dalai Lama» a «4 giugno». «4 giugno» è il termine che si usa spesso in Cina per riferirsi alla repressione di piazza Tienanmen del 1989. La Grande muraglia elettronica provvede a chiudere tutte le comunicazioni con i siti incriminati. Ai quali non si può arrivare neppure attraverso i motori di ricerca, che provvedono essi stessi a censurarsi da soli le proprie le ricerche. L'adesione alla politica governativa fu la condizione che consentì a Google, il più importante dei motori di ricerca, di mettere piede nel mercato cinese. Una parola proibita cercata su Google da un computer che sta in Cina avrà pochissime probabilità di dare dei risultati. Lo stesso vale naturalmente per tutti gli altri motori più o meno importanti, compresi i vari Yahoo e Microsoft Network. Yahoo venne messa sotto accusa anche per essere stata coinvolta nell'arresto di due ciber-dissidenti: Li Zhi, condannato a otto anni di prigione nel 2003 per «incitamento alla sovversione», e Shi Tao, per aver «divulgato segreti di stato». Il gigante dei motori di ricerca avrebbe fornito alla polizia cinese gli elementi che avevano poi portato all'arresto dei due giornalisti.

Il che conferma che la tecnologia, da sola, non è sufficiente e che una buona, vecchia repressione fisica e visibile è sempre utile. Anzi, in molti casi è la preferita, come dimostra il recentissimo caso di Abdul Karim Suleiman Amer, conosciuto in rete solo come Karim Amer: un blogger ventiduenne, condannato pochi giorni fa da un tribunale egiziano a quattro anni di reclusione per aver scritto sul suo blog (karam903.blogspot.com) a favore dei diritti delle le donne musulmane. Per la precisione: tre anni per i diritti delle donne, uno per aver offeso il presidente egiziano. È la prima condanna pesante contro un blogger egiziano. Finora, secondo il rapporto annuale sulla libertà in Internet di Reporter senza frontiere, tre persone erano state arrestate per due mesi nel giugno 2006 mentre la polizia aveva fatto forti pressioni su una blogger copta, Hala Helmi Botros, fino a costringerla a chiudere il suo sito. Sono tredici i Paesi nemici di Internet che figurano nella lista nera di Reporter senza frontiere: oltre alla Cina e all'Egitto, ci sono Stati prevedibili come l'Iran e Cuba, la Birmania e l'Uzbekistan, la Corea del Nord e la Bielorussia, il Turkmenistan e il Vietnam, oltre alla Siria. Ma anche Paesi che di solito non vengono additati dai nostri media come autoritari: l'Arabia Saudita e la Tunisia. Le amnesie dell'Occidente fanno sì che Tunisi e Ryiad stiano normalmente fuori dalle classifiche dei cattivi. Eppure. E pensare che a Tunisi, nel novembre 2005, si tenne il grande forum mondiale della governance di Internet patrocinato dall'Onu. Una cittadella inaccessibile ai comuni mortali ospitava i lavori della conferenza: connessioni Internet a grande velocità con tutto il mondo. Ma bastava che uno, alla sera, tentasse di collegarsi dal suo albergo a qualche sito dubbio, come quelli dei partiti di opposizione, che non arrivava da nessuna parte. La censura funzionava a meraviglia.

Il caso dell'Arabia Saudita è tuttavia quello più emblematico, perché l'idea del «grande firewall» che poi i cinesi hanno meticolosamente trasposto nello «scudo dorato» è venuta per prima ai sauditi. Il governo della casa di Saud ha costruito infatti la più formidabile infrastruttura elettronica dell'era di Internet che registra, filtra e immagazzina tutto ciò che si muove sulla rete da e per i cibernauti sauditi. Che cosa infastidisca le autorità di Riyad è abbastanza facile da sapere: il sesso, naturalmente, e i cosiddetti siti «blasfemi», i siti israeliani, anche. Ma naturalmente, sotto la scure del censore cadono anche quei siti che possono creare problemi politici al governo. I blog hanno passato dei brutti momenti l'anno scorso, quando le autorità hanno cercato di impedire il funzionamento di uno dei siti che davano questo tipo di servizio. Sembra abbiano desistito, dopo averne chiusi alcuni. In compenso, se arrivate su di un sito non consentito un avviso sul vostro computer ve lo notifica. Tutt'altra classe da quella dei cubani che, non avendo i soldi per farsi la loro muraglia elettronica, hanno risolto il problema alla radice rendendo praticamente impossibile l'installazione di Internet a casa e obbligando chi vuole usarla a passare dagli Internet cafè. Tutti controllati, potete giurarci, dalla polizia. Toni De Marchi

 
 
 
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