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Guzidé (dal diario del 27.01.2008, con qualche lieve modifica)

Post n°27 pubblicato il 25 Agosto 2009 da IlCercatoreDiParole
 

Non credo di aver mai scritto niente di Guzidé prima d'ora.
Eppure, sono trascorsi quasi due anni.
Di lei mi resta una splendida fotografia, scattata in un suggestivo locale maltese in riva al mare, Il Bedouin Bar.
E' un pub caratteristico, con buona musica, cocktail esotici e fumo di narghilè.
D'estate si popola di giovani provenienti da ogni angolo del pianeta.
Quell'anno, c'ero anch'io.
Ricordo la pelle abbronzata, il fisico asciutto e atletico, il caldo africano dei pomeriggi trascorsi sulla spiaggia.
In sottofondo, le voci di ragazzi che non hanno ancora vissuto.
Credo, a mente fredda, che il mio modo di essere e di pensare, l'inclinazione al dialogo, le priorità della mia vita, non siano mai stati influenzati così in profondità in un così breve lasso di tempo.
Nel momento in cui scattai quella foto, ero felice. Immensamente.
Ne scattai altre, in verità, alcune delle quali mi ritraevano.
I miei occhi e il mio sorriso tradivano qualcosa d'ineffabile: la sensazione di essere felici, di voler vivere un presente traboccante di meraviglie.
Invidio il me stesso che fui.
Entrò dalla porta principale senza bussare: carnagione olivastra, capelli neri e lucenti, denti bianchissimi. Una corporatura esile impreziosita da un bel vestito rosso scarlatto.
Una turca moderna, di Istanbul: Guzidé.
Conservo pure un foglio di carta stropicciato, dove, in un pomeriggio alla fine d'agosto, distesi su un'incantevole spiaggia rocciosa, scrisse per me qualche parola in turco. Voleva insegnarmi la sua lingua, voleva apprendere la mia. Ascoltava la mia modesta lezione d'italiano con grande interesse, come una studentessa modello; avevo la sensazione che volesse trarne il massimo dell'utilità. Progettava di prendere lezioni private il semestre successivo, e di vivere in Italia, almeno per un'estate. Al contrario del suo entusiasmo, a me non importava un fico secco d'imparare il turco, intento com'ero nel rimirare la sua bellezza, nell'odorare il profumo d'incenso sprigionato dalla sua foltissima chioma. Un mio maldestro tentativo di baciarla ruppe l'incantesimo, oltrepassammo senza accorgercene il vertice della parabola, iniziammo a percorrere la discesa.
Ma non voglio rievocare la tristezza; ciò che mi sta a cuore, adesso, è dipingere il suo ritratto, con la massima accuratezza possibile. Da molto tempo volevo farlo, ma ho sempre desistito, temendo di non trovare la giusta ispirazione. Oggi intendo farlo, senza un motivo particolare.
O forse un motivo c'è: Guzidé non è più presente nei miei pensieri, almeno non come prima, e proprio per evitare che il suo ricordo sbiadisca fino a dissolversi, voglio renderle omaggio scrivendone.
Non ricordo di preciso quando la vidi per la prima volta.
Probabilmente fu in riva al mare, dato che entrambi - dopo la lezione d'inglese - trascorrevamo i pomeriggi tuffandoci nelle acque terse della baia di St. Julian's. Appena la conobbi capii subito che quella ragazza aveva qualcosa di speciale, intuii che avrebbe potuto nuocermi. Così è stato, in verità, ma tutto sommato ne è valsa la pena.
Tornato a casa, associai la sua figura al personaggio romanzesco di Holly Golightly - strampalata protagonista del capolavoro di Truman Capote - come lei eccentrica e adorata da tutti.
Ormai la mia passione per la ragazza turca è volata come un foglio di carta al vento, ed è questo che più mi nuoce. Soffocare i sentimenti nel timore che aprire il cuore agli altri possa recarci qualche pena è una colpa grave, non un semplice errore.
Siamo circondati dalla sofferenza, ma non è questo un buon motivo per temerla, per starsene vigliaccamente in disparte.
Ricordo bene, invece, il momento in cui le rivolsi la parola.
Fui io a rompere il ghiaccio, cosa abbastanza inconsueta dato il mio carattere schivo.
Eravamo in barca, al largo del golfo di St. Julian's, molto prossimi all'isola di Gozo. Lei se ne stava in disparte, da sola. Tutti si divertivano al ritmo della musica e dell'alcool, almeno così mi sembrava. Si era seduta in quel punto, accovacciata, perché voleva attirare la mia attenzione, sperava che le rivolgessi la parola.
- Are you alone? le dissi.
Cominciò così.
Mi rispose che aveva la tosse, che era stata ammalata, indovinò subito che ero italiano.
Mi raccontò qualche dettaglio squisito sulla sua vita, le sue avventure nell'isola di Malta, il suo paese e la sua favolosa città: Istanbul.
Mi piacque subito, tanto. La nostra storia fu assolutamente platonica; non aggiunto un "è stato meglio così!" per non macchiarmi d'ipocrisia. Si protrasse per poche settimane e fu scandita da lunghissime conversazioni peripatetiche, durante le quali ascoltavo rapito il suo originalissimo punto di vista sulla vita e sugli eventi che la toccavano da vicino: i progetti futuri, le relazioni amorose, le mille ambizioni. Ciò che più mi ha colpito di lei è stata la (cordiale) fermezza nelle convinzioni, il rispetto di quelle altrui, la fede nel mondo delle idee e dell'amore. Ci lasciammo con la promessa di rivederci. Ma da allora, non ci siamo più incontrati, né scritti o sentiti.
Ho fantasticato molto su di lei, su Istanbul e i suoi minareti, sull'immenso fascino della cultura araba.
Ogni tanto, quando sono triste, mi soffermo ancora a contemplare la sua foto, e il suo sorriso spensierato mi restituisce intatta la gioia della felicità perduta.

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