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Perfidie di Stefano Torossi

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Alle Terme di Caracalla

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

 7 gennaio 2013

   ALLE TERME DI CARACALLA


     30 dicembre, giornata scintillante. Sull'apertura del mitreo e dei sotterranei delle terme, finalmente liberati dall'assedio pluridecennale (dal 1937!) dell'Opera, i giornali ci avevano messo il pepe addosso. Quindi, eccoci qui in una coda insolitamente lunga, per fortuna sotto un caldo solicello, ad affrontare una visita che ci ha portato ad alcune interessanti riflessioni.

     La prima: Diffidare delle istituzioni. Da queste parti (Roma), praticamente tutto quello che ci arriva dalle istituzioni (basta guardare gli orologi pubblici per le strade: ce ne fossero due che fanno la stessa ora), informazioni, orari, indirizzi, certezze; certo non lo è quasi mai, e, quando va bene, è comunque impreciso, vago, confuso. Insomma, nessun rispetto per il cittadino.

     Infatti, la coda era così lunga perché, mentre tutti noi visitatori avevamo letto gli articoli ed eravamo lì per vedere il mitreo e i sotterranei, alla biglietteria evidentemente non ne sapevano niente, o se ne infischiavano: su tre sportelli ce n'era solo uno aperto. Arrivati all'impiegato, insistendo, abbiamo scoperto che comunque il mitreo non era visitabile se non su prenotazione. Nessun cartello per informarci, naturalmente.

     Ok, andiamo ai sotterranei, i quali, essendo appunto sottoterra, necessitano di illuminazione artificiale, cioè di faretti, che ci sono, e dovrebbero dar luce ai capitelli (peraltro bellissimi) e agli altri frammenti recuperati e ripuliti. Invece, no. Montati caserecciamente qua e là, e puntati principalmente negli occhi dei visitatori, o sul soffitto, non servono davvero a un gran che. Purtroppo (o per fortuna), a tamponare l'andazzo disorganizzativo, arriva sempre la suprema bellezza e grandiosità dei monumenti, e quindi, alla fine, tutto va bene lo stesso.

     La seconda riflessione: La mano dell'uomo migliora la natura. Basta osservare i frammenti in mostra: nella parte intatta, i bassorilievi, i cornicioni, i capitelli sono belli; la lavorazione, opaca o lucida che sia, tira fuori la grana del marmo, le venature, le ombre, il colore, e lo rende splendido e in alcuni casi quasi appetitoso. Giri intorno ai pezzi, li guardi sul retro e ti accorgi che, dove la pietra si è frantumata ed è ritornata a com'era prima di assaggiare lo scalpello, non è neanche più marmo, ma solo un sasso polveroso e inutile.

     La terza: Grande è bello. Il grande salone delle terme: 58 metri per 24! Gli archi immensi, i pilastri colossali. Qui i soffitti non ci sono più, ma il cielo blu che li sostituisce fa un magnifico contrasto con i muri altissimi di mattoni. Se invece di essere muraglioni fossero muretti non farebbero di sicuro l'effetto che fanno (Sono serviti da modello perfino per la Penn Station di New York). Peccato che, a parte i frammenti in mostra nei sotterranei, sul posto non è rimasta una sola scheggia di marmo. Tutto rubato, sradicato, scalpellato, dal medio evo in poi, per cuocerlo nei forni improvvisati lì vicino e farci la calce con cui tirare su catapecchie, stalle, o magari anche bei palazzi, ma a che prezzo!

     Qualcosa di gigante però si è salvato. Le due vasche di Piazza Farnese. Immensi blocchi di granito scavati a mano, ritrovati fra le rovine delle terme. L'Ercole del museo di Napoli, tre metri. O l'unica gigantesca colonna superstite, rialzata a Piazza S. Trinita a Firenze. Ma per convincersi che grande è bello, è sufficiente andare al foro Traiano, qui a Roma, e abbassare lo sguardo sull'immane monolito che giace a terra spezzato, accanto al suo capitello: una massa di marmo bianco di decine di tonnellate, identico agli altri mille che si vedono in giro per la città, ma talmente più grande da essere mille volte più impressionante e anche, sì, più bello.

     A proposito dell'Opera, quand'era ancora a Caracalla. Più di vent'anni fa, abbiamo avuto il privilegio di essere invitati al concerto dei Tre Tenori: Pavarotti, Carreras e Domingo, un evento mondanissimo, che poi si sarebbe rivelato come il primo passo di un business mondiale.

     La sera d'estate, la luna, la brezza tiepida, e la compagnia di Rossella non ci fecero accorgere di quanto in seguito l'iniziativa sarebbe diventata pacchiana, anzi ci piacque moltissimo. Ancora ci ricordiamo, in mezzo a tutta quella pompa, un particolare minimo e divertente. Dirigeva Zubin Mehta. A un certo punto, durante uno dei rari pianissimo della serata, su uno dei pini sparsi fra le sedie in platea, una cicala si mise a cantare, facendosi inconsapevole protagonista per tutti i diecimila spettatori. Un paio di volte Mehta dal podio guardò accigliato (o divertito, la distanza non ci permetteva di distinguerne i lineamenti) verso l'albero, ma quella, tranquilla, andò avanti finché tutti ci si abituarono. Neanche ci accorgemmo se e quando smise di frinire.


     P.S. Ve la ricordate la canzoncina che faceva:

"Alle Terme di Caracalla

i Romani giocavano a palla,

dopo il bagno, verso le tre,

tira tira a me, che la tiro a te.

E poi gridavan: Olè!" (Clara Jaione, 1950)

     E c'è ancora qualcuno che rimpiange le canzoni dei bei tempi andati!



                                        

 

 
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