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Perfidie di Stefano Torossi

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Messaggi di Gennaio 2013

La Sora Cesira e la felicità

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

   28 gennaio 2013

    LA SORA CESIRA E LA FELICITA'


Uno show cominciato moscio e finito gagliardo. Questo potrebbe essere, in mezza riga, il commento sullo spettacolo "Felicità" della Sora Cesira che abbiamo visto la sera del 19.

Finora tutto ciò che sapevamo del personaggio era che non voleva farsi riconoscere, quindi cappelloni, occhialoni, baffi finti. Avevamo visto in giro su facebook brevi clip, in cui, con notevole abilità musicale e tecnica la Sora e i suoi collaboratori, scippati gli audio originali da video di cantanti famosi, li ricantavano con testi satirici, divertenti, qualche volta volgari, spesso in un esilarante inglese de noantri, comunque efficaci. Quando mai, pensavamo, questa Sora Cesira riuscirà a tenere in piedi un intero spettacolo, nel Festival delle Scienze, su un argomento rischioso come la felicità e su un palcoscenico impegnativo come quello della Sala Sinopoli?

Invece siamo rimasti sorpresi e nello stesso tempo preoccupati. Spiega.

Dopo un inizio banalotto, anzi, quasi new age (un vecchio e troppo lungo bianco e nero di Raffaella Carrà, e un discorsetto dal vivo sulla felicità), sono partiti, uno dietro l'altro e sempre azzeccati, gli sberleffi a Vanna Marchi, le baggianate messe in bocca a quel mezzoprete di Battiato, la meritata irriverenza nel filmato sul papa, un "Parole, Parole", con Mina e Alberto Lupo (che ricordiamo come una delle più melense marchette del passato). Nella versione della Sora, il partner di Mina è un signore con maschera da lupo vero, ma non quello cattivo e neanche Alberto, bensì Ezechiele.

Alla fine la Cesira ha osato abbandonare la satira e si è cantata egregiamente un bel pezzo da sola, senza ridere o voler far ridere. Ottima band e cantante-spalla niente male. Da non dimenticare una platea di fan frenetiche con striscioni e urla da stadio. La forza del web.

Questa è la sorpresa. La preoccupazione: riuscirà ad andare avanti su una formula, quella dello sberleffo, per niente facile da tenere in piedi? Ne dubitiamo, ma vedremo.


Primo P.S. A proposito, non di Sora Cesira, ma della felicità. Il neuroscienziato David Linden, in uno dei suoi interventi nel corso del Festival, definisce la felicità come la risposta chimica che gratifica il nostro cervello ogni volta che compiamo azioni piacevoli. E fin qui ci eravamo arrivati. Quello che ci pare audace, ma giusto, è che lui identifichi il massimo della felicità, il suo condensato, nel vizio. Che non è altro, parole sue, che la ricerca reiterata del piacere. Perché tutto ciò che dà piacere, può sviluppare dipendenza. Ineccepibile.


Secondo P.S. A proposito di piacere, titolo di un articolo in prima pagina su Repubblica del 26 gennaio: "Da Melville a Proust, leggete solo per divertirvi". Ci è apparso come in un flash il nostro comodino, praticamente occupato per cinquant'anni da due testi: Proust, appunto, e l'Ulisse di Joyce. E sono cinquant'anni che, attanagliati dal senso di colpa tipico di ogni lettore che si rispetti, ci ripromettiamo di affrontarli prima che sia troppo tardi (non perché loro scadano dalla classifica dei classici obbligatori, è perché siamo in scadenza noi).

Nel caso di Proust, la nostra tattica è stata una dignitosa (?) ritirata, dopo aver letto per intero il primo volume. Che è ritornato, un po' strapazzato, insieme agli altri, vergini, sullo scaffale. Amen, e sensi di colpa accantonati.

Per Joyce abbiamo preferito una furbissima strategia diversiva, tuttora in corso: stiamo leggendo con suprema caparbietà, e altrettanta attenzione un capitolo alla volta, con l'assistenza indispensabile del volumetto (parliamo dell'edizione Oscar Mondadori) di accompagnamento e di guida alla lettura. La furbizia consiste nel trovare un risarcimento alla somma pesantezza dell'Ulisse, andandoci a recuperare di nascosto ogni tanto, anzi spesso, e leggendoli con grande sollievo, i volumetti della nostra collezione completa del Commissario Maigret.

Un po' come quando, anni fa, ci davano l'olio di fegato di merluzzo, una delle peggiori porcherie dell'infanzia, e poi, giù un bel bicchiere di succo di limone molto zuccherato. Prima la cosa che ti fa bene, poi quella che ti piace.

Per la medicina funzionava. Per la cultura? Mah.



                                            



 

 
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Tre tigri contro tre tigri

 

 IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

21 gennaio 2013

TRE TIGRI CONTRO TRE TIGRI


Domatore: Aldo Cazzullo. Lunedì 14 gennaio, si festeggiano i primi dieci anni di vita dell'Auditorium. Sala Petrassi strapiena e sul palco (forse dovremmo dire nell'arena), a destra i tre sindaci: Rutelli, Veltroni e Alemanno. A sinistra i tre viceré del Parco della Musica: Regina, Fuortes e Cagli. Il domatore (in mezzo) dà garbatamente la parola prima ai burocrati, Regina e Fuortes, i quali diligentemente, cautamente nei confronti dei tre sindaci (ci è parso soprattutto di quello in carica) e, come richiede il ruolo, anche un po' pedantemente, elencano tutto quello di straordinario che si è fatto per creare l'Auditorium; e quello di ordinario che si continua a fare per mantenerne l'eccellenza.

Ed è davvero moltissimo: in questi dieci anni milioni di spettatori romani, che le hanno molto pesanti, hanno alzato le chiappe per arrivare fin lì. Migliaia di spettacoli sono andati in scena, decine di migliaia di artisti si sono esibiti davanti a sale esaurite. E, stupore per Roma e l'Italia, senza andare in passivo con i conti.

Dopo le due relazioni, diciamo così tecniche, con nostro diletto Bruno Cagli, Sovrintendente di Santa Cecilia, scatena tutto il suo notevole brio di intrattenitore, ripercorre la storia plurisecolare dell'Accademia, e poi ci mitraglia con una raffica di aneddoti. Compreso il delitto contro l'acustica commesso con la distruzione della vecchia sede, l'Augusteo, imposta dalle voglie fasciste di ricuperare al nuovo impero il Mausoleo che ci stava sotto. Il quale però, una volta privato della capsula è rimasto in bella vista come, parole di Cagli, un dente cariato.

Pur essendo d'accordo sulla gratuità del crimine, non lo siamo sull'estetica del risultato. Permetteteci di peccare di nuovo di autocitazione e di riproporre qualche riga di un nostro vecchio uovo avvelenato del 10 novembre 2011.

"L'area del Mausoleo di Augusto è una parte molto emozionante di Roma. Seguiteci. Arriviamo da Via della Croce, cuore della città barocca: edifici eleganti, di quei bei colori caldi che riflettono così bene il sole. Attraversiamo Via del Corso, poi Largo dei Lombardi. Ecco una grande apertura, che ci invita in un piazzale quadrato, tre lati di travertino, puro stile fascista anni '40, il quarto, vetro e cemento moderno, perfettamente intonato al resto. E' l'edificio (non si capisce perché così acidamente contestato) che custodisce l'Ara Pacis. Non dimentichiamo che siamo proprio nel cuore della città, e proprio da questo cuore, senza preavviso, si sbuca in una cartolina della campagna romana. Perché al centro del quadrato littorio in cui siamo penetrati venendo dalle strade barocche troviamo il tamburo del Mausoleo, un rudere romano di mattoni coronato da un anello di terra piantata a cipressi. Potremmo essere dalle parti dell'Appia Antica. Una sensazione davvero sorprendente, e tutto in cinquanta metri. Solo a Roma succede".

Torniamo a oggi.


Tocca a Rutelli, bel signore, voce profonda, parlata tranquilla e sicura. Ineccepibile e compiaciuto piacione (occhioni maliardi e mascella volitiva), racconta gli ostacoli che amici e nemici hanno seminato sul percorso del progetto, anche senza un tornaconto personale: solo per il gusto di dire di no a tutto. Seguito da Veltroni, meno bello ma più intenso, e forse proprio per questo facilitato nel contatto con la gente. Anche lui con la storia travagliata, ma alla fine vittoriosa, dell'istituzione.

Tutti e due ottimi oratori, arrampicati sugli specchi per non infierire troppo sul terzo. Il quale, invece di prendere la parola, se fosse stato furbo l'avrebbe lasciata cadere immediatamente. Sillabe affastellate, articolazione confusa, oratoria scarsa e il tono un po' stizzoso del terzo moschettiere, il meno alto, il meno bello, il meno simpatico dei tre.

Naturalmente che ti fa il moderatore Cazzullo? Quello che, sotto i baffi, ogni moderatore che si rispetti dovrebbe fare: aizza. Proponendo ai tre sindaci di spiattellare, ognuno sugli altri due, il bonus e il malus. Il gatto e la volpe non si graffiano fra di loro, e garbatamente svicolano per non dire niente di troppo perfido sul terzo, che a quel punto sembra proprio un pollo sulla graticola.

E infatti, quando viene il suo turno, dopo aver accusato Veltroni di aver fatto troppe pentole e troppo pochi coperchi, dà dello spocchioso a Rutelli che non la prende per niente bene. Nasce una gazzarrina sull'Ara Pacis (la cosa peggiore che ha fatto Alemanno, è stato proporre le modifiche all'Ara Pacis; la cosa migliore, è non essere riuscito a realizzarle), con Veltroni che azzarda il ruolo del paciere, Cazzullo che sghignazza per conto suo, e Rutelli che, dopo aver ribadito che non di spocchia si trattava ma di educata ironia, allontana il microfono e spara uno di quei bisbigli che arrivano alle ultime file, indirizzato ad Alemanno: "Hai detto 'na cazzata". Il poveretto, sotto tiro, replica: "Eccola, la tua solita arietta!" E qui dobbiamo a malincuore dargli ragione, perché, magari proprio spocchia no, ma il bel Rutelli, ogni tanto quell'arietta di sufficienza ce l'ha davvero.

Naturalmente tutto finisce a volemose bene. Strette di mano, sorrisi e abbracci; e noi ce ne torniamo a casa con esattamente tre chili e settecento grammi di interessanti, sontuose pubblicazioni sulla benemerita istituzione.



                                         








 

 
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Parroci a Las Vegas

 

  IL CAVALIER SERPENTE

 Perfidie di Stefano Torossi

   14 gennaio 2013

  PARROCI A LAS VEGAS

 

     Ne abbiamo già parlato, ma riautocitiamoci: "C'è a Roma una chiesa illuminata come si deve, e il merito è dei preti tedeschi che officiano Santa Maria dell'Anima. E' una chiesa bella e normale, senza capolavori famosi, ma quando entri c'è da rimanere a bocca aperta e con lo spirito in elevazione. Il soffitto è un cielo, gli ottoni brillano, i quadri splendono di colori, e non si vede una lampada. Ma la luce, quella giusta, è dappertutto. Non più di una cinquantina di alogene nascoste bene (i cornicioni non mancano) e ben orientate, più un pizzico di buon senso e buon gusto. Non serve altro. Oltretutto, un'illuminazione intelligente è il sistema più efficace e meno costoso che si possa immaginare per valorizzare opere e strutture.

     Potrebbe apparire discutibile, ma vorremmo suggerire ai parroci un viaggetto a Las Vegas, una città il cui fascino (e c'è, questo fascino, credeteci) è costruito solo sulla illuminazione artificiale. Una città che di giorno non è niente, e di notte diventa pura magia, magari di cattivo gusto, ma magia pura".

     Siamo ripassati a Santa Maria dell'Anima di mattina. Le luci erano comunque accese e sommavano il loro effetto al sole entrato dai finestroni. Ci siamo accorti che avevano anche fatto un lavoro di pulizia. Alla tedesca. Non un grano di polvere neanche intorno alle cornicette o sotto le balaustre (abbiamo controllato col dito come padrone di casa pignole), i pilastri incerati fino al soffitto. Splendenti le tombe con i loro marmi bianchi o colorati. Tombe cattoliche, quindi con una buona presenza di scheletri ghignanti, ma rese un po' più ottimistiche dalla goduriosa disposizione teutonica, per cui: teschi sì, ma affiancati da busti di rubicondi cambiavalute sassoni, e paffuti goderecci angiolotti.

     Esilarante, nelle lapidi, lo sforzo per latinizzare, senza ovviamente mai riuscirci del tutto, i nomi dei sepolti, pieni di kappa, wudoppie e ypsilon. Comunque il risultato che luce, cera e olio di gomito producono, è la bella sensazione di entrare nell'elegante salone di un ricco e ben tenuto palazzo. Invece che in nere e fredde spelonche, quali appaiono (polverose e malissimo illuminate come sono) molte chiese romane, di sicuro piene di tesori artistici, che però, nelle tenebre è come se non ci fossero.

     Siamo convinti che non ci sia niente di male a pregare comodi; anzi, il contatto mistico dovrebbe riuscire ancora meglio.


     Poi abbiamo deviato verso San Salvatore in Lauro. La gestione dell'esercizio è di un parroco, fan scatenato di Padre Pio. Vale la pena farci un salto, perché, appena a destra dell'ingresso vi si piazza di fronte uno dei prodotti più indefinibili dell'arte (?) al servizio della devozione. Si tratta di un gruppo in vetroresina: Padre Pio che aiuta Gesù a portare la croce.

     Vi ricordate il personaggio di Jesus Christ Superstar? Il tono acuto della voce, il look un po' da checca isterica? Bene, eccolo qui questo Gesù, con le ciocche vaporose, la tunica svolazzante, il corpo avvitato in una posa da fotomodella mentre si gira all'indietro a guardare smorfioso Padre Pio, il quale dovrebbe dargli una mano a sorreggere la croce, e invece, con la sua naturale espressione poco rassicurante, sembra un pedofilo all'inseguimento, pronto a conciarlo per le feste. Esilarante, se non fosse orripilante.

     Adesso c'è anche, in esposizione provvisoria, accanto alle altre reliquie del santo (mezzi guanti, bende delle stimmate, sangue sgocciolato dalle medesime, e altre simili schifezze), il cosiddetto Bambinello di Padre Pio, una brutta statuetta che, a quanto raccontano, il santo di Pietrelcina abbracciava e baciava per prima cosa ogni mattina appena sveglio.

     Le reliquie. Prendiamo il Santo Prepuzio, lo scarto della circoncisione di Gesù (siamo tutti familiari con il fatto, no?). Nel corso dei secoli bui ce n'erano addirittura diciotto in giro per varie chiese del ristretto mondo di allora, Calcata, Charroux, Anversa, ecc. Inutile chiedersi quale fosse quello autentico. Eppure la gente si metteva in cammino a piedi per andare a venerarlo. Santa Caterina da Siena, durante le sue estasi, sosteneva di portarlo al dito come anello di fidanzamento mistico con Cristo. Truffe, è ovvio. Avevano però un risvolto, se non nobile, certamente utile. Attiravano il turismo religioso, che era anche l'unico, dell'epoca. Quindi, pranzi consumati, pagliericci occupati, indotto.

     Ogni tanto, a San Salvatore in Lauro, anche i normali fedeli sono ammessi all'intima cerimonia del bacio al Bambinello. Barando sulla nostra fede ci siamo prenotati.


     Come un fulmine è arrivata la morte di Mariangela, compagna di molti cappuccini mattutini al bar sotto casa. Sabato eravamo alla chiesa degli artisti a portarle il nostro saluto. E non importa quanta gente (tantissima) e chi (tutti) c'era. Ognuno di noi era lì da solo con lei.

     Ma proprio non vogliamo far passare tutte le stupide e superabili (con un minimo di organizzazione) cialtronate alla romanesca dell'evento. Prevedibile la folla, quindi (Uno) almeno preparare qualche transenna, no? Niente: solo confusione. Due: la facciata della chiesa invasa da impalcature. Le copre un grande cartellone (espediente utile per ammortizzare le spese del restauro) dell'Associazione per la Sicurezza Stradale che ammonisce: "Nel circo della strada puoi piangere e far piangere. Pensaci: 3860 morti all'anno per incidenti". Benemerito, certo, ma alquanto iettatorio, soprattutto dove si celebrano tanti funerali. Tre: a fianco del portone, in alto sui tubi innocenti, un colpevole (per la sua bruttezza) presepe allestito dentro il cucchiaio di una scavatrice. Quattro: a due passi dalla scalinata, un gazebo di plastica in cui una graziosa e incurante ragazzetta continua a vendere magliette con le vedute di Roma. Cinque: infischiandosene della gente e della circostanza, al culmine della cerimonia, un enorme camion della nettezza urbana che avrebbe potuto benissimo fare il giro della piazza, fende a colpi di claxon la folla. E così via. Evidentemente proprio non ci riesce di essere rispettosi, a noi romani, neanche in un momento, come un funerale, che più serio non c'è.



                                          

 

 
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Alle Terme di Caracalla

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

 7 gennaio 2013

   ALLE TERME DI CARACALLA


     30 dicembre, giornata scintillante. Sull'apertura del mitreo e dei sotterranei delle terme, finalmente liberati dall'assedio pluridecennale (dal 1937!) dell'Opera, i giornali ci avevano messo il pepe addosso. Quindi, eccoci qui in una coda insolitamente lunga, per fortuna sotto un caldo solicello, ad affrontare una visita che ci ha portato ad alcune interessanti riflessioni.

     La prima: Diffidare delle istituzioni. Da queste parti (Roma), praticamente tutto quello che ci arriva dalle istituzioni (basta guardare gli orologi pubblici per le strade: ce ne fossero due che fanno la stessa ora), informazioni, orari, indirizzi, certezze; certo non lo è quasi mai, e, quando va bene, è comunque impreciso, vago, confuso. Insomma, nessun rispetto per il cittadino.

     Infatti, la coda era così lunga perché, mentre tutti noi visitatori avevamo letto gli articoli ed eravamo lì per vedere il mitreo e i sotterranei, alla biglietteria evidentemente non ne sapevano niente, o se ne infischiavano: su tre sportelli ce n'era solo uno aperto. Arrivati all'impiegato, insistendo, abbiamo scoperto che comunque il mitreo non era visitabile se non su prenotazione. Nessun cartello per informarci, naturalmente.

     Ok, andiamo ai sotterranei, i quali, essendo appunto sottoterra, necessitano di illuminazione artificiale, cioè di faretti, che ci sono, e dovrebbero dar luce ai capitelli (peraltro bellissimi) e agli altri frammenti recuperati e ripuliti. Invece, no. Montati caserecciamente qua e là, e puntati principalmente negli occhi dei visitatori, o sul soffitto, non servono davvero a un gran che. Purtroppo (o per fortuna), a tamponare l'andazzo disorganizzativo, arriva sempre la suprema bellezza e grandiosità dei monumenti, e quindi, alla fine, tutto va bene lo stesso.

     La seconda riflessione: La mano dell'uomo migliora la natura. Basta osservare i frammenti in mostra: nella parte intatta, i bassorilievi, i cornicioni, i capitelli sono belli; la lavorazione, opaca o lucida che sia, tira fuori la grana del marmo, le venature, le ombre, il colore, e lo rende splendido e in alcuni casi quasi appetitoso. Giri intorno ai pezzi, li guardi sul retro e ti accorgi che, dove la pietra si è frantumata ed è ritornata a com'era prima di assaggiare lo scalpello, non è neanche più marmo, ma solo un sasso polveroso e inutile.

     La terza: Grande è bello. Il grande salone delle terme: 58 metri per 24! Gli archi immensi, i pilastri colossali. Qui i soffitti non ci sono più, ma il cielo blu che li sostituisce fa un magnifico contrasto con i muri altissimi di mattoni. Se invece di essere muraglioni fossero muretti non farebbero di sicuro l'effetto che fanno (Sono serviti da modello perfino per la Penn Station di New York). Peccato che, a parte i frammenti in mostra nei sotterranei, sul posto non è rimasta una sola scheggia di marmo. Tutto rubato, sradicato, scalpellato, dal medio evo in poi, per cuocerlo nei forni improvvisati lì vicino e farci la calce con cui tirare su catapecchie, stalle, o magari anche bei palazzi, ma a che prezzo!

     Qualcosa di gigante però si è salvato. Le due vasche di Piazza Farnese. Immensi blocchi di granito scavati a mano, ritrovati fra le rovine delle terme. L'Ercole del museo di Napoli, tre metri. O l'unica gigantesca colonna superstite, rialzata a Piazza S. Trinita a Firenze. Ma per convincersi che grande è bello, è sufficiente andare al foro Traiano, qui a Roma, e abbassare lo sguardo sull'immane monolito che giace a terra spezzato, accanto al suo capitello: una massa di marmo bianco di decine di tonnellate, identico agli altri mille che si vedono in giro per la città, ma talmente più grande da essere mille volte più impressionante e anche, sì, più bello.

     A proposito dell'Opera, quand'era ancora a Caracalla. Più di vent'anni fa, abbiamo avuto il privilegio di essere invitati al concerto dei Tre Tenori: Pavarotti, Carreras e Domingo, un evento mondanissimo, che poi si sarebbe rivelato come il primo passo di un business mondiale.

     La sera d'estate, la luna, la brezza tiepida, e la compagnia di Rossella non ci fecero accorgere di quanto in seguito l'iniziativa sarebbe diventata pacchiana, anzi ci piacque moltissimo. Ancora ci ricordiamo, in mezzo a tutta quella pompa, un particolare minimo e divertente. Dirigeva Zubin Mehta. A un certo punto, durante uno dei rari pianissimo della serata, su uno dei pini sparsi fra le sedie in platea, una cicala si mise a cantare, facendosi inconsapevole protagonista per tutti i diecimila spettatori. Un paio di volte Mehta dal podio guardò accigliato (o divertito, la distanza non ci permetteva di distinguerne i lineamenti) verso l'albero, ma quella, tranquilla, andò avanti finché tutti ci si abituarono. Neanche ci accorgemmo se e quando smise di frinire.


     P.S. Ve la ricordate la canzoncina che faceva:

"Alle Terme di Caracalla

i Romani giocavano a palla,

dopo il bagno, verso le tre,

tira tira a me, che la tiro a te.

E poi gridavan: Olè!" (Clara Jaione, 1950)

     E c'è ancora qualcuno che rimpiange le canzoni dei bei tempi andati!



                                        

 

 
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