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Quando Prodi rimase schiacciato dai debiti lasciati dall’Iri di Prodi

Post n°62 pubblicato il 25 Marzo 2006 da savi_alfo

Al governo nel ’96, provò a risanare i conti pubblici gravati dal passivo del gruppo statale. Cercò di vendere la Stet ma fu defenestrato dai suoi alleati

In un quinquennio, Romano Prodi brucia le tappe. Fa una carriera politica a passo di lepre e, in un amen, da pivello diventa un vecchio arnese. Quando, nel maggio ’94, lasciò definitivamente l’Iri, era un parastatale di lungo corso con una minuscola esperienza da ministro. Quando nell’autunno ’99, lascia l’Italia per l’Ue, è un avvizzito veterano della politica. Nell’arco, è stato deputato, leader dell’Ulivo, capo del governo e ha fatto a ritroso la strada: cacciato da Palazzo Chigi, emarginato dai suoi, la bile in fiamme. Altare e polvere, come i Titani della Storia. L’epopea merita il racconto.
Nel ’94, dopo 18 anni come riserva della Repubblica, Romano non ha una fisionomia politica definita. Noi già sappiamo che è un dossettiano e un dc di sinistra. Ma per i più, era un tecnico. Tanto vero che An, parte integrante del primo governo Berlusconi, ma a corto di persone per il sottogoverno, pensa di utilizzare Prodi in quota dell’ex Msi. L'idea non si concreta in una proposta, ma è indicativo che sia nata. Un po’ com’è successo recentemente con Mario Monti che la solita An avrebbe visto volentieri come ministro dell’Economia, quando due anni fa defenestrò Giulio Tremonti. Indubbio che il partito di Gianfranco Fini abbia problemi di strabismo, ma anche vero che Prodi allora, come Monti oggi, civettino con un’ingannevole equidistanza che in realtà non hanno.
A schierare decisamente quel mollaccione di Romano, intervengono due duri, ossessionati dal Cav. Oscar Luigi Scalfaro e a ruota Beniamino Andreatta.
Dopo la defenestrazione del suo governo nel gennaio ’95, Berlusconi, indica Lamberto Dini per la successione a Palazzo Chigi. Scalfaro se ne impipa, convoca Prodi al Quirinale e gli dice chiaro che preferirebbe fosse lui a presiedere il nuovo governo. Romano tergiversa, si arrovella, cincischia e perde il treno. Non era ancora abbastanza gasato.
La Dc intanto rantola. Anzi, muore e al suo posto nasce il Ppi. Per rocambolesche circostanze, segretario è Rocco Buttiglione, odiato dalla sinistra del partito. Temono che stia per fare un accordo con Berlusconi. Una volta di più, Andreatta cava Prodi dal cilindro e ne fa circolare il nome come colui che può rianimare il Ppi e portarlo a sinistra. Romano nel frattempo è alle prese con un diversivo. Si è improvvisato divulgatore e impartisce lezioni di economia in tv sulla Terza Rete. Ha una sua rubrica, «Il tempo delle scelte», in cui parla di privatizzazioni, welfare state, ecc., coadiuvato dall'immancabile consorte Flavia che svolge l'essenziale funzione di «spettatore critico» («Insieme», pag. 88). De Mita, che lo segue assiduamente sul teleschermo, esclama: «Romano è meglio come giornalista che come presidente dell’Iri», diventa un suo fan e si accoda a Beniamino nel ritenerlo l’uomo giusto. Comincia il passaparola e in breve sono in molti a pensarlo. Dai sinistri Rosy Bindi e Sergio Mattarella, ai moderati Gerardo Bianco e Franco Marini.
I ferri corti con Buttiglione non bastano più e si passa alle rasoiate. «Traditore Buttiglione, cappellano dei neofascisti», urla dieci volte al giorno Beniamino e nelle pause enuncia la strategia: «Ora ci vuole la guerra di liberazione dal filosofo traditore». Il mite Rocco che febbricita alla sola idea di un’alleanza con gli ex comunisti del Pds, accelera i contatti con Cav e si isola come il Battista nel deserto. Inizia una melina tra chi impiccherebbe Buttiglione al pero e i pochi che lo sostengono.
Ve la faccio breve. Un bel giorno, Andreatta, che era capogruppo Ppi alla Camera, e Nicola Mancino, suo omologo al Senato, annunciano che Prodi è il candidato leader del centrosinistra per le elezioni politiche. Buttiglione è di fronte al fatto compiuto. Filosoficamente, cede alla brutalità, fugge dal Ppi, fonda il Cdu, si schiera col centrodestra e esce dal racconto.
Ora, sotto i riflettori, c’è solo Romano.
In pochi mesi, da personaggio periferico, Prodi si trasforma in protagonista. Il ruolo che gli è assegnato è quello di maschera presentabile di un guazzabuglio di ex comunisti, neo comunisti, Verdi vocianti, giustizialisti che la decenza consiglia di nascondere. Inalberando la sua innata faccia parrocchiale, Romano entra nel ruolo senza fare una piega. Lo incarna perfettamente ancora oggi, come se glielo avesse assegnato il Signore dall’inizio dei tempi. Lui non ha fatto nulla per montare sul piedistallo. Gli altri hanno fatto per lui. Ma adesso non lo schioda più nessuno.
Avuta l’investitura, decolla. Compra ad Assisi un pullman usato, il che fa, in un sol colpo, francescano e democratico. Lo allestisce di fax e frigo, e comincia la campagna elettorale col giro delle «cento città». I pullman sono forse due, gemelli, come sospetta il suo eccezionale biografo, Antonio Selvatici, che fornisce le targhe di entrambi: Pg 709626 e AC 862 Fg. La cosa resta segreta e Romano passa per ubiquo come Padre Pio. La mattina fa l’ingresso col pullman a Bari, a mezzogiorno gira col pullman bis a Milano, nel quale è salito dopo essere sceso dall'aereo.
Sul torpedone, ben attrezzato, sfoglia i giornali. Nota con disappunto che tre colleghi docenti universitari scrivono articoli tra il tiepido e lo scettico. Gli dicono: parla chiaro, meno slogan, più cose. Gli chiedono: come manterrai le promesse? I soldi dove li trovi? Decidi tu o sei in balìa dei comunisti versipelle ex, post, neo? I tre sono Nicola Matteucci del Giornale, Angelo Panebianco e Ernesto Galli della Loggia del Corriere della Sera. Prodi e il trio si conoscono da decenni e non solo per ragioni accademiche. Li lega anche il Mulino, i Lincei di Bologna, di cui sono associati, autori e pezzi grossi. Per Romano quella libera critica è uno sgarro e... Ma lasciamo parlare Matteucci: «Seppi che Prodi aveva convocato a casa sua il presidente dell'associazione il Mulino per protestare duramente contro gli articoli... Insomma: i soci dell’associazione dovevano (questa la pretesa del furibondo Prodi, ndr) fornire la base culturale del suo partito. Un amico socio del Mulino (se la memoria non mi tradisce, Michele Salvati) mi disse di stare attento perché Romano era un essere vendicativo. L’avvertimento mi lasciò indifferente perché nel campo scientifico il potere di Prodi era nullo e il Mulino avrebbe continuato a pubblicare i miei libri». Da allora, Matteucci ha tolto il saluto a Prodi.
L’Ulivo vince le elezioni del 21 aprile 1996 e Romano entra a Palazzo Chigi. Non è una gran vittoria, anzi una truffa legale. Il Polo ha preso 300.000 voti più dell’Ulivo. Ma, per un perverso meccanismo elettorale, l’Ulivo ha più eletti.
Dei due anni e mezzo di governo Prodi, c'è poco da dire. Diciamo quel poco.
È imminente l’avvento dell’euro. L’Italia, per adottare la nuova moneta, deve risanare i suoi terribili conti pubblici. A pesare sulle casse del Tesoro, è l’indebitatissimo Iri, reduce da otto anni di cura Prodi. Il destino beffardo affida alle mani del guastatore la riparazione del guasto. La più bella azienda dell’Iri è la Stet, oggi Telecom. Venderla ai privati sembra l’unico modo per ridurre i debiti dell’Istituto. Prodi convoca il presidente della Stet, Ernesto Pascale, e l’amministratore delegato, Biagio Agnes, che gli espongono un piano alternativo. Lui neanche li ascolta e caccia entrambi dall’azienda. A trovarsi la strada spianata è l’Ifil di Umberto Agnelli che, con uno zero virgola del capitale Stet, nomina amministratore un suo uomo: Gian Marco Rossignolo. Ignoro come sia stato possibile, ma sono le delizie del capitalismo all’italiana. Prodi appoggia in toto la manovra Ifil (Fiat) e si sdebita così con Umberto che, 20 anni prima, aveva propiziato la sua nomina a ministro dell’Industria. Poi, come ricorderete, tutto va a rotoli. Max D’Alema, che subentra a Romano nella guida del governo, dà la Stet-Telecom all’amico ragioniere Roberto Colaninno che rivende, con una fantastica plusvalenza, al dottor Marco Tronchetti Provera, l’attuale proprietario. Conclusione: lo Stato non ha ridotto di un centesimo il debito pubblico, ha dato via gratis il suo gioiello e l’Italia è oggi il solo Paese al mondo con un monopolio telefonico in mano a un privato signore. Ovunque, o sono società a azionariato diffuso o aziende a controllo statale. Ma questo fa parte del libro, ancora da scrivere, sugli amorosi sensi tra movimento operaio e confindustriali.
Vi faccio grazia dell’altro mistero Telecom scaturito sotto il governo di Romano: l’acquisto di Telekom Serbia. Al minimo, è stato un pessimo affare: comprata a cento, l’azienda è stata rivenduta, anni dopo, a cinquanta. Il sospetto, non provato, è che ci siano state tangenti politiche. La magistratura lo ha escluso. La commissione parlamentare d’inchiesta ha invece puntato il dito su tre, che secondo testimonianze e carte, sarebbero stati i maneggioni. In arte, Mortadella, Cicogna e Rospo. Chi si nasconda dietro, è stato supposto, ma non accertato.
Prima di inciampare sullo sgambetto di D’Alema, il governo Prodi ha fatto altre due cose. Per la Fiat, la legge che incentiva la rottamazione delle auto. Per l’Italia, l’ingresso in zona euro: gli va riconosciuto, lasciandogliene la responsabilità.
Defenestrato dagli alleati, Romano lascia Palazzo Chigi a metà legislatura. Sfoga la rabbia in bici e smette di pedalare solo quando è certo che diventerà presidente dell’Ue. Deve lasciare il seggio alla Camera e candida al subentro l’austero ex alunno della Scuola militare della Nunziatella, Arturo Parisi, come lui uomo del Mulino e collega nell’università felsinea. Ne cura di persona la campagna elettorale a Bologna contro il candidato Cdl, Sante Tura, popolare ematologo, salvatore di molte vite. Ma lo zelo tradisce Romano che telefona al cardinale Biffi, arcivescovo di Bologna, e gli ingiunge: «Lei deve schierarsi con Parisi. O, comunque, non con Tura». Ma Biffi, che di Prodi se ne pappa dieci, replica duro: «Non si permetta. Non prendo ordini da nessuno», e lo esclude dalle sue preghiere.
Privato del pio appoggio, Romano si avvia al disastro di Bruxelles.

di Giancarlo Perna (IL GIORNALE n. 71 del 25-03-06)

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