Creato da Don.Juan_De.Marco il 18/09/2006
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Terza Mattonella

Post n°4 pubblicato il 18 Settembre 2006 da Don.Juan_De.Marco
 
Foto di Don.Juan_De.Marco

 

Ore 2,33 della notte.
Bionda sul letto che si agita, mugolii, fremiti, vampate, formicolii in ogni dove. Finestra spalancata, brezza calda che sfiora il corpo seminudo di colei che aspetta, la pelle accarezzata dolcemente, un odore sensuale di lavanda si insinua, penetra, invade.

Ore 2,33 della notte.
Uomo calvo e il suo monocolo, rigido, austero, espressione grave. Goccia di sudore che ritmicamente attraversa la fronte, scivola sulle tempie, lambisce le guance, si riversa nella labbra secche e finisce la sua corsa sulla terza mattonella, la solita terza mattonella.

Telefono che sembra prender vita, voce maschile, timbro imponente, tono deciso, accento raffinato. Lo sguardo di Lei pian piano si anima.

“Max sei tu? Lo so caro, sì caro, perché caro?! Lo sai che sono una bimba viziata. Coccole, bacini, fiori.”

La terza mattonella inumidita riflette lo sguardo di colui che adempie quotidianamente al suo dovere. Immobile, occhi vigili, intento a non perdere alcun movimento, ogni sinuosità di quel corpo, i piccoli ma significativi ammiccamenti, quelle labbra che invitano, le morbide rotondità che sfregano le lenzuola, le dita tra i capelli.

Il tempo scorreva e la notte ripeteva inevitabilmente l’incantesimo. Lei sognava un amore, un amore perduto molto tempo prima e che ogni sera, alla stessa ora, bussava nel suo cuore, un cuore infranto ma non rassegnato, la voce di Lui che riecheggiava dentro, una volontà che veniva soggiogata, il telefono e quell’impulso irrefrenabile, frasi che prendono corpo, Max era lì, dentro di lei, solo per lei

Mosso da un comune destino, l’uomo col monocolo era un elemento esterno ma non estraneo, partecipe a suo modo di quel rituale, ne era la testimonianza discreta.

Ignorava tutto di Lei, sapeva solo ciò che il suo potente strumento mostrava, una donna, l’unica della sua vita, quel corpo di cui conosceva ogni minimo dettaglio, la gioia dei minuti trascorsi ad osservarla, la danza che il suo corpo compieva ogni sera, quel profumo immaginato sulla pelle.

E nella terza mattonella c’era riflessa l’intimità di un momento, che ripeteva se stesso e che li legava per sempre.

 
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Il biondo Tevere

Post n°3 pubblicato il 18 Settembre 2006 da Don.Juan_De.Marco
 

Mercoledì sera ore 20,30 fischio d’inizio di una partita di calcio Italia vs. Kittipare, finale 7-8 posto della Coppa Rica/del Nonno, tutti nelle case a tifare, tutti nelle case a sperare, tutti nelle case, tutti.

In strada regnava una calma irreale e Leo era lì, lontano da sguardi indiscreti. Quel silenzio lo accarezzava, ne era avvolto, protetto, rassicurato. Era il suo momento.

 Quei colori grigi, le atmosfere insipide, slanci mai compiuti, parole dette ma all'orecchio di chi non era in grado di ascoltare. Una vita mai vissuta. Era sempre lì, dietro le quinte, attore non protagonista, comparsa dell'ultimo momento.

“Un gesto – urlava dentro di sé – solo un gesto, ti prego, unico, risolutivo”

Colto da intuizione improvvisa, fu inesorabilmente attratto dal Biondo Tevere e le sue roscie pantegane. Fermò l’auto e quasi in apnea aprì la portiera, saltò fuori, si guardò intorno furtivo, schizzò verso il portabagagli, estrasse la corda, prese l’àncora di suo zio, richiuse e senza voltarsi partì alla volta del suo destino.

Trovatosi dinanzi ad uno dei tanti ponti pensò di rendere il suo gesto più eclatante, un volo carpiato stile “Mister Ok” il primo dell’anno gli sembrò un’immagine consona da lasciare ai posteri.

Con l’adrenalina a mille, gli occhi iniettati di sangue, una sudorazione esagerata, un battito cardiaco da musica tecno, in pochi secondi si liberò di tutto ciò che rivestiva il suo corpo, tranne le scarpe nuove di camoscio, no loro dovevano appartenergli fino alla fine.

Riassumiamo un attimo: all’ora di cena di un mercoledì calcistico, un uomo in stile adamitico era intento a bagnare le sue scarpe nuove, sfruttando nell’ordine forza di gravità, peso corporeo e un ferro arrugginito trafugato ad un tizio che risultava essere suo zio.

Chissà forse è proprio questo che pensò un passante vedendo la scena nelle sue fasi salienti.

Una cosa fu subito chiara: l’incantesimo di quel gesto costruito nella mente di Leo ed azionato dal suo corpo svanì miseramente una volta verificata la presenza di quell’ospite inopportuno.

Ecco quindi che il potenziale suicida ad uno sguardo distratto e superficiale sembrò essere piuttosto una persona dall’atteggiamento esibizionista, che certo mostrava i suoi averi ad uno sconosciuto, ma pareva più orgoglioso delle sue scarpe nuove di camoscio.

Rovinato l’attimo fuggente, la mente di Leo ricevette un impulso di pari forza ma in senso contrario rispetto ai propositi iniziali.

Così com'era, si precipitò in macchina, accese il motore, riversò tutta l'ansia del momento sul pedale dell'acceleratore e fuggì via, a tutta velocità, lontano, il più possibile.

Il giorno seguente un trafiletto del giornale riportava quanto segue: “Pirata della strada sbanda con la propria auto cadendo rovinosamente in fondo al fiume, identità sconosciuta, di lui non è stato rinvenuto alcun effetto personale, se non un paio di scarpe di ottima fattura. Più o meno alla stessa ora uomo si getta nel Tevere, la patente rinvenuta sul ponte non lascia dubbi, si trattava di un certo Leo Malatesta”.

Il destino alzò il sipario, la gente si levò in piedi e rese giustizia a quell'attore sconosciuto finalmente protagonista.

 
 
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Inesorabile destino

Post n°2 pubblicato il 18 Settembre 2006 da Don.Juan_De.Marco
 

 

Erano le 6 del pomeriggio, quel giorno di tutti i giorni.

Stavo canticchiando in modo nevrotico qualche frase catturata ad una monotona canzone e al suo sfigato cantante, e più cantavo più mi domandavo perché dovevo imitare proprio quello lì con la sua stramaledetta canzone, allora..... continuavo a cantare perché le parole uscivano da sole e la nevrosi saliva su per il corpo dandomi scariche adrenaliniche che solo cantando potevo sfogare e allora ..... soddisfiamo l’adrenalina, ma pronunciare quella parola mi tendeva i nervi, così decisi di chiudermi quella mia bocca da civetta e allora... fu la mente che riprese a cantare rimbombandomi tutto dentro e scombussolando tutte quelle povere cellule che certe avevamo ben altro a cui pensare e allora .....

bastò un CLIC.

Ah membra mie respirate, godetevi questo sano traffico, fatevi cullare dalle sue melodie a ritmo di clacson, immergetevi in quei sani insulti pronunciati dai suoi protagonisti.....

Quindi tutto mi respirava, e creava un rumore malcerto e sibillino che richiamava pericolosamente i fantasmi sonori di poco prima,
presagendo nulla di buono.

Il peggio infatti veniva dai miei occhi, loro non volevano credere a loro stessi, si stropicciavano, si sgranavano, si aguzzavano, si chiusero perfino, ma non c’era niente da fare, vittime inconsapevoli di ciò che li circondava non poterono fare altro che constatare loro malgrado l’inevitabile realtà:
quel cantante sfigato era lì, o meglio quei miei compagni di viaggio, ignari casi statistici di un evento rituale e ritmico quale il traffico, erano tutti lì per lui.

Mi sentii tradito, dov’è la solidarietà tra automobilisti, mi chiedevo, mentre lo stadio si avvicinava sempre di più e io mi sentivo inerme, travolto da un evento inarrestabile che mi conduceva metro dopo metro, decametro dopo decametro, ettometro dopo ettometro al mio triste destino:

QUELLA STRAMALEDETTA CANZONE!

 
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Il colore rosa dei soldi

Post n°1 pubblicato il 18 Settembre 2006 da Don.Juan_De.Marco
 

Tavolo verde, sigarette riposte con cura pronte all’uso, fiches colorate e rumorose che ti guardano con aria sospetta, vociare che mano a mano scema in un silenzio da situazione critica, foglio con i crediti (e i debiti...) che schizza da una parte all’altra perché porta sfiga, chip, vedo, rilancio, passo, buio, servito, giochini.....

Questo è il poker, o meglio ciò che si vede e si sente e che si ripropone in modo ritmico, cadenzato, rituale.

Ogni giocatore poi ha il suo stile, i suoi vezzi, i suoi pensieri.

C’è chi fa le “barricate”, chi dispone con cura certosina le fiches in tanti ordinati mucchietti, chi scarta sempre la carta sbagliata, chi bluffa ma gli trema l’occhio, chi ha culo e non ha bisogno di bluffare, chi morso dalla tarantola di nome iella gira e rigira la sedia, chi rimpiange quelle belle e sane partite a monopoli, chi vuole partire per il Costarica e ha deciso di farlo con i nostri soldi, chi ripensa a quelle ultime parole pronunciate incautamente dalla sua dolce consorte “amore, sento che stasera vincerai...”.

Infine c’è un detto che ogni buon pokerista ripete puntualmente e che noi abbiamo preso alla lettera: “i conti si fanno sulla tromba delle scale”, che parafrasando suona più o meno così: “tanto nun’ se damo ‘na lira, no?”

 

 
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