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Post N° 337

Post n°337 pubblicato il 26 Agosto 2005 da corsaramora

 

Enrichetta nacque a Napoli nel 1821 da don Fabio Caracciolo , maresciallo dell'esercito napoletano, e da Teresa Cutelli, gentildonna palermitana. Era la quinta di sette figlie femmine, e questo segnò il suo destino, in una famiglia che per generazioni  usò monacare tutte le figlie femmine tranne le primogenite. La generazione di Enrichetta, peraltro, fu la prima in cui questa prassi si incrinò (più di una delle sue sorelle si sposò); ma una serie di circostanze fecero sì che a lei fosse destinata una monacazione forzata, in un’epoca in cui un articolo del codice civile consentiva espressamente ai genitori, se non di costringere le proprie figlie a pronunciare i voti, quanto meno di rinchiuderle in istituti religiosi, a qualsiasi età.

Enrichetta trascorse la sua adolescenza come una ragazza sensibile e romantica. Un primo innamorato la abbandonò "per insufficienza di dote"; un secondo venne allontanato per la sua "insensata gelosia" (Caracciolo). Alla morte del padre fu affidata, ancora adolescente, alla tutela della madre, che, avendo deciso di risposarsi, a sua insaputa iniziò le pratiche per introdurre Enrichetta nel monastero di San Gregorio Armeno di Napoli, dove già si trovavano due zie paterne della fanciulla. Quindi Teresa partì per Reggio, dove celebrò il suo secondo matrimonio, dopo aver promesso alla figlia che l’avrebbe condotta nella sua nuova dimora. Ma un parente –un magistrato- avvertì la giovane di quanto si stava tramando alle sue spalle. Enrichetta, allora, rifiutò di lasciare la sua temporanea dimora presso una sorella sposata. Ma il ministro di Polizia Del Carretto, dietro la pressione di Teresa Cutelli (che accusò la figlia di insubordinazione) ordinò che la giovane fosse "tratta a viva forza dai gendarmi sul piroscafo che doveva salpare per Reggio" (Caracciolo). Stretta tra la prospettiva di essere rinchiusa in convento a Reggio o a Napoli, Enrichetta accettò di entrare nel monastero napoletano di San Gregorio. Qui le monache le imposero, come condizione per accoglierla, il noviziato.

"Quando la Badessa prese le forbici per tagliarle la lunga ed inanellata chioma – scrive Francesco Sciarelli – un membro del Parlamento inglese che era tra la folla degl’invitati, gridò: ‘Barbara, non tagliare i capelli a quella ragazza’. I preti imposero silenzio. Uno di loro disse alla Badessa: ‘Tagliate, è un eretico’" . Siamo nel 1840. L’anno successivo Enrichetta pronunciò i voti solenni.

Colta e amante degli studi, nel convento si scontrò con la grettezza e la diffidenza di monache ignoranti, per lo più analfabete. Si innamorò di un giovane medico, senza osare rivelarsi. Poi l’ufficio di sagrestana, che la metteva in contatto con preti e chierici, la espose a maldicenze e scandali.

Nel 1846, incoraggiata dal diffuso clima di speranza nel "papa liberale" , presentò a Pio IX la prima di una serie di istanze volte ad ottenere lo scioglimento dai voti, o almeno una dispensa temporanea per motivi di salute. Ma l’arcivescovo di Napoli, Riario Sforza, le rivolse un’accanita persecuzione personale, negandole il suo nulla osta, perfino contro il parere del pontefice.

Nel 1848, mentre le monache pregavano per lo "sterminio dei malvagi", Enrichetta innalzava "taciti voti all’Onnipossente per la caduta della tirannide e pel trionfo della nazione". Si procurò la fama di "rivoluzionaria, aggregata a segrete società, settaria, eretica" (Caracciolo 1864). Comprava senza nascondersi i giornali dell’opposizione, che leggeva ad alta voce nel convento, profittando della concessa libertà di stampa. E di questa nuova libertà progettò di avvalersi –come scrisse in una lettera indirizzata a Pio IX – per denunciare lo stato monastico imposto a tante giovani donne, "residuo di barbarismo orientale" e per "notificare al mondo intero" sulla stampa, in più lingue, l’iniquità della sua condizione .

Il 15 maggio, allo scatenarsi della repressione borbonica, Enrichetta dette fuoco alle sue memorie, temendo ripercussioni per sé e la sua famiglia. Frattanto, un cappuccino inviato dal papa le portava l’autorizzazione a trasferirsi in un conservatorio - ma non, come lei aveva chiesto, nella casa della madre, ora separata dal marito e riconciliata con la figlia. Parzialmente sconfitto, Riario Sforza le impose di lasciare in convento le argenterie e le pietre preziose ereditate dalle zie monache.

Nel Conservatorio di Costantinopoli, nonostante la presenza di alcune recluse "non nemiche del progresso e della civiltà", il "partito" riunito intorno alla badessa era totalmente ligio alla Curia e ai Borbone. Enrichetta subì una drastica censura riguardo a quelle che erano diventate –come narra lei stessa- le sue fonti di sopravvivenza psichica: la lettura degli scritti storici di Cesare Cantù, l’esecuzione al piano dei brani di Rossini, la possibilità di scrivere lettere o tenere un diario. Le vennero confiscati un saggio di Ozanam su Dante, uno di Tommaseo sull’educazione, gli Inni sacri di Manzoni, un carme alla libertà di Dionisio Salomos. Alla perquisizione, subita nel 1849, sfuggirono, fortunatamente, "un fascio di carte rivoluzionarie in cifra, un pugnale ed una pistola" affidatele da un cognato cospiratore

Enrichetta ripiegò allora sulle letture consentite dalla badessa: nella Vita delle sante martiri trovò testimonianze del contributo delle donne al rinnovamento dell’umanità. Continuò a inviare lettere, che sottraeva alla censura del convento nascondendole nel cesto della biancheria sporca, con la complicità di una domestica.

Alcuni suoi scritti, sequestrati e pervenuti nelle mani di Riario Sforza, vennero da lui inviati a Pio IX affinché non cedesse alle reiterate suppliche di Teresa Cutelli per la libertà alla figlia. Solo nel 1849, grazie ai disturbi nervosi di cui soffriva, Enrichetta ottenne finalmente il permesso di uscire con la madre per curarsi con i bagni. L’anno dopo, Riario Sforza tornò a perseguitarla: le negò una nuova licenza, le sequestrò l’assegno costituito dai frutti della sua dote di monaca, costringendola a vivere della carità dei parenti. Enrichetta allora, con la complicità della madre, lasciò il conservatorio e –saputo che era stato emanato il suo ordine di arresto- si recò a Capua, sotto la protezione del vescovo Serra di Cassano. Ma il suo protettore morì pochi giorni dopo. Un altro amico ecclesiastico, il sacerdote Spaccapietra, riuscì a procurarle il permesso di abitare con la madre – seguendo la regola delle Canonichesse di Sant’Anna, che prescriveva, fra l’altro, il nubilato- e di riottenere i suoi frutti dotali.

Riario Sforza, tuttavia, continuò a perseguitarla, valendosi della sua influenza presso Ferdinando II: nel giugno 1851, mentre Enrichetta si trovava a casa di una sua sorella, il commissario di polizia Morbilli si presentò per arrestarla, accompagnato da un prete. Condotta nel ritiro di Mondragone, Enrichetta rifiutò il cibo e meditò il suicidio. Dopo undici giorni, era quasi in fin di vita. Si colpì al petto con un pugnale, riuscendo solo a ferirsi. Sopravvisse, superando un intero anno di isolamento. Un nunzio pontificio, monsignor Ferretti, tornò ad intercedere per lei, le procurò il permesso di ricevere i parenti; ma non di lasciare il ritiro, neppure per visitare la madre morente. Dopo la scomparsa della madre, Enrichetta progettò una nuova fuga, con la complicità di una zia: pensò di rivolgersi al capitano di una nave inglese ancorata nel porto di Napoli. Poi le preoccupazioni per il suo onore, che sarebbe stato messo a rischio da un lungo viaggio in una nave di soli uomini, la fecero desistere. Tentò ancora la via diplomatica. La zia ottenne dalla Sacra Congregazione dei Vescovi l’invio di un medico che prescrisse ad Enrichetta la cura dei bagni a Castellammare: era uno stratagemma attraverso il quale la Congregazione – fortemente critica verso il comportamento dell’arcivescovo di Napoli – mirava a liberare Enrichetta dal suo persecutore. Enrichetta si recò a Catellammare, dove godette di una relativa libertà. Ormai era entrata a tutti gli effetti nelle reti cospirative: sollecitata dagli amici, tornò clandestinamente a Napoli. Per sfuggire alle spie, cambiò –in sei anni- diciotto abitazioni e trentadue donne di servizio: "(..) Ed ecco la via che seguiva lo spionaggio (..): il fatto dalla fantesca passava al droghiere, all’oste, al farmacista, e bene spesso al medico del vicinato: da questi trasmettevasi, sotto la garanzia della confessione, al parroco, e quindi al vescovo: dal quale passava ipso facto al commissariato, donde giungeva poi al gabinetto del re"(Caracciolo 1864). Elaborò un sistema di controspionaggio, con persone di sua fiducia incaricate di individuare e depistare i poliziotti in borghese messi alle sue costole.

"La mia storia finisce in questo giorno, che per l’Italia è giorno di nuova creazione": il sette settembre 1860 Enrichetta – dopo esser rimasta quasi schiacciata dalla folla, nel tentativo di essere la prima donna di Napoli a stringere la mano a Garibadi, nel Duomo, mentre il Generale assisteva al Te Deum di ringraziamento per la fuga di Francesco II, depose su un altare il suo nero velo di monaca.

Recuperata la libertà, dopo pochi mesi, sposò col rito evangelico il patriota napoletano di origine tedesca Giovanni Greuther.

Nel 1864 pubblicò le sue memorie presso la società editrice Barbera di Firenze. Il libro venne accolto con grande interesse e ripubblicato otto volte negli anni successivi. Fu tradotto in francese, inglese, spagnolo, tedesco, greco, ungherese. Venne apprezzato da Manzoni, Settembrini, dal principe di Galles. Alinari volle ritrarre l’autrice. Garibaldi le scrisse, invece, per ringraziarla di alcuni "bellissimi sonetti"

Nel 1866 pubblicò Un delitto impunito: fatto storico del 1838, che narra l’assassinio di un’educanda da parte di un sacerdote respinto dalla fanciulla.

Un altro dramma, Un episodio dei misteri del Chiostro Napolitano, è tratto dalle sue memorie.

I miracoli

, pubblicato nel 1874, è una raccolta di poesie satiriche contro le superstizioni.

 
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