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Post N° 452

Post n°452 pubblicato il 07 Ottobre 2005 da corsaramora

L’arretratezza del sud: crimine storico del capitalismo italiano

 

“L’aggravamento del divario di produttività rispetto al resto del Paese – che ha raggiunto nel 2002 i 20 punti percentuali, con un peggioramento di quasi 3 punti rispetto al 1995 – continua, dunque, a rappresentare uno dei principali fattori di ritardo strutturale del Mezzogiorno”. Rapporto Svimez 2003.

 

di Dario Salvetti

 

Alla fine degli anni ’70 gli intellettuali borghesi hanno dichiarato ufficialmente chiusa la questione meridionale. In realtà il divario tra nord e sud non si era né chiuso né attenuato, ma semplicemente mantenuto stabile lungo un decennio. Tale risultato era determinato da un’equazione ben precisa. L’economia italiana usciva da una crescita economica senza precedenti. 4 milioni di persone emigrano dal nord al sud tra il 1951 ed il 1971 tanto che in questa data il 17% della popolazione residente al nord risulta nata al sud. Con le rimesse derivanti dall’emigrazione ed una sensibile riduzione della popolazione, il Pil procapite del Meridione raggiunge il “rapporto record” del 65% rispetto al Pil procapite del nord. La Cassa per il Mezzogiorno elargisce 12mila miliardi di investimenti solo tra il 1966 ed il 1975, garantendo una qualche forma di sviluppo economico e soprattutto i margini per ingrassare le reti clientelari. Venuti meno i fattori di questa equazione, ne è cambiato anche il risultato. L’eccezione ha fatto di nuovo spazio alla norma.

 

Di nuovo la questione meridionale

 

Tra il 1983 ed il 1988  il Pil procapite meridionale si riattesta al 57% di quello del nord e la quota dei disoccupati supera nuovamente il 50% del totale nazionale. Nel 1988 la spesa pubblica diretta al Mezzogiorno scende attorno ad un  misero  25% del totale nazionale.

Se la politica di lacrime e sangue degli anni ’90 è stata deleteria per tutto il proletariato italiano, per quello meridionale è stata devastante. Nel 1993, ad esempio, i chilometri di ferrovia attivi scendono sotto il livello del 1938  (7.598 km contro 8.871).

La Svimez, associazione per lo sviluppo dell’industria meridionale, dopo aver celebrato i 242mila nuovi posti di lavoro creati tra il ’99 ed il 2000  (di cui il 60% precari), deve ammettere a denti stretti “la persistente gravità del dualismo territoriale italiano”: il 75% delle famiglie povere si concentra al sud, la disoccupazione è al 18% contro la media nazionale del 4% e tocca il 49% per i giovani sotto i 24 anni, mentre 450mila famiglie meridionali non vedono nemmeno un occupato tra le proprie fila. Nel 2002 l’emigrazione dal sud verso il nord ha raggiunto di nuovo la punta di 180mila persone.

 

La stessa questione su basi diverse

 

Ancora oggi il sud d’Italia è condannato a subire sia i mali del capitalismo sia quelli del suo sviluppo ritardato. Ma l’attuale situazione non è una semplice ripetizione delle condizioni di 30 anni fa. Ne è una ripetizione ed allo stesso tempo un approfondimento. Se nel 1951 l’agricoltura costituiva il 34% del reddito meridionale, nel 1989 arriva a costituirne appena l’8%. Tra il 1951 ed il 1962 solo il 15% degli investimenti industriali nazionali è rivolto al sud, mentre nel 1973 questa cifra si aggira attorno al 44%. Il meridione è stato industrializzato. Ma questo, lungi da attenuare o risolvere la questione meridionale, l’ha posta su basi più esplosive. Da una parte lo sviluppo industriale ha legato intere zone alle sorti di pochi enormi stabilimenti industriali, dall’altra ha cancellato potenziali sbocchi lavorativi alternativi. Il tessuto di piccole e medie imprese su base familiare che costituiva la rete sociale di salvezza per migliaia di famiglie, soffre una crisi perenne sempre più acuta. Questa rete di aziende vende e compra prodotti a livello locale potendo così mantenere basso il prezzo di alcuni prodotti. Venendo meno tale rete, vengono meno anche i prezzi bassi. La forbice tra salari e prezzi si allargherà più rapidamente che nel passato.

 

I luoghi comuni della borghesia

 

“È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: il Mezzogiorno è la palla al piede che impedisce i più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci”. (Antonio Gramsci).

Se una parte degli storici ed intellettuali borghesi ritiene ormai superata l’arretratezza del sud d’Italia, un’altra parte la ritiene un fenomeno talmente complesso da non poterne nemmeno individuare le cause. Per i primi la questione meridionale non esiste, per i secondi esiste ma costituisce un rompicapo indecifrabile. Non si tratta di ignoranza o mancanza di dati. La realtà è che simili accademici si scontrano con il proprio punto di vista di classe: difficilmente potranno mai indagare un fenomeno che è causato dalle stesse radici del capitalismo.

Ogni male ha la propria soluzione. L’ammissione delle responsabilità del capitalismo nel determinare il divario tra nord e sud d’Italia, implicherebbe ammettere che tale divario non potrà mai trovare una soluzione definitiva all’interno del capitalismo stesso. Per questo, mentre gli intellettuali della borghesia si arrabattano con saggi sempre più sofisticati come un criceto in un labirinto, i politici della borghesia devono chiamare in proprio soccorso i più beceri luoghi comuni dando la colpa delle condizioni del meridione alla natura, alla storia precedente all’unità d’Italia oppure (come succede nella maggioranza dei casi) direttamente ai meridionali. Il capro espiatorio cambia: può essere la siccità, i borboni o il terrone. L’importante è che si tenga ben lontano il capitalismo dal banco degli imputati. Così mentre la Lega Nord ha potuto nascere sulla base della visione razzista dell’arretratezza economica del sud, altri partiti hanno potuto basarsi direttamente su tale arretratezza per costruirvi le proprie reti clientelari ed i propri bacini di voti. Per questi partiti il divario tra nord e sud è fonte di vita, tanto quanto la disoccupazione meridionale è fonte di sfruttamento per la borghesia italiana nel suo complesso.

 

Lo sviluppo storico del divario

 

L’idea che l’Italia abbia ereditato un sud irrimediabilmente arretrato è semplicemente falsa. Il sottosviluppo meridionale è sorto durante e soprattutto dopo il processo di unificazione italiana. È stata la via peculiare con cui il debole capitalismo italiano ha potuto colmare l’enorme distacco che lo separava dal resto d’Europa capitalisticamente avanzata.

Nel 1861 il numero dei fusi impegnati nell’industria tessile era di 70mila al sud (15% del totale nazionale) e di 300mila al nord, mentre in Francia era di 5 milioni e in Inghilterra di 30 milioni. Nel meridione venivano prodotte 1.500 tonnellate di ghisa contro le 17mila del nord, mentre in Germania ne venivano prodotte 600mila e in Inghilterra 3,7 milioni.

Arrivata a costituire il proprio mercato nazionale quando le borghesie più avanzate iniziavano a conquistarsi il proprio spazio sulla scena internazionale, la borghesia italiana fece del sud la propria colonia. Lo scambio diseguale tra  paesi capitalisticamente avanzati e arretrati, tra industria e agricoltura, tra città e campagna prese in Italia la forma particolare del divario tra nord e sud. Lo smantellamento dell’industria del sud e il suo impoverimento furono la via attraverso cui la borghesia italiana accelerò lo sviluppo della propria industria per recuperare il distacco con il resto d’Europa. Se ancora nel 1905 al sud erano concentrati il 23% di addetti all’industria sul totale nazionale (300mila su 1,3 milioni a livello nazionale), nel 1914 erano scesi al 14% (324mila contro i 2,3 milioni a livello nazionale) e nel 1927 al 12% (416mila contro 3,3 milioni).

 

 
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SoBeneChiSei il 08/10/05 alle 01:30 via WEB
ma andate a lavorare barboni!
 
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