Creato da corsaramora il 24/05/2005
tutto cio' che ci accade intorno ..mie riflessioni e non...
 

Messaggi di Novembre 2005

Post N° 548

Post n°548 pubblicato il 28 Novembre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

Vecchiaia, malattia, morte. Il destino dell’uomo è tutto qui, non c’è altro. Chissà quante volte Adriano Sofri deve aver pensato alla lezione leopardiana di Sebastiano Timpanaro, lo studioso che non a caso considera il suo unico maestro, magari riordinando i preziosi documenti alla biblioteca della Normale di Pisa dove da cinque mesi lavora o osservando dalla finestra di Palazzo della Carovana il tetto della casa in cui il poeta scrisse «A Silvia». Il senso della vita racchiuso in quelle tre parole, come lui sigillate in una prigione da una sentenza definitiva che lo condanna a 22 anni per un delitto di cui si è sempre dichiarato innocente. Quando l’ultimo tribunale mise il sigillo, Sofri ammise con se stesso che a quel punto sarebbe morto in carcere. «Mi sento consumato», confessò. Allora aveva 58 anni, oggi ne ha 63. Nonostante dallo scorso giugno abbia la possibilità di permessi e lavori esterni al carcere, sa bene che la libertà è un’altra cosa. I campanili e le torri di Pisa, nel breve tragitto dal carcere «Don Bosco» alla Normale, attireranno pure il suo sguardo, ma lui nella cella ha imparato a camminare con gli occhi bassi, la maniera dei prigionieri che fanno così - ha detto lui - «forse perché cercano la strada». Quale la sua? Adriano Sofri se l’è costruita in questi anni con serena dignità. Ha accettato il ruolo di condannato però non di colpevole, lasciando ai tanti altri la cura di sottolineare l’ambiguità di un procedimento e di un verdetto diventati letteratura giudiziaria. Ha rigettato ogni richiesta di sottoscrivere la grazia che pure gli riconsegnerebbe la libertà ma senza cancellare i dubbi sul suo coinvolgimento nel delitto del commissario Calabresi. Ha continuato a parlare dagli spazi che gli venivano offerti - i giornali, i libri, la televisione - e mai di sè e della sua vicenda quanto del mondo, dell’arte, della vita che continua a incuriosirlo e appassionarlo. All’esterno, e malgrado lui, la sua storia ha assunto il peso di un ingombrante e complicato caso. «Un’escrescenza», dice: «Ho l’impressione che sia cancellata ogni curiosità su di me, o persino la voglia d’immaginare che io esista sul serio. Ma si pronuncia un nome per pronunciare uno slogan, sentirsi uniti, trovare un nemico». Un nemico. Perché davvero Adriano Sofri per una parte di opinione pubblica è ancora considerato un nemico, un simbolo ostile di anni che si vogliono accantonare, l’archetipo del male sopravvissuto al crollo di ogni muro e simulacro. Lui che il suo antico amico Carlo Ginzburg avvicina al signor K dei «Dialoghi dei profughi» di Bertolt Brecht, il tipo che s’infuria quando chi l’incontra dice «Lei è sempre uguale»: uguale a chi? Al ragazzo che nel ’63 fu espulso dalla Normale dove ora opera per essere stato sorpreso in camera con la sua futura moglie? Al tipetto che contestò Palmiro Togliatti fino a indisporlo e fargli sbottare «Provateci voi, allora, a fare la rivoluzione» per poi rispondergli: «Ci proverò, ci proverò»? Lui che in galera ha rimescolato radicalmente le sue carte e da leader spavaldo e fiero di Lotta Continua nelle assemblee studentesche degli anni ’60, dominate nonostante la statura non impotente che lo faceva sembrare una sorta di muratorino muso di lepre di «Cuore», si è trasformato in autorevole ed eclettico referente di una cultura libera dagli schemi e dai dogmatismi, capace di spaziare dal «Fidelio» di Mozart al «Piange il telefono» di Modugno, con in mezzo Malraux, Virgilio e i bambini di strada, intransigente e rigorosa ma senza pregiudizi. Meglio azionista che extraparlamentare, verrebbe a dire. La cultura della «confederazione degli umani», come in una sua definizione, l’unico linguaggio in grado di comunicare ancora qualcosa dal ponte del «Titanic» che sta affondando. Difficile considerare l’Adriano Sofri di questi anni ancora un protagonista o addirittura l’impersonificazione residua della guerra civile che ha segnato la storia italiana dal 1943. Seppure un tempo per qualcuno lo è stato, oggi appare più prossimo al simbolo di una tregua civile, di un’Italia dove finalmente il dialogo politico si ricomponga e riparta da basi diverse, umane e vere. In fondo, è la sua unica ambizione.

il mattino

 
 
 

Post N° 547

Post n°547 pubblicato il 23 Novembre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

Dalla sua approvazione, anno di grazia 1978, la guerra contro la 194 ha registrato solo brevi armistizi. Nonostante quella legge - tutt'altro che permissiva - fosse figlia di mediazioni e compromessi che rendevano possibile per le donne dell'Italia cattolica l'interruzione di gravidanza solo sotto tutela statale e solo sottoponendosi a un iter lungo non facile e aggravato dal ricorso all'obiezione di coscienza. Mediazione ben lontana dalla proposta di depenalizzazione portata avanti, su posizioni diverse, dai Radicali e da una parte non piccola del movimento femminista. La legge ha retto l'urto del tempo, gli anatemi del Vaticano, i ripensamenti/pentimenti di uomini di sinistra e un referendum, grazie soprattutto a una pratica che è riuscita a superare ostacoli e farraginosità che quel testo contiene. Ed è esattamente quella pratica sotto attacco ora. La nuova strategia è chiara: quella legge «intoccabile» va aggirata. Lasciata apparentemente intatta, ma svuotata dall'interno. Ecco dunque la commissione d'indagine uscita dal cappello dell'Udc che non potrà che tramutarsi in un processo di massa alle donne; ecco il nuovo ossimoro - sinistro come quello della guerra umanitaria - dei «volontari professionali» del Movimento della vita assoldati da Storace e sguinzagliati nei consultori per convertire le donne alla maternità forzosa.

La lotta inesausta della Chiesa contro le donne con a fianco vecchi/nuovi chierichetti disseminati nel centrosinistra e nel centrodestra - ringalluzziti dal vittorioso referendum sulla procreazione assistita - si ammassano nel ventre di questo cavallo di Troia: ripensare le modalità applicative della legge, battere il tasto di quanto non è stato fatto per la tutela della maternità. La prevenzione - affidata ai consultori e presente nella 194 - ben presto è scivolata nella dissuasione cui il testo della legge non fa alcun cenno. Non è difficile immaginare l'esito di una campagna di indagini e dissuasori tutt'altro che occulti: una versione pesantemente riduttiva e autoritaria, penalizzante e umiliante dell'aborto. Un'esperienza - mai semplice, lineare, indolore - che le donne di tutto il mondo, da che mondo è mondo, conoscono e vivono sulla propria pelle. Un attacco che sottintende (la legge 40 docet) un'idea delle donne come creature egoiste e incapaci di decidere da sole se, quando e come essere madri. Esseri deboli e instabili da tenere sotto controllo e tutela per evitare eccessi e sregolatezze.

Sull'aborto, prevenzione e dramma sono le paroline magiche che troppo spesso anche la sinistra continua a tirar fuori dal cassetto per rintuzzare gli attacchi alla libertà femminile. Risposta debole e reticente, incapace di far proprio il principio della scelta femminile, dell'autodeterminazione. Di fidarsi e affidarsi alla responsabilità delle donne italiane che, i dati lo confermano, non ricorrono mai a cuor leggero all'interruzione della gravidanza.

Di fronte a vecchie e nuove alleanze che giocano sul corpo delle donne, alla vigilia del voto di aprile, fra prevenzione/dissuasione, vescovi, crociati dell'embrione, neoconvertiti alla preghiera, imboscati (come è accaduto per il referendum sulla procreazione assistita), è giunta l'ora di pretendere che la libertà delle donne in materia procreativa diventi un punto qualificante dei programmi elettorali. Che chi aspira a diventare nostro governante e legislatore, dica una parola chiara e definitiva su questo. Le donne, responsabilmente, faranno di conseguenza le loro scelte di voto.

il manifesto

 
 
 

Post N° 546

Post n°546 pubblicato il 23 Novembre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

 
 
 

Post N° 545

Post n°545 pubblicato il 23 Novembre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

Abbiamo tutti ancora impresse nella memoria le immagini del terribile terremoto che colpì la Campania e la Basilicata in quella lontana sera del 23 novembre 1980. Tutti ricordiamo le proporzioni disastrose della tragedia: le tremila vittime, le migliaia di feriti, le case distrutte, il dolore nei visi di tante famiglie. Fu un colpo inflitto non solo all’Irpinia, ma a tutta l’Italia; una ferita che molti pensarono non potesse mai più rimarginarsi. Oggi, guardandosi alle spalle, le comunità che a quei luoghi erano e sono profondamente legate dai vincoli della tradizione, della famiglia e del lavoro possono rivendicare con legittimo orgoglio il merito di aver saputo reagire con coraggio e con determinazione ad una prova tanto dura. Certamente il percorso della ricostruzione è stato lungo, faticoso, denso di ostacoli e difficoltà.

Ritardi e squilibri che pure ci sono stati vanno ricondotti all’improprio allargamento dell’area del cratere a Napoli e a comportamenti illeciti di singoli. Non dei sindaci. Nessuno di loro ha violato la legge, l’elenco dei disonesti è noto e, per fortuna, limitato». L’accusa più ricorrente è stata quella di aver peccato di gigantismo. E questo ha comportato sprechi. «Occorre tener presente quel che era l’Irpinia prima del terremoto: già di per sè una terra carente di infrastrutture. Il sisma è stato un colpo mortale. Il domani andava completamente ripensato su vasta scala. Per la ricostruzione c’era esigenza di dotare di strumenti urbanistici le amministrazioni perchè il patrimonio immobiliare, privato e pubblico, era stato completamente devastato». Poi l’industrializzazione. «Sì, il programma di sviluppo era basato sull’industrializzazione di un’area fortemente e storicamente depressa, dedita prevalentemente ad un’agricoltura di stampo familiare. All’epoca il meccanismo degli incentivi statali ha stimolato insediamenti anche di qualità, di grandi gruppi. Certo, ci sono stati casi singoli di fallimento. Ma un’azienda non può vivere nel tempo senza i necessari adeguamenti, senza servizi reali, senza ricerca e formazione. Alcune aziende sono morte così».

ma al di la delle polemiche del post terremoto ,oggi solo un omaggio alle vittime di quel disastro

 
 
 

Post N° 544

Post n°544 pubblicato il 22 Novembre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

 
 
 

Post N° 543

Post n°543 pubblicato il 22 Novembre 2005 da corsaramora
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Post N° 542

Post n°542 pubblicato il 22 Novembre 2005 da corsaramora
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Post N° 541

Post n°541 pubblicato il 22 Novembre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

 
 
 

Post N° 540

Post n°540 pubblicato il 22 Novembre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

 
 
 

Post N° 539

Post n°539 pubblicato il 22 Novembre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

 
 
 

Post N° 538

Post n°538 pubblicato il 22 Novembre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

dedicato a chi ha continui travasi di bile

 
 
 

Post N° 537

Post n°537 pubblicato il 22 Novembre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

Il 75% delle persone che soffrono la fame vivono in zone rurali nei Paesi più poveri, soprattutto in Africa. Qui vive la maggior parte dei circa 11 milioni di bambini che non superano i cinque anni, delle 530mila donne che muoiono durante la gravidanza ed il parto e dei 300 milioni di persone che muoiono di malaria.


"La fame è un affronto alla dignità umana, tollerarla è una violazione dei diritti umani, combatterla un imperativo morale", ha dichiarato il direttore generale della Fao, che ha sottolineato che il messaggio centrale del rapporto presentato oggi "è che la lotta alla fame è una delle condizioni per raggiungere gli obiettivi del millennio".

la repubblica

adottiamo un bambino a distanza

un gesto di solidarieta' che salva una vita ma che procura immensa felicita' anche al nostro cuore

 
 
 

Post N° 536

Post n°536 pubblicato il 22 Novembre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

Quando ancora contava molto e teneva efficiente un inverosimile reticolo di relazioni, Giulio Andreotti passava per il re delle raccomandazioni. Ne sono comparse a decine, per ogni genere di posto, firma autografa, anche nelle carte processuali che lo riguardavano. Gli chiesi, allora, che cosa fosse per lui la «raccomandazione». Mi rispose con una delle sue folgoranti battute: «Vede, il raccomandato è come quel signore che allo stadio si alza in piedi per vedere meglio la partita e tutti gli altri fanno lo stesso». Ammetteva il dilagare della spintarella, ne minimizzava gli effetti. Il privilegio viene annegato nel suo stesso dilagare. Oggi, rivela accortamente il Mattino analizzando l'inchiesta della Unioncamere, in particolare per quel che ancora accade al Sud, quel «Mi manda Picone» di Nanni Loy resta una ambita scorciatoia e tuttavia - fa notare Domenico De Masi, l'uomo dell'ozio creativo - le referenze ormai contano più dei buoni uffici. Alla Georgetown University a Washington, fabbrica di inquilini della Casa Bianca, i professori fanno agli studenti un'unica premessa che suona così: siamo qui per insegnarvi a costruire il vostro futuro attraverso un curriculum imbattibile. Il curriculum qui è la vostra vera raccomandazione.

 

Per noi non esistono né neri né bianchi, né ricchi e né poveri ma solo competenti e incompetenti. Chi non può di famiglia studia con i prestiti bancari, vent'anni per restituirli. Ma sono un autentico investimento perché il titolo varrà come moneta. E su tutto, la legge della selezione: vincono i migliori. Appunto: non raccomandazioni, ma opportunità da cogliere. Certo, la selezione utilizza il sistema della segnalazione. Ma non è quella dell'onorevole o del parroco: «Carissimo, mi pregio segnalarti questo valoroso giovane che affido alla tua benevola considerazione affinché possa mettere a frutto, in un impiego sicuro e adeguato alle sue qualità, le molte doti che ho avuto modo di apprezzare anche per il rapporto di stretta parentela che mi lega alla sua importante famiglia...». Negli Stati Uniti chi scrive una raccomandazione è un professore, un datore di lavoro che conosce direttamente il soggetto di cui parla : essi spendono la loro credibilità e la loro autorevolezza, si impegnano a dire il vero. Il beneficiario sente gratitudine ma rimane libero, è il merito che più conta. Là dove gli alti studi costano caro le selezioni sono davvero rigorose. E il segreto sta nel saper fare «networking». Fare «networking» per i giovani significa riuscire a trovare interlocutori capaci di valutare i curricula, scovare acquirenti interessati a utilizzare le competenze acquisite. Sicuro, la famiglia aiuta, la rubrica degli indirizzi utili anche, perfino gli amici di infanzia e di scuola contano. Ma la vera capacità per riuscire in questo difficile lavoro di cercare lavoro è saper andare oltre. Contattare persone mai conosciute prima. In una società che pone al suo centro l'individuo niente può funzionare se ogni individuo non è messo nella condizione di muoversi e di far valere il suo valore. E non è un gioco di parole. Da noi, quel «non preoccuparti che ti ci mando io» è il segnale più sordo di un male profondo di una società che non vuole veramente mettersi in discussione, che non accetta di fatto nessuna forma di mobilità. Ciò è tanto più grave se si considera che non è alle viste alcuna crescita economica nel medio periodo. E una crisi economica non si supera se non si fa vincere il sistema meritocratico: in una economia e in una società l'assenza di mobilità sociale produce obsolescenza della classe dirigente e manageriale, frena l'innovazione, produce tensioni interne. Svanisce così la fiducia nel sistema e si capisce che ci sono interessi per mantenere la società bloccata. Ecco allora che cercare e trovare un lavoro in Italia non è la corsa del «networking» ma la ricerca d'inserirsi nelle sacche di privilegio. E c'è un paradosso drammatico: mentre l'Italia continua mestamente nel suo declino, le sacche di privilegio diminuiscono sempre più. Vince la logica della cooptazione. Non di rado chi ha sperato nella lungimiranza di investire soldi e fatica sulle proprie capacità scopre di essere stato un ingenuo. La ruota del sistema gira in un altro modo. Sono considerazioni amare che riguardano lo strettissimo rapporto che una società ha con il Merito e il suo rapporto con le nuove generazioni. Per questo la notizia pubblicata su queste colonne di un calo (19 per cento) delle assunzioni pilotate va colta con sollievo. Perché, viceversa, là dove vincono le clientele si innalza un muro di gomma contro i giovani. Tanto più se a mettere quei mattoni è una classe dirigente che sta invecchiando rapidamente e con ogni mezzo sembra proteggere il proprio status. C'è dell'altro: tanto più questo sistema è evidente e diffuso, tanto più chi dovrebbe denunciarlo e combatterlo, prima di tutto i giovani, rimane spettatore passivo della propria estromissione, incagliato nelle raggiere delle macchine clientelari. Se va avanti in questo modo, come ha scritto l'Economist, presto non ci sarà più neppure la speranza. Anche il tempo del fatalismo è davvero scaduto. Difficile rendersi consapevoli di scadenze tanto nette che implicano responsabilità complesse e molteplici, e dove vittime e carnefici perfino si confondono, in un paese come il nostro in cui si comincia da piccolissimi a raccomandarsi alla mamma contro il papà, e alla fine si chiede al prete di raccomandarci l'anima a Dio.

 Paolo Graldi il mattino


 
 
 

Post N° 535

Post n°535 pubblicato il 21 Novembre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

 
 
 

Post N° 534

Post n°534 pubblicato il 21 Novembre 2005 da corsaramora
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Un giorno è l'aborto, quello dopo la devolution, quello dopo ancora entrambi gli argomenti. Il quotidiano dell'Unione, La Repubblica, si esalta quando nel mirino di Camillo Ruini c'è la riforma di Bossi, un po' meno quando l'intervento riguarda altre leggi, come se fosse possibile giudicare un metodo a seconda di quanto si sia di volta in volta d'accordo sul merito. Fassino si scopre credente. Bertinotti guarda da un'altra parte. Non che si concentri su questioni secondarie: però riflettere su quanto santa madre chiesa sappia ancora tenere al centro delle sue speculazioni l'essere umano, laddove la politica pensa solo al mercato, non assolve dal compito di contrastare altre e più discutibili attività della stessa chiesa. Le critiche che la Cei prima, l'Osservatore romano poi, hanno mosso alla riforma costituzionale imposta da Umberto Bossi sono condivisibili. Il che non diminuisce di un milligrammo la preoccupazione crescente per un intervento del Vaticano nella politica italiana che si fa di giorno in giorno più diretto e sfrontato. Né vale affermare che la sfera di competenza della chiesa abbraccia questioni che la devolution tocca da vicino, come la difesa dei soggetti più deboli e la salvaguardia dei diritti elementari delle persone. Quando i vescovi arrivano a proporre un emendamento alla nuova Costituzione, quasi dettandolo parola per parola, in discussione ci sono non più i princìpi ma la loro applicazione mediante leggi e regolamenti. C'è la politica.

La crescente invadenza del Vaticano nella vita italiana è una risposta al problema che angustia la chiesa da oltre un decennio, da quando, con l'improvviso inabbissarsi della Dc, è venuto a mancare un partito cattolico capace di funzionare come cinghia di trasmissione ed elemento di mediazione politica tra lo stato vaticano e quello italiano. Le gerarchie ecclesiastiche non difettano di senso della realtà, conoscono la politica molto meglio di Rocco Buttiglione. Neppure per un attimo hanno sperato di poter dare vita a un nuovo partitone cattolico. Hanno invece lavorato a lungo, con notevole successo, per affermare una discreta ma ferma egemonia su entrambi i poli.

Oggi possono porsi obiettivi anche più ambiziosi. Possono azzardare una discesa diretta in campo, come una forza politica certamente anomala ma tra le più potenti e ascoltate. E' una scommessa difficile, ma autorizzata, quasi consigliata, da una situazione nella quale nessuno si stupisce se in tv si dibatte sull'opportunità o meno di dare alle fiamme il blasfemo Darwin, come attivamente opera per fare il ministro dell'Istruzione. E' una scommessa dall'esito incerto, ma del tutto plausibile nel paese in cui il principale leader della sinistra radicale si preoccupa più di non apparire «laicista» e «anticlericale» che di frenare la deriva, e dove i pochi leader che cercano di porre limiti all'invadenza ecclesiastica vengono bersagliato quotidianamente degli stessi compagni di coalizione neanche fossero Giordano Bruno. Da tutti. Rifondazione inclusa.

il manifesto




 
 
 

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