Creato da corsaramora il 24/05/2005
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Messaggi del 16/06/2005

Post N° 130

Post n°130 pubblicato il 16 Giugno 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

Leggende Napoletane

Il bigio palazzo si erge nel mare. Non è diroccato, ma non fu mai finito; non cade, non cadrà, poiché la forte brezza marina solidifica ed imbruna le muraglie, poiché l'onda del mare non è perfida come quella dei laghi e dei fiumi, assalta ma non corrode. Le finestre alte, larghe, senza vetri, rassomigliano ad occhi senza pensiero; nei portoni dove sono scomparsi gli scalini della soglia, entra scherzando e ridendo il flutto azzurro, incrosta sulla pietra le sue conchiglie. mette l'arena nei cortili, lasciandovi la verde e lucida piantagione delle sue alghe. Di notte, il palazzo diventa nero, intensamente nero; sì serena il cielo sul suo capo, rifulgono le alte e bellissime stelle, fosforeggia il mare di Posilipo, dalle ville perdute nei boschetti, escono canti malinconici d'amore e le monotone note del mandolino: il palazzo rimane cupo e sotto le sue volte fragoreggia l'onda marina. Ogni tanto, par di vedere un lumicino passare lentamente nelle sue sale e fantastiche ombre disegnarsi nel vano delle finestre; ma non fanno paura. Forse sono ladri volgari che hanno trovato là un buon covo, ma la nostra splendida povertà non teme di loro; forse sono mendicanti che trovarono un tetto, ma noi ricchi di cuore e di cervello, ci abbassiamo dalla nostra altezza per compatirlo. E forse sono fantasmi e noi sorridiamo e desideriamo che ciò sia; noi li amiamo i fantasmi, noi viviamo con essi, noi sogniamo per essi noi moriremo per essi, col desiderio di vagolare anche noi sul mare, per le colline, sulle roccie, nelle chiese tetre ed umide, nei cimiteri fioriti, nelle fresche sale, dove il medioevo ha vissuto.
Fu una sera, e splendevano di luce vivida quelle finestre; attorno attorno il palazzo, sul mare si cullavano barchette di piacere, adorne di velluti che si bagnavano nell'acqua, vagamente illuminate da lampioncini colorati, coronate di fiori alla poppa; i barcaiuoli si pavoneggiavano nelle ricche livree. Tutta la nobiltà napoletana, tutta la nobiltà spagnuola, accorreva ad una delle magnifiche feste che l'altiera Donna Anna Carafa, moglie del duce di Medina Coeli, dava nel suo palazzo di Posilipo. Nelle sale andavano e venivano i servi, i paggi dai colori rosa e grigio, i maggiordomi dalla collana d'oro, dalle bacchette d'ebano: giungevano continuamente le bellissime signore, dagli strascichi di broccato, dai grandi collari di merletto, donde sorgeva come pistillo di fiore la testa graziosa, dai monili di perle, dai brillanti che cadevano sui busti affiliati e seducenti; giungevano accompagnate dai mariti, dai fratelli e qualcheduna, più ardita, solamente dall'amante. Nella grande sala, sulla soglia, nel suo ricchissimo abito rosso, tessuto a lama d'argento, con un lieve sorriso sulla bocca, il cui grosso labbro inferiore s'avanzava quasi in atto di spregio, inchinando appena il fiero capo alle donne, dando la mano da baciare ai cavalieri Grandi di Spagna di prima classe come lei, stava Donna Anna di Medina Coeli. L'occhio grigio, dal lampo d'acciaio, simile a quello dell'aquila, rivelava l'interna soddisfazione di quell'anima fatta d'orgoglio: ella godeva, godeva senza fine nel veder venire a lei tutti gli omaggi, tutti gli ossequi, tutte le adulazioni. Era lei la più nobile, la più potente, la più ricca, la più rispettata, la più temuta, lei duchessa, lei signora, lei regina di forza e di grazia. Oh poteva salire gloriosa i due scalini, che facevano del suo seggiolone quasi un trono; poteva levare la testa al caldo alito dell'ambizione appagata che le soffiava in volto. Le dame sedevano intorno a lei, facendole corona, minori tutte di lei: ella era sola, maggiore, unica.
In fondo al grande salone era rizzato un teatrino, destinato per lo spettacolo. Tutta quella eletta schiera d'invitati, doveva dapprima assistere alla rappresentazione di una commedia ed a quella di una danza moresca; poi nelle sale si sarebbero intrecciate le danze sino all'alba. Ma la grande curiosità della rappresentazione era che gli attori per una moda venuta allora di Francia, appartenessero alla nobiltà. Donn'Anna Carafa di Medina disprezzava i facili costumi francesi che corrompevano la rigida corte spagnuola, ma scrutatrice dei cuori e apprezzatrice del favore popolare com'era, s'accorgeva che quelle molli usanze piacevano ed erano adottate con trasporto. Solo per questo ella aveva consentito che Donna Mercede de las Torres, sua nipote di Spagna, sostenesse una parte nella rappresentazione. Donna Mercede, giovane, bruna, dai grandi occhi lionati. dai neri capelli, le cui treccie le formavano un elmo sul capo, era una spagnuola vera. Ella rappresentava nella commedia la parte di schiava innamorata del suo padrone, una schiava che lo segue dappertutto, e lo serve fedelmente sino a fargli da mezzana d'amore, sino a morire per lui d'un colpo di pugnale, destinato al cavaliere da un padre crudele. Ella recitava con un trasporto, con un tal impeto, che tutta la sala si commuoveva, allo sventurato e non corrisposto amore della schiava Mirza: tutti si commuovevano salvo Gaetano di Casapesenna che recitava la parte del cavaliere, ed egli, freddo, indifferente, inconscio, non faceva che rimaner fedele al carattere che rappresentava. Solo, alla fine della commedia, quando la sventurata Mirza ferita a morte, s'accommiata con parole d'affetto da colui che fu la sua vita e la sua morte, allora, egli, cui appare finalmente la verità qual luce diffusa meridiana, preso dall'amore, s'abbandona in ginocchio dinanzi al corpo della poveretta morente e copre di baci quel volto pallido d'agonia. Invero, egli fu così focoso ditale slancio, così patetica ed improntata di dolore la sua voce, così disordinato ogni suo gesto, che veramente parve superiore ad ogni vero attore, e parve che la verità animasse il suo spirito, sino al punto che la sala intiera scoppiò in applausi.
Sola, sul suo trono, tra le sue gemme, sotto la sua corona ducale, Donn'Anna impallidiva mortalmente e si mordeva le labbra. Non era lei la più amata.
Le due donne s'incontravano nelle sale del palazzo Medina; si guardavano, Donna Mercede fremente di gelosia, l'occhio nero covante fuoco, smorta, rodendo un freno che la sua libera anima abborriva; Donna Anna, pallida di odio, muta nella sua collera; si guardavano, impassibile e fredda Donn'Anna; agitata e febbrile Donna Mercede. Scambiavano rade ed altere parole. Ma se la gelosia scoppiava irresistibile, l'ingiuria correva sul loro labbro:
Le donne di Spagna sono esse le prime, ad abbandonarsi all'amante - diceva Donn'Anna, con la sua voce dura e grave.
Le donne di Napoli si gloriano del numero degli amanti - rispondeva vivamente Donna Mercede.
Voi siete l'amante di Gaetano Casapesenna, Donna Mercede.
Voi lo foste, Donn'Anna.
Voi obbliaste ogni ritegno, ogni pudore, dandoci il vostro amore a spettacolo, Donna Mercede.
Voi tradiste il duca di Medina-Coeli, mio nobile zio, Donn'Anna Carafa.
Voi amate ancora Gaetano Casapesenna.
Voi anche lo amate ed egli non vi ama, Donn'Anna.
Vinceva la bollente spagnuola e Donn'Anna si consumava dalla rabbia. Ma egualmente l'odio glaciale della duchessa, contro cui si infrangeva ogni slancio di Donna Mercede, tormentava la spagnuola. Esse avevano nel cuore un orribile segreto; esse portavano nelle viscere il feroce serpente della gelosia, esse morivano ogni giorno di amore e di odio. Donn' Anna celava il suo spasimo, ma Donna Mercede lo rivelava nelle convulsioni del suo spirito e del suo corpo. La duchessa agonizzava, sorridendo; Donna Mercede agonizzava, piangendo e strappandosi i neri capelli. Fino a che ella scomparve d'un tratto dal palazzo Medina-Coeli e fu detto che presa da improvvisa vocazione religiosa, avesse desiderato la pace del convento e fu narrato del misticismo ond'era stata presa quell'anima, e delle lunghe eterne giornate, passate in ginocchio dinanzi al Sacramento, e del fervore della preghiera e delle lagrime ardenti: ma non fu detto né il convento, né il paese, né il regno, dove era il convento. Invano Gaetano di Casapesenna cercò Donna Mercede in Italia, in Francia, in Ispagna ed in Ungheria, invano si votò alla Madonna di Loreto, a San Giacomo di Compostella, invano pianse, pregò, supplicò. Mai più rivide la sua bella amante. Egli morì giovane, in battaglia, quale a cavaliere sventurato si conviene.
Altre feste seguirono nel palazzo Medina, altri omaggi salutarono la ricca e potente duchessa Donn'Anna; ma ella sedeva sul suo trono, con l'anima amareggiata di fiele, col cuore arido e solitario.
Quei fantasmi sono quelli degli amanti? O divini, divini fantasmi! Perché non possiamo anche noi, come voi, spasimare d'amore, anche dopo la morte?

 
 
 

Post N° 128

Post n°128 pubblicato il 16 Giugno 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

'O Munaciello & 'A Bella 'Mbriana
Senza dubbio 'O Munaciello e' il personaggio piu' nominato e piu' temuto dai napoletani. Questi rappresenta lo spiritello dispettoso e bizzarro che, con il suo imprevedibile comportamento, ne fa l'entita' piu' citata nelle leggende. Al comportamento dispettoso spesso si accompagnano benevoli "lasciti" in moneta contante. In questo caso non bisogna rivelare a nessuno l'episodio, pena l'accanimento del Munaciello nei nostri confronti. 
Vi sono due ipotesi sulla sua origine:
La prima ipotesi vuole l'inizio di tutta la vicenda intorno all'anno 1445 durante il regno Aragonese. La bella Caterinella Frezza, figlia di un ricco mercante di stoffe, si innamora del bel Stefano Mariconda, un garzone. Naturalmente l'amore tra i due e' fortemente contrastato. Il fato volle che finisse in tragedia. Stefano viene assassinato nel luogo dei loro incontri segreti mentre Caterinella si rinchiude in un convento. Di lì a pochi mesi nascerà un bambino da Caterinella. Le suore del convento lo adotteranno cucendogli loro stesse vestiti simili a quelli monacali con un cappuccio per mascherare le deformita' di cui il ragazzo soffriva. Fu così che per le strade di Napoli veniva chiamato " lu munaciello". Gli si attribuirono poteri magici fino ad arrivare alla leggenda che oggi tutti i napoletani conoscono. Anche lu munaciello morì misteriosamente.
La seconda ipotesi vuole che il Munaciello sia il gestore degli antichi pozzi d'acqua che, in molti casi, aveva facile accesso nella case passando attraverso i cunicoli che servivano a calare il secchio. I dispetti li faceva, secondo me, perche' i proprietari del pozzo non provvedevano a pagarlo per i suoi servizi.
Comunque resta il mistero di questo personaggio molto spesso associato alla parte cattiva dell'animo umano, al demonio che si nasconde e che e' sempre pronto ad afferrarci e che i napoletani cercano da sempre di evitare.
Il personaggio indicato come 'A Bella 'Mbriana, invece, rappresenta lo spirito benigno. E' una sorta di anti-munaciello. Avere questa presenza nelle case significa benessere e salute. E' rappresentata come una bella donna molto ben vestita paragonabile alla fata delle favole dei bambini. E' anche detta Meriana oppure 'Mmeriana.
La derivazione etimologica proviene dal latino meridiana il cui mariana indica l'ombra quasi a rappresentare un'ombra sotto cui ripararsi oppure indica il significato etereo dell'essere. A testimonianza dell'affetto dei napoletani verso questa figura, e' molto comune a Napoli il cognome Imbriani derivante, appunto, da 'Mbriana.
Ultimo dettaglio importante: nella casa bisogna sempre lasciare una sedia libera perche' potrebbe entrare 'A bella 'Mbriana e sedersi per riposare. Se tutte le sedie fossero occupate la nostra Amica potrebbe andare via con tutte le sciagure derivanti dalla mancata ospitalita'!

 
 
 

Post N° 127

Post n°127 pubblicato il 16 Giugno 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

iL buio è un concetto, una metafora, un'.esperienza.

Qualcosa di profondamente radicato nell'animo umano .

 Buio è una situazione primordiale: religione e astronomia ne hanno per così dire segnato il confine come limite estremo.

ma è anche e soprattutto  quella zona di confine fra interno ed esterno,che ha accompagnato la storia dell'umanità: la notte antica attraversata dai miti e quella medioevale;il buio dell'universo e quello delle città. 

All'origine Dio e l'universo si somigliano, lavorano sulla notte come due immensi artigiani.

Buio genera speranza di luce, ma anche inquietudine.

ma anche il buio della mente

Il silenzio ha ispirato filosofie, letterature, mistiche,retoriche, diffuse nostalgie.

Il buio, no. Stare zitti è un.aspirazione, chiudere gli occhi è una sconfitta. Nessuna religione né ideologia ingolosisce assicurando la protezionedelle tenebre. Al contrario: Fiat Lux! mehr Licht!

Il mondo è in mano ai suoi aspiranti lampionai:  lumi dell'intelletto,  idee chiare, barlumi in fondo al tunnel. 

Che farsene del buio? Al buio si può solo brancolare, e brancolare si può soltanto al buio. Eppure il buio mostra le stelle, propizia i desideri.

 I bambini sono i vigili del buio, i free climber della caligine perché come càpita con la montagna o il fuoco il buio è meglio praticato da chi più lo teme.

Il loro espediente è interessante:dal buio i bambini si proteggono andando ancor più sotto alle coperte, creando una nicchia oscura ma rassicurante dentro all'inquietante oscurità esterna. Raddoppiare il buio aiuta ad attraversarlo. E quando gli occhi sono ben serrati, sullo schermo cinematografico della palpebra la luce dei fosfeni . questi misteriosi led interiori , racconta una storia sempre nuova.

 
 
 

Post N° 126

Post n°126 pubblicato il 16 Giugno 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

buona giornata

 
 
 

Post N° 125

Post n°125 pubblicato il 16 Giugno 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

  Don chisciotte e Sancho panza

   una coppia immortale

  e, quattro secoli dopo essere

venuta al mondo dalla penna di

Cervantes, continua a cavalcare

senza tregua né sconforto. Nella

Mancia, in Aragona, in Catalogna,

in Europa, in America, nel mondo.

Sono ancora lì, che piova, che ruggisca

il tuono, che bruci il sole o

scintillino le stelle, nel grande silenzio

della notte polare, o nel deserto,

o nel mattino delle foreste,

discutendo, vedendo e capendo

cose diverse in tutto ciò che incontrano

e ascoltano, ma, pur tra tanti

dissensi, avendo sempre più bisogno

l’uno dell’altro, indissolubilmente

uniti in quella strana alleanza

del sonno e della veglia, del reale

e dell’ideale, della vita e della morte,

dello spirito e della carne, della

finzione e della vita. Nella storia letteraria

sono due figure inconfondibili,

una lunga ed aerea come un’ogiva

gotica e l’altra larga e tozza, come

il maialino portafortuna, due

atteggiamenti, due ambizioni, due

visioni. Ma esse si uniscono

e si fondono e sono «un’ombra sola

la  contraddittoria  affascinante

della condizione umana.

 
 
 

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