Creato da corsaramora il 24/05/2005
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Messaggi del 08/10/2005

Post N° 455

Post n°455 pubblicato il 08 Ottobre 2005 da corsaramora
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Già 1800 i morti accertati, 400 bambini uccisi dal crollo di due scuole

una magnitudo 7,6 della scala Richter ha colpito questa mattina verso le 8.50 (le 5.50 in Italia) la zona al confine tra l'India e il Pakistan
e anche ora ricordo quel 23 novembre del 1980

La sera del 23 novembre del 1980 una lunghissima scossa della durata di un minuto e venti secondi, di magnitudo 6,8 della scala Richter, rase al suolo 36 paesi situati al confine tra la Campania e la Basilicata. 2735 furono i morti, 8850 i feriti. Il disastro naturale fu di proporzioni gigantesche: il paesaggio aspro e bellissimo dell'Irpinia venne sfregiato dagli scuotimenti, ripetuti e dolorosi, della terra. Case inghiottite, viadotti spezzati, frane dappertutto. L'Italia si mosse come mai è capitato nella storia della Repubblica. Dall'estero l' aiuto si manifestò attraverso robusti assegni in dollari. Nella lista delle sottoscrizioni figurano, accanto agli Stati Uniti  e alla Germania , persino paesi come l'Iraq e l'Algeria 

 Da oltre frontiera giunsero quasi cinquecento miliardi. I morti però restarono sotto le travi spezzate delle misere abitazioni di montagna per giorni e giorni, in una confusione di ruoli e responsabilità che provocò la più dura delle denunce di un presidente della Repubblica sulle inefficienze dello Stato. Le parole di Sandro Pertini causarono la rimozione del prefetto di Avellino e la presentazione delle dimissioni, poi ritirate, del ministro dell'Interno dell'epoca. Nessun dubbio che quel filo che teneva unita l'Italia oggi si è spezzato. Perchè è successo? Cento quintali di documenti raccontano quegli anni. Un fiume di danaro (la commissione d'inchiesta stimò in 50.902 miliardi, ma nel corso del tempo la cifra è lievitata a 58.640 miliardi) si diresse verso un'area delimitata agli estremi dalle città di Napoli, Avellino Potenza e Salerno.

I comuni effettivamente colpiti erano relativamente pochi: qualche decina i disastrati, un centinaio i danneggiati in modo più o meno grave. Nel maggio dell'81 però un decreto dell'allora presidente del Consiglio Arnaldo Forlani classifica "gravemente danneggiati" (con un grado di distruzione dal 5 al 50 per cento del patrimonio edilizio) oltre 280 comuni: viene ricompresa tutta la provincia di Avellino, Napoli e la popolosissima area metropolitana, 55 comuni del salernitano, 34 del potentino. Risultano "gravemente danneggiati" anche 50 paesi in provincia di Benevento, 8 in provincia di Caserta, 9 in provincia di Matera. Sei mesi dopo, il disastro viene ulteriormente allargato sulla carta: altri 312 comuni sono considerati "danneggiati", 14 dei quali in Puglia, in provincia di Foggia. L'area colpita dal sisma muta ancora una volta: la punta più avanzata a nord diviene Teano, ai confini con il Lazio, la linea si chiude a sud con Sapri, sul golfo di Policastro, e a est con Ferrandina, nella piana che finisce sullo Jonio. Entrare o meno nella lista significa soprattutto essere o no destinatari di sontuosi contributi statali. Due intere regioni, la Campania e la Basilicata, e un pezzetto di una terza, la Puglia, risultano "terremotate": in totale i comuni ammessi alle provvidenze sono 687.

La corsa verso la ricostruzione inizia male, il piede inciampa al primo passo. Non è solo questione di rispetto della verità o di soldi. Alcuni sindaci spiegano che sono quasi stati "costretti" a chiedere che il loro municipio venisse incluso nella lista.

E' stato il governo a riconoscere per primo che il "gonfiamento" del numero dei terremotati è stata la causa di un gonfiamento a dismisura della spesa. L'allora presidente del Consiglio Ciriaco De Mita ammise in Parlamento "il deteriore fenomeno del progressivo allargamento dell'area geografica originaria in cui si è verificata la sciagura". "Accade infatti - spiegò - che le pressioni politiche e sociali, che si appuntano sui governi e sul Parlamento conducano a successivi allargamenti dei comuni beneficiari delle provvidenze disposte dalle leggi di emergenza. In tal modo la ricognizione geografica dei disastri naturali risulta diversa dai reali confini della zona colpita. Sarebbe estremamente facile - concluse De Mita - andare a rileggere in atti parlamentari e in dichiarazioni ufficiali, le posizioni di persone e partiti. I nomi di quelli favorevoli, nel 1980, all'allargamento dell'area di intervento e di quelli che capivano invece che la delimitazione geografica avrebbe reso più efficace l'azione, oltre a rispettare la verità naturale dei fatti". Quella verità non fu dunque rispettata. In effetti il sisma danneggiò in misura più o meno grave 100mila abitazioni. Nove anni fa le case da "riparare" o da "ricostruire", già finanziate dal governo, erano 146mila. Era stata decisa la ricostruzione di 31.542 abitazioni nei comuni classificati disastrati, tremila in più delle case precedentemente dichiarate distrutte o gravemente danneggiate (28.274). E nei centri classificati "gravemente danneggiati" o solamente "danneggiati" il finanziamento statale aveva permesso l'edificazione di 115.121 abitazioni, quasi il doppio di quelle (69.140) dichiarate distrutte, gravemente danneggiate o soltanto lesionate.

Il groviglio inestricabile di leggi e leggine che a vario titolo hanno regolamentato l'opera di ricostruzione ha oggettivamente favorito una richiesta di investimenti sproporzionata alla realtà dei fatti. Il Parlamento ha sfornato trentadue provvedimenti legislativi. Alcuni hanno finito per stravolgere la prima, organica legge-quadro. E' la legge 219 e risale al 1981: essa è esssenzialmente una legge di "refusione del danno". Chi ha perso la casa ottiene di vedersela ricostruita dallo Stato. Punto. Ma a Montecitorio e a palazzo Madama si fa presto a formare uno schieramento trasversale - parte dalla Dc e arriva al Pci - che un bel libro di Isaia Sales definisce il "partito degli occasionisti". "Esso - si legge - è erede di quella cultura che per secoli ha governato con il teorema: grandi calamità, leggi speciali, ciclo edilizio e controllo politico su tutto. Gli occasionisti a loro volta si dividono in due correnti: quelli che considerano le emergenze naturali o artificiali un canale privilegiato di trasferimento di risorse pubbliche sulla base del principio che il Sud deve essere "risarcito" attraverso forme di integrazioni di reddito; e quelli che ritengono che le tragedie o le emergenze possono rappresentare "occasioni" di sviluppo".

Il partito trasversale, tutto meridionale, è guidato da esponenti di primo piano della classe dirigente nazionale: ci sono i democristiani De Mita, Gava, Scotti, Cirino Pomicino, De Vito e Fantini, i socialisti Conte e Di Donato, il liberale De Lorenzo, tutto (o quasi) il potente gruppo del Pci napoletano. Alberta De Simone, una deputata irpina che ha vissuto quei giorni nel municipio di Atripalda, ricorda: "Ho chiesto ai governanti dell'epoca perchè si mise insieme, nella legge, l'area del disastro con zone dove il danno fu assai più modesto, come Napoli. Mi è stato spiegato che per noi, che non eravamo il Mezzogiorno ma "l'osso" del Mezzogiorno, la parte più interna, più povera, meno popolata, proprio l'aggiunta dei problemi di Napoli fece diventare la questione davvero di interesse politico nazionale. In altri termini, non bastavano i nostri morti per avere tutte le provvidenze necessarie! La più grande ingiustizia è stata poi "targare" le pagine nere con il nome di Irpiniagate". Dopo la legge 219, che pure prevedeva forti investimenti per l'industrializzazione delle zone di montagna, viene approvata nell'84 la legge 80. Padrino politico è il senatore Salverino De Vito, avellinese come De Mita, a quel tempo ministro per il Mezzogiorno. De Vito lavora in tandem con il socialista Carmelo Conte, salernitano. La legge è destinata a sconvolgere il precedente quadro di riferimento. La richiesta per il contributo di ricostruzione diventa proponibile non soltanto dal capofamiglia. Anche i figli, "discendenti in linea retta", sono ammessi al contributo. Fin troppo facile prevedere la moltiplicazione delle domande. E delle case. E' una vera cuccagna che fa la fortuna di una categoria: i tecnici progettisti. I quali, spesso, sono gli stessi chiamati dai sindaci a costituire le commissioni comunali che devono verificare l' ammissibilità del contributo. Ogni domanda che passa l'esame significa l'ottenimento di sontuose parcelle professionali. Per ogni progetto ingegneri, architetti e geometri ottengono una compenso che mediamente si aggira sul venti per cento dell'intero importo. E un contributo, è sempre una media, non è mai inferiore ai 120 milioni.

Ora è forse più facile capire perchè dopo vent'anni e dopo 150 mila abitazioni ricostruite, ci sia ancora qualche migliaio di persone, le più disgraziate, costrette a vivere nelle baracche. Oggi il Parlamento nega a questa gente il dovuto. Il marchio dell'infamia questa volta ha sfregiato gli innocenti.

 
 
 

Post N° 454

Post n°454 pubblicato il 08 Ottobre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

A seconda delle occasioni le irachene sono state raccontate in questi anni come "le vere resistenti", la spina dorsale di un paese allo sbando o al contrario come le principali vittime, prostrate dall'interminabile sequela di guerre, embarghi e occupazione, dai lutti familiari, dalla povertà e dall'insicurezza. "C'è qualcosa di vero in tutte e due le descrizioni, perché la nostra vita è così schizofrenica e paradossale da poter essere raccontata dai più diversi punti di vista", dice Hayat, 35 anni e tre figli da mantenere dopo che il marito è rimasto ucciso in una sparatoria degli americani contro un sospetto terrorista. È in qualche modo un'eroina della quotidianità Hayat che lavora saltuariamente come traduttrice per una televisione americana, ma non lo confessa neanche a sua madre per paura di diventare un bersaglio degli islamisti. Che bene o male riesce a mandare avanti la casa anche se la corrente elettrica funziona a malapena per quattro, cinque ore al giorno e se sono diventati quasi un lusso i ceci e le lenticchie, prima il cibo dei poveri. Già, prima.

Fino a qualche anno fa Hayat era impiegata in un ministero, da cui era stata licenziata come tante altre con le ristrettezze dell'embargo. Fino a qualche anno fa non era costretta a velarsi per uscire, perché nessun imam la minacciava, non doveva guardarsi alle spalle per la paura di essere rapita dal racket dei sequestri ("Chi mai potrebbe pagare il mio riscatto, nella condizione di quasi miseria?"). E nemmeno diffidava di qualunque maschio si trovasse vicino, perché allora erano piuttosto rari gli stupri, oggi aumentati vertiginosamente.

È difficile credere che la nuova Costituzione appena presentata a Baghdad, che dovrà essere approvata dal Parlamento e poi confermata in una consultazione popolare, potrà cambiare molte cose, almeno in tempi brevi, nella vita aggrovigliata di Hayat e delle altre irachene (10 milioni, il 54 per cento della popolazione). È vero che le più attente e politicizzate hanno tirato un sospiro di sollievo vedendo che è stata respinta la richiesta degli sciiti di fare dell'Iraq una 'Repubblica islamica', sulle orme del vicino Iran. Ma è anche vero che, dopo aver affermato che la legislazione dovrà rispettare i principi democratici, la nuova Costituzione vieta a qualsiasi legge di contraddire "a principi e norme dell'Islam": che come è noto non vanno in genere d'accordo con la parità dei sessi e il rispetto dei diritti individuali. Un bel rebus secondo Massimo Papa, docente di Diritto musulmano a Bologna, lo studioso che ha partecipato per l'Onu alla ricostruzione del sistema giuridico afgano. "Quando questa contraddizione verrà calata dal cielo dei principi alla concretezza delle norme positive si dovrà ogni volta operare una scelta fra regole che fanno a pugni fra di loro. La soluzione dipenderà dagli assetti politici e dai rapporti di forza", dice Papa. Questa contraddizione è presente anche nella costituzione afgana. Ma ci sono anni luce di distanza fra l'ex paese dei talebani e l'Iraq, dove dal lontano 1959 il diritto di famiglia non era più regolato dalla sharia, ma da uno Statuto personale considerato come una delle leggi più avanzate del Medio Oriente. E questo può forse spiegare perché, dopo la caduta di Saddam, nel caos iracheno siano fiorite centinaia di associazioni femminili che in questi due anni si sono battute con tutte le loro forze per i diritti delle donne, non solo nell'ambito della famiglia e del matrimonio, ma anche sul terreno del lavoro, dell'istruzione, della libertà di movimento.

Non si può dire che abbiano una vita facile. Quasi subito si erano trovate contro l'establishment sciita, che del ritorno a un diritto di famiglia islamico aveva fatto il suo cavallo di battaglia; per non parlare dell'estremismo sunnita, portato a identificare la libertà femminile con l'odiato modello americano. E le conseguenze sono state pesanti. Fra le prime a pagare con la vita il suo impegno egualitario c'era stata Hamal Malmachi, una delle esponenti dell'Iraqi Women's Network, una rete che raccoglie molte decine di gruppi femministi. E poi è toccato a esponenti politiche come Akila al Hachimi e, pochi mesi fa, alla deputata Lamea Kaddouri. Sono state assassinate militanti per i diritti umani, giornaliste come Raida al Wazan, la conduttrice di Ninive Tv, ma anche donne che avevano come sola colpa quella di lavorare fuori casa, di truccarsi e di vestirsi all'ultima moda. Anche un rapporto di Amnesty del febbraio scorso sottolinea la crescita della violenza nei confronti delle donne e il fatto che, in questo clima, molte cercano di uscire il meno possibile da casa, arrivando a rinunciare al lavoro e addirittura all'istruzione. Le associazioni femminili parlano con preoccupazione crescente dei tentativi degli integralisti di islamizzare le università, intimidendo i professori laici (molti scelgono di andarsene all'estero) e minacciando le ragazze che si presentano in aula a capo scoperto. "Quando qualche tempo fa sono stata a Bassora, mi sono chiesta se questo paese, dove le donne sembrano uccelli in gabbia, fosse ancora il mio paese", dice Nazeen Rashid, da vent'anni militante nei gruppi di difesa delle donne. Nella grande città sciita del Sud si può perdere la vita anche solo prendendo parte a un picnic. È successo a un gruppo di studenti della locale università, che si erano sistemati con le loro compagne sui prati del parco pubblico e sono stati aggrediti da una cinquantina di miliziani di Moqtada al Sadr, sotto gli occhi della polizia locale che non ha mosso un dito. Come risultato, due ragazzi e una ragazza morti, mentre un'altra è rimasta cieca e i feriti si contano a decine.

Ma c'è anche una novità sottilmente inquietante in questo Iraq stretto nella tenaglia del terrorismo e dell'occupazione americana, ed è la comparsa sulla scena di un movimento femminile pro sharia. È difficile misurarne la portata, anche perché da sondaggi recenti viene fuori che la grande maggioranza delle irachene sono a favore dei diritti civili, a cominciare dall'istruzione e dal lavoro.

Eppure, da quando sulle piazze di Baghdad, a fronteggiare le manifestazioni femministe sono comparsi i neri fantasmi delle donne coperte fino agli occhi dalla abaya sciita a gridare "No all'eguaglianza assoluta" e "No ai matrimoni fra deviati omosessuali", è cominciato a serpeggiare un certo malessere. Paradossalmente è dopo le elezioni di gennaio e l'ingresso in Parlamento del 31 per cento di donne, una quota superiore a quella che era stata stabilita per legge in seguito alle insistenze degli americani, che ha preso voce questo inedito antifemminismo. Una delle portavoce è Jenan Al-Ubaedey, una pediatra eletta in uno dei due partiti sciiti, che ha presentato una proposta di legge per far tornare legale la poligamia e un'altra per negare alle donne la custodia dei figli maschi in caso di divorzio, perché "non sono io che mi sono inventata questa legge, è Dio che l'ha decisa e noi non possiamo permetterci di ignorarla". Non contenta, Jenan ha sostenuto che, "dato che è impossibile chiedere a un uomo di non usare la sua forza contro una donna, diciamo che un marito può picchiare la moglie, ma deve stare attento a non lasciarle dei segni. Solo se lo fa potrà essere punito". La sua non è certo una posizione isolata fra le 45 parlamentari dell'Alleanza Unita Irachena sostenuta dal clero. E infatti qualcuno ha cominciato ad avanzare l'idea che le quote abbiano in realtà funzionato contro i diritti femminili, dato che i maschi sciiti hanno riempito le liste di donne come la pediatra Jenan.

Di fronte al montare di queste tendenze le femministe laiche cercano di usare la ragione. "Secondo la nostra interpretazione questa è una realtà assolutamente minoritaria e perdipiù pilotata dall'esterno, dagli sciiti dell'Iran a cui i nostri sono strettamente legati", dice Shirouk al-Abaychi, ingegnera di 47 anni, tra le leader dell'Iraqi Women's Network. Hanaa Edward, un' ex comunista sfuggita per miracolo alla persecuzione di Saddam e tornata da due anni in Iraq, dove guida l'associazione umanitaria Al-Amal è più perentoria: "Credo che quelle che chiedono la sharia lo facciano perché non sanno di che cosa si parla, perché non hanno chiaro in testa che cosa vuol dire per una donna perdere i suoi diritti

 
 
 

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