Creato da lavocecelata il 28/06/2007
nel confessionale delle nuvole

 

« MélanieBrusìi  »

 Dadi lanciati

Post n°18 pubblicato il 28 Giugno 2007 da lavocecelata

 

 

Non gli parlò male di suo marito.
Aprendo la vestaglia gli mostrò la cicatrice viola che tagliava il suo basso ventre.
Manrico lentamente le passò la punta dell’indice sulla linea sottile che invece di deturparla la rendeva ancora più bella, ai suoi occhi.
- Anche lui correva in auto.Andava come un pazzo.Mi svegliai in ospedale
ed il mio primo pensiero fu per il bambino che tenevo in grembo.Non c’era più.Mi era stato tolto.Qualcosa si era rotto, tra di noi.Non riuscivo a togliermi dalla mente il mio bambino.Trascuravo mio marito.Mi disturbava anche la sua presenza, a volte.Per un po’ di tempo lui resse.Ci provò.Era pieno di sensi di colpa ma ci provò lo stesso.
Non potevamo più vivere insieme.Quella disgrazia era sempre tra di noi.
Ci siamo separati di comune accordo.-
Restarono in silenzio.
C’è ben poco da dire in certi casi.C’est la vie, dicono i francesi.Nessuno può prendere alla leggera i rischi della vita, che a volte vengono attratti dalla felicità come se ci fosse una vendetta da parte del dolore, per esser stato messo in disparte.

Verrebbe da pensare di non essere felici davvero, di mentire anche a noi stessi se lo si è, negare la felicità per il timore che il dolore, sempre in agguato, non ti colga alla sprovvista e ti macelli la mente ed il corpo, con coltellate e staffilate, tanto per farti sapere che nella vita la felicità dev’essere un’occasionale rarità e non la regola.
Ma chi è pronto a negarselo, un attimo, anche un solo attimo di felicità?Solo chi ha sofferto davvero sa come gestire la felicità, come assaporarla, come delicatamente chiuderla tra le mani e tenerla stretta, segreta e al caldo; sa che un attimo non è niente, che si può anche lasciarlo perdere.Quel che conta davvero è la felicità coltivata e duratura, che si è cibata d’amore, e nell’amore è cresciuta, che ci accompagna nel tempo dei ricordi, ed a lei ci attacchiamo, naufraghi della vita, quando nelle notti fredde dell’anima, e la solitudine come una cappa nera ti avvolge e ti umilia, e tu, povera creatura inutile, solitaria ed avvilita, sei davanti alla voragine, e non ci sono più posti al mondo, quando non c’è più davvero un cazzo di posto in questo tristissimo mondo dove valga la pena di vivere.

Non fu una domanda.

Manrico cercò gli occhi di Mélanie che li affondò nei suoi.
- Facciamo l’amore, Mélanie. -
Un po’ tristi e appassionati, le anime dolenti ed i corpi tremanti si presero tra le braccia, mentre la luce del sole mattutino filtrando tra le veneziane illuminava a strisce abbaglianti il soggiorno.Ma non era per colpa dei raggi del sole che tenevano gli occhi chiusi.Le loro anime stavano cercandosi e quelle si cercano meglio così, guardandosi dentro.

L’esistenza?Un rebus a sei facce, dadi che vengono lanciati sul tappeto rosso-mistero tessuto dai destini incrociati.Enigmi  irrisolvibili in alcun modo, esperimenti senza la controprova scientifica, equazioni impossibili.

Discese nel profondo dell’anima, se ce l’hai.

Giochi perversi e passatempi superficiali, se non ce l’hai.

Nel luogo ottico dove si scoprono le verità, laddove due dadi hanno dato la stessa figura, un punto solitario, isolato.Gemello.
Due assi.
”Le jeux sont faits.”


Lentamente Mélanie sbatté le lunghe ciglia.

- Vorrei qualcosa da bere, andiamo in cucina. –

Si erano rivestiti, di colpo resi pudici dal sole che li illuminava ed ancora incerti di quel che insieme avevano vissuto.
Manrico a quel tono di voce si eccitò di nuovo.Vedendola così, con un’erezione che gli premeva nei jeans capì cos’era che aveva cercato sempre nelle donne.

- Certo, Mélanie. -
Lasciando il soggiorno, lui cercò di prenderle il braccio , solo per poterla toccare.
Lei si scansò.

- Non toccarmi, ti prego. – ed inspirò forte, come se volesse controllare un tremito.
Manrico fantasticò di infilarle la mano sotto la vestaglia, infilarle la lingua in quella sua bocca, morderle il collo.
Lei era appoggiata al frigo, teneva il bicchiere con entrambe le mani ed ora ridacchiava.
Bevvero avidamente un vinello secco e frizzante.
- Mio padre era un uomo ricco, sai? –

- Buon per te- gli rispose Manrico, - il mio era un contadino.-
- E’ morto lasciando tutto ad una donna giovane. –

- Non stimi molto gli uomini, vero? -
- Dovrei? -
- Però li usi.Usi anche me? –
- Versami ancora del vino e mi spoglierò di nuovo.-
 Manrico alzò gli occhi verso un calendario.Chissà che giorno era.

Aveva perso il conto dei giorni.C’era scritto gennaio 1970.Chissà se nel suo futuro ciò che stava vivendo sarebbe stato degno di ‘rimembranza’.Suppose di sì: non stava dal dentista, e nemmeno implotonato davanti alla bandiera sul presentat’arm.Aveva la testa vuota  e tremava da capo a piedi.
Versò parte del vino nel lavandino, ma riuscì a farlo, in qualche modo, senza guardarla.Quando si voltò per poco il bicchiere non gli cadde di mano.

Era ancora appoggiata al frigo, ma adesso la vestaglia turchese si trovava sul pavimento, il suo seno, libero e sfacciato ed orgoglioso mostrava i capezzoli gonfi e stava indugiando con i pollici all’altezza degli slip dello stesso colore, mentre lui era rimasto lì, con la bottiglia del vino in mano.
- Posa il bicchiere là sopra. – Lo guardò come se avesse avuto un ricordo improvviso.
- Sai, Manrico..assomigli a mio padre, ce lo rivedo, in te. -
- Davvero? – rispose lui, in modo appena percettibile.Il tremito gli sparì, ma non l’erezione.Iniziò a sbottonarsi i jeans.

- Me lo ricordo, quando era giovane ed io ero piccola.Era ombroso, ma aveva il tuo  stesso sguardo bruciante. -
- Togliti gli slip, Mélanie.L’amore trova sempre un modo. -
- Sì.- rispose lei, mentre piegava il corpo in avanti per togliersi gli slip, sparendo per un attimo dietro i lunghi capelli. – Sì.Dimmelo ancora
. -


 

 
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