elefanTina

elefantino


Andai allo zoo per un servizio fotografico. Il custode mi accompagnò al recinto e me la mostrò:
“Lei è Tina”, mi disse indicandomi l’elefantina.
“Tina immagino sia il diminutivo di elefantina”, gli dissi.
“Infatti”
“Gran fantasia”, pensai. “Quello è il padre?”
“Sì e l’altra è la mamma”.
“Quand’è nata?”
“Lunedì alle 15”.
“Quindi ha quattro giorni. Lei ha assistito al parto?”, gli chiesi.
Il custode annuì. Credo avesse anche lui la mia età. Fra gli 80 e 90 anni.
Scattai qualche foto a lui, altre a Tina e famiglia e andai via. A casa, le scaricai sul pc, selezionai quelle che mi sembravano le migliori per farne una storia. Qualche ritocco. Nel pomeriggio avevo finito e le spedii. Restai al pc e cercai le foto dell’ultimo compleanno che avevo festeggiato, i miei 80 anni. C’erano tutti. I miei genitori ed i miei amici. Ero andato a rivedere quelle foto non per la festa, ma per lei, Caterina. Non la conoscevo, era venuta assieme ad amici miei e, fra saluti e abbracci, nemmeno me l’avevano presentata. Era in terrazza e fui io a portarle una flute di spumante ed una fetta di torta.
“Non ci hanno presentati, io sono Arien”, le dissi.
“Eh sì, lo so, tu sei il festeggiato. Io sono Caterina, piacere. Io li ho festeggiati tre anni fa, così non ti metto in imbarazzo a chiedermelo”, e dilatò le labbra in un sorriso di quelli che avvicinano. Prese lo spumante, ma la torta… “Quella no, sono a dieta, guarda” e fece un giro su se stessa. Aveva davvero una linea impeccabile. Era anche bella ma, la sua vera bellezza era in quel suo essere. Aveva questi suoi modi che la rendevano affascinante.
“Ho visto che sei venuta con Andrea e Vittorio. E’ un po’ che non mi vedevo con loro ed ho fatto male, mi sono perso qualcosa.”
“Non so… forse stai guardando il bicchiere mezzo vuoto”, e ne fece un sorso.
Parlavamo da un po’. Arrivò Vittorio.
“Arien noi dovremmo andare, è stata una festa bellissima. Ancora auguri”, bacio scambievole. Anche Andrea mi rinnovò gli auguri e disse a Caterina: “Andiamo?”
Scambio di baci, anche con Caterina che mi rinnovò gli auguri dicendo “devo, altrimenti resto a piedi”.
“Se l’impedimento è solo questo, ti accompagno io dopo.”
“Non ne ho altri.”
“Allora resta.”
“Glielo dico”, e raggiunse Andrea e Vittorio.
Due ore dopo, gli ultimi saluti.
“Da questo momento, la vita è solo nostra”, dissi a Caterina chiudendo la porta sorridendo. Nemmeno Nostradamus avrebbe fatto una previsione così azzeccata perché la vita fu solo nostra per altri quattro anni. Avevo chiuso il mondo fuori. Chiuso, ma non escluso. Il mondo c’era, ma non interferiva. Fuori dal lavoro lei ed io eravamo sempre e solo un noi. Concedevamo solo al lavoro di separarci. Un’apnea per poi tornare a respirare sempre assieme. La necessità l’uno dell’altra che certifica l’esclusività. L’amore che non ha bisogno di day hospital per controllarne i valori. Quando nel bel mezzo di una riunione di lavoro dici:
“Scusate solo un minuto”, ti alzi. Ti allontani fuori la porta. Non le mandi un messaggio ma la chiami solo per dirle “ti amo”, e torni in riunione e nell’agenda non devi cancellare nessun “ricordati di dirle ti amo”, perché non te lo dovevi appuntare. Come pisciare appena sveglio o lavarti i denti o fare la doccia. Non sono regole, ma necessità. E lei lo era. Come quando, dopo un veloce spuntino al bar, la baciavo, sempre in bocca, e le dicevo “adesso devo andare”. E lei “dove?”, “al lavoro amore”, e lei “perché?”. Domande e risposte di dialoghi banali o, forse, quel tempo che, quando ami, è sempre poco. Quel tempo che nell’aritmetica dell’amore è sottrazione. Quell’amore che non era dirselo ma farselo. Sempre anche nei suoi giorni. Tranne quella sera del mio compleanno, non abbiamo mai fatto sesso. Era sempre amore. Forse, senza saperlo, anche quella prima volta fu già amore. Quattro anni. Quattro giorni prima, arrivò da me. Mi prese per mano, chiuse la porta alle spalle. Aveva gli occhi liquidi: “sono incinta”. Rimasi impalato come un cretino. M’infilò le dita nei capelli. Le mani aperte sulle guance. Baciava Big Jim. Ero un  pupazzo. “Ti amo”, e mi baciava. Lo facemmo prima in cucina e poi a letto, dopo andammo a cena fuori. Ordinava lei per me. Non ho mai mangiato tante proteine e peperoncino. E a casa, ancora.
Quattro giorni dopo, lei non c’era più. Uno scontro frontale.

Iniziò tutto settant’anni prima, in India. Alcuni casi e la medicina impreparata. Divenne epidemia e coinvolse tutto il pianeta. Una proteina che si trasferì dagli elefanti all’uomo e fu chiamata “elefantina”. L’inizio di una nuova umanità. Non cambiò nulla o, forse, tutto. Difficile dirlo. Le conseguenze furono solo tre. La proteina modificò il DNA dell’individuo allungandogli la vita di più del doppio; la seconda conseguenza fu solo estetica. La cartilagine superiore dell’orecchio umano divenne più grande ripiegandosi di poco verso il basso. Un cambiamento appena imbarazzante ma, alla fine, ci siamo abituati. In fondo, meglio l’orecchio che il naso e, poi, quel risvolto non ci abbruttiva, ma faceva tenerezza. La terza conseguenza fu che la mortalità avveniva soprattutto per noia. Come una rinuncia spontanea a vivere quando ormai ne avevi le palle piene. Accadde anche a me, ma non per noia.

elefanTinaultima modifica: 2019-06-14T14:01:50+02:00da arienpassant

13 pensieri riguardo “elefanTina”

  1. Se potessi, cancellerei dal testo un solo verbo, quel verbo che ricorre spesso nei tuoi racconti, e che per la mia sensibilità è disturbante. Ma l’insieme è perfetto: pathos, evoluzione, amore, morte. P.S. Di cosa è morto Arien? d’amore?

  2. Meglio così?
    Non so se si può dire che sia morto d’amore perché è morto d’insignificanza ovvero quando l’amore è totalizzante, ma non nel senso peggiore ovvero quando diventa dipendenza, ma quando diventa totalizzante e tutto il resto, pur restando importante, non ha più significato non potendolo condividere con chi ami. E’ lo scalino successivo, quello in cui l’ego diventa un duo.

  3. C’è un fraintendimento, non ho detto che il finale andava riscritto, ho solo chiesto cosa avesse portato “Arien” alla morte perché non l’avevo capito, tutt’al più posso dire di averlo intuito confusamente, e percio’ chiedevo lumi all’autore del post. 🙂

  4. Evvaiiii, finalmente la letteratura si decide a smetterla di discriminare Maslow, lo psicologo che ordinò in modo piramidale i bisogni dell’individuo e lo fece mettendo alla base della piramide quei bisogni primari che, a differenza di fame e sete, venivano elencati comunque in un “eccetera” pur di non chiamarli col loro nome ovvero “pisciare” e “cagare”. Ci sono voluti 70 anni perché due necessità come quelle potessimo chiamarle col loro nome. Due necessità che, quando passano dal pannolino alle mutande, fanno diventare la letteratura schizzinosa, e non è giusto :))

  5. Comunque resto del parere che in uno scritto femminile non lo tollererei; se dovessi essere costretta ad usare quei termini, sono certa che riuscirei a rendere l’idea senza essere così volgare. “Defecare”, obtorto collo, sarebbe un compromesso accettabile, anche se mi rendo conto che a livello narrativo non renderebbe 🙂

  6. E come faccio a non concordare con te perché in quello che dici c’entra poco la letteratura ma molto quello che siamo. Intanto, messa da parte l’eleganza, maschio e femmina sono diversi tanto nel costrutto mentale quanto nel linguaggio e nelle manifestazioni di rabbia. Vale nel fanculare, nel mandare a cagare o nell’uso della bestemmia. Nella letteratura, quindi, credo che debba considerarsi realistico l’utilizzo maschile di terminologie che fanno parte della sua quotidianità altrimenti, almeno in certi contesti narrativi, il linguaggio, non sarebbe realistico. Così come il “cazzo” usato anche come banale rafforzativo.
    Allo stesso modo, sempre in trasposizione letteraria, sarebbe poco realistico far parlare la donna con il linguaggio maschile. Vale per il linguaggio ma anche per il modo di camminare, di sedere, di muovere le mani.
    Ciò non toglie che certi termini siano un obbligo letterario, però, non debbono nemmeno essere considerati negativi quando sono più realistici in uno specifico contesto letterario.
    p.s.: A mio parere “defecare” sarebbe orrendo. Una donna direbbe “scusa, faccio prima cacca e poi usciamo” :)))
    Io alla mia lei? Direi uguale.

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