pand’ori

La sua era solo omonimia ed anche il vaso era solo una casualità. Quel vaso che, per lei, aveva un enorme valore affettivo perché era come la nostra canzone ovvero quella che diventa l’avatar di un amore. Anche per lui si trattava solo di omonimia ed il fatto che fosse un uomo molto dolce era solo un’affinità casuale. Pandora e Pandoro, convivevano in modo occasionale ma molto frequente. Lui aveva un laboratorio nel quale riparava le cose più diverse e stravaganti, ed entrarci ti faceva star bene. Quegli oggetti avevano un loro respiro ed erano pieni dell’amore reciproco che poi è quello bello proprio perché non riesci, fortunatamente, a stabilire se è più quello che ti da o più quello che ti prende. L’amore reciproco non fa bilanci perché non riesce a farli. Nell’amore reciproco non ci sono scuse e non ci sono perdoni.
Pandora amava l’autunno. Diceva che era la primavera dell’inverno ed avrebbe continuato ad amarlo anche se fu proprio d’autunno che il suo vaso si ruppe. Pianse. Pandoro ne raccolse i frammenti.
“Guarda”, le disse con orgoglio giorni dopo mostrandole il vaso. Lei lo guardò. Nemmeno il più piccolo segno. Lo sfiorò piano, in ogni parte, cercando di sentire sotto le dita anche la più piccola cicatrice. Nulla. Era tornato come prima. Lo prese e lo rimise al suo posto. Guardò Pandoro che abbassò gli occhi. Spostò il vaso. Gli cambiò posto. Guardò Pandoro che abbassò ancora gli occhi. Spostò di nuovo il vaso, cambiandogli ancora posto. Come un estraneo entrato in casa tua. Come tuo e tua quando non hanno più lo stesso significato.

Port-Royal

kand

Tornai e pensai che ogni volta che mi trovo davanti ad un Kandisky, qualunque sia, mi vengono in mente queste parole:

La logica di Port-Royal si caratterizza, contro ogni nominalismo, per un orientamento funzionalista: tema principale infatti non sono i nomi o i segni, ma le modalità con cui la mente opera i collegamenti fra i vari nomi“.

Ed ogni volta, estasiato, dico dentro di me che non c’ho capito un cazzo. Vale per Kandisky come per Port-Royal, ma non c’è cruccio in me, tant’è che accarezzo la mia ignoranza e, per rassicurarla, magari leccandola nella sottile piega fra l’inguine e la coscia, le dico “dai, mica puoi sapere tutto”. E forse sbaglio, perché lei, travisando quel “mica puoi sapere tutto”, trasforma un limite in presunzione. Devo accettarlo, in fondo, è ignorante. Quanto me. L’importante è averla tranquillizzata. Tante volte una carezza e poche parole sono quella sintesi che addolcisce tutto e se non riesci, con la lingua, a seguire quella piega e un poco poco sbandi, ti si perdona. Quella sintesi che, in tutte le sue forme, è una delle più belle cose che esistano. Quando non è eiaculazione precoce.

aferesi

Fu in quei giorni di bisturi e paure – dove l’unica libertà concessagli dal corpo era quella di riempire il tempo incasellando lettere in rettangoli senza schema – quelli in cui scoprì che il dizionario ha una risposta ad ogni domanda e, volendo lavorare per affinità e similitudini, fornisce un termine assimilabile ad ogni comportamento o avvenimento della nostra vita.
Ad esempio, si chiama aferesi quel togliere una parte al tutto senza cambiarne il risultato.
Poggiò la testa sul cuscino e chiuse gli occhi.
“Ma non sempre è aferesi”, pensò, “perché Pia col suo giardino non era uguale a lei senza di esso. In termini di reciprocità, il risultato cambiava. Un’aferesi classica è dire “sta” al posto di “questa”. Come un diminutivo che nulla toglie alla sua origine. Aferesi era anche, a volte, quel suo parlar di sé saltando alcune parti. Non era averle rimosse o cancellate. Le saltava e basta. Come la discrezione o l’eleganza di chi racconta della propria giornata evitando di dire se abbia cagato o meno. Aferesi quindi non definiva mai qualcosa d’incompiuto”.
Si addormentò chiedendosi quale fosse il termine che definisse l’assenza tipo quella del giardino. Ripensando al bisturi fece in fretta a pensare a “cicatrice”. Un po’ banale, come il suo vocabolario, ma il sonno non gli concesse altro spazio e tempo. Prima o poi, come l’aferesi, gli sarebbe capitata casualmente fra le mani la parola giusta. Dormì.