La ciliegina sulla torta

Non compro più i libri a scatola chiusa, neppure se recensiti con toni  entusiastici: d’obbligo una sbirciatina all’anteprima per procedere all’acquisto senza mettere in conto pentimenti. Non che abbia perso la voglia di avventurarmi in libreria: avere il mondo letteralmente a portata di mano è un privilegio che entra di diritto nel filone minima spesa massima resa. Diciamo che non ho più le forze di un tempo per cui devo fare economia su quelle residue.

Nei postprandiali a base di minuti rubati al dovere accade – mentre faccio le pulci ad articoli di critica letteraria scritti da persone con background culturali tali da trasformarmi all’istante nell’epigono del ministro Sangiuliano se malauguratamente si paragonasse ai loro il mio – dicevo, accade che mi venga suggerito un titolo che visualizzo come una torta di fragole e panna, la quale avrebbe ragione del mio buon senso se solo mi si parasse davanti. E così, mentre mi figuro di pregustarne il sapore, in sottofondo sento come un tintinnare di bicchieri conseguente all’incontro con l’altra me, quella sempre pronta a celebrare la valenza di un narrato, al punto che, se la torta non avesse già la sua bella cascata di fragole, lei ne impreziosirebbe la candida spumosità con una sola ciliegina rossa. Una come questa:

La parte peggiore di avere una malattia mentale è che le persone si aspettano che ti comporti come se non l’avessi.

Joker di Todd Phillips (2019)

Sono le tre del pomeriggio di un giorno di marzo, di un anno in cui ogni mattina ho pensato di farmi del male.

Le medicine che prendo al risveglio fanno effetto verso l’ora di pranzo, ma a volte l’incantesimo è impuntuale.

Sono in cura da due neuropsichiatri (uno qui a San Benedetto, l’altro a Milano) che non mi credono: le molecole di questi psicofarmaci non hanno il timer, si sono accampate da tempo nel mio organismo.

Eppure il paesaggio industriale, oltre i vetri della palestra, non ondeggia più come qualche minuto fa e il mio cervello sta sperimentando un riassetto delle proporzioni.

Sono le tre del pomeriggio di un giorno di marzo e il sole si consolida sulla realtà che si snebbia. Da qui si vede solo la sommità dei Sibillini, la base è coperta da un’infilata di centri commerciali e di fabbriche. C’è un odore di solfatara nella sala pesi, le filacce di muffa tremano sulle travature del soffitto.

Eccomi, con la felpa e il cappuccio perché ho sempre freddo, con lo sguardo nittitante da antipsicotici, con una certa urgenza sudaticcia nelle mani, ma ancora in catalessi mentre guardo gli altri che si allenano. Mi sto svegliando da un’immobilità minerale. Sotto i piedi comincia ad ardermi una fiamma piccola. Ho una massa di cento chili per un metro e novantadue e occupo parecchio spazio, anche se il peso della mia disabilità psichica eccede di molto quello del corpo.

Mentre riscaldo le cuffie dei rotatori con l’elastico, nello stomaco mi si accumula l’acido di quello che è successo stamattina. Dopotutto adesso sto bene. Stamattina mi faceva schifo tenere questa lingua in bocca.

Stamattina ho sentito più forte del solito l’urto della malattia, ho cercato su internet il kit per il suicidio che vendono in Canada, una maschera al nitrito di sodio; e insomma ho cercato, cercato, con una zuppa al posto del cervello. Adesso il mio corpo è pronto a due ore di allenamento intensivo e si appresta a riguadagnare in muscoli quello che ha perduto in lucidità mentale.

A fine allenamento, quando farò la sauna, il calore mi farà andare il sangue in pappa. Sentirò disgiungersi gli arti – braccia, gambe – disossati. Due sudori diversi mi confluiranno allora sulla pelle, di cui uno mi appartiene e l’altro è putrido di scarti chimici.

Dal 2020 prendo sette pasticche al giorno per sopravvivere, cinque la mattina e due dopo cena. Noradrenalina-dopamina, paroxetina, antipsicotici e antiepilettici, in due uniche indigeribili razioni.

Dal 2020 mi alleno tre-quattro ore al giorno, sei giorni su sette, e ho cambiato del tutto fisionomia: anche se la mia vita è un continuo crollo d’ossa, ho trenta kg di muscoli in più e la pelle luccicante di un ventenne. Se ricorro al reagente della sauna non è per vanità: farmi colare il corpo addosso è diventata una liturgia serale di svelenamento.

Alcide Pierantozzi (qui per scoprire come va a finire)

La ciliegina sulla tortaultima modifica: 2024-08-01T12:35:12+02:00da hyponoia

Un pensiero riguardo “La ciliegina sulla torta”

  1. Me-ra-vi-glio-so.

    E visto che hai parlato di torta e ciliegine, anche se è un peccato tagliare a fette questo racconto perché la sua bellezza narrativa è un continuum tenuto assieme da una chantilly di follia, ne estraggo un frammento al solo scopo di usarlo come segnalibro perché, ora non posso, ma voglio leggerlo tutto:

    “Munito di una vivandiera di pasticche, sono io che mi dirigo in quel camposanto giù in fondo. E anche questo è un problema. Pensando a me nella bara, un po’ mi viene un gran desiderio di cenere e un po’ me la rido, se penso che prima delle fiamme dev’esserci comunque il cerimoniale della vestizione. Io non voglio che mi si guardi il corpo dopo morto. Il corpo nudo con gli addominali rilassati e i bicipiti lessi, e con addosso le mani di qualcuno che possa pensare: con tutta quella palestra, ero convinto fosse più tonico.”

    Grazie, il mio buon pomeriggio te lo sei guadagnato tutto :))

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