Inverni

Ciao, mamma

Ciao, mamma. Metto per iscritto le parole
che ti ho detto quella sera, quando l’infermiera
asciugandoti un batuffolo bianco sulla bocca,
mi ha sussurrato: “Guardi che non c’è più”.

Non sono stato capace di dirti altro,
come i ciclisti dopo la vittoria di tappa
o come un marmocchio alla sua prima foto
da scolaro, mentre cerca i suoi nella folla

che si accalca dietro una Polaroid.
Ecco: il lampo del magnesio e poi un buio fitto.
Chissà dov’eri finché ti salutavo.
Eri in quel buio naturalmente,

con le tue scorte di cipria e il tuo
finissimo scialle rosa sulle spalle,
con i tuoi occhi grigi che, ho capito finalmente,
mi restavano in eredità.

Sono contento di avere i tuoi occhi.
Mi sa che perforavano un sacco di cose,
forse anche i muri di oblio che gli anni
ti avevano piazzato accanto a tua insaputa.

“Ciao, mamma” ho balbettato guardandomi intorno,
preoccupato che le tue compagne di camera
mi prendessero per scemo. E mi sentivo
per davvero scemo, un po’ stranito,

come se la tua morte fosse colpa mia
e, mentre le orecchie mi fischiavano,
come se un rimbombo oscuro
si stesse frantumando in mille suoni orribili.

Intanto si era alzato il vento. Dal finestrone
vicino al tuo letto vedevo le cime dei castagni
piegarsi. È lì che ho pensato che il vento
è la cosa più simile alla felicità: nessuno sa

dove nasca e neanche quando finisce.
Come quel brusco vento garbino
di sessant’anni fa quando, seduto sul sellino
della tua bici con una girandola in pugno,

salutavo un mondo di vetro che correva via.
E tu che sussurravi: sembra una poesia.
Devo averti presa sul serio. Per questo
quella sera non ho spiccicato altro.

Perché la poesia è un modo di vedere,
prima che di parlare. E basta molto poco
per riempire il silenzio fino all’orlo.
Mentre dottori e suore e infermiere

andavano e venivano, io e te ci siamo messi
a guardare quella girandola rossa fiammante
che loro non potevano neanche immaginare
e che girava all’impazzata come un tempo.

Ripensandoci, credo che ‘ciao’
fosse proprio la parola giusta.

poesia di Paolo Lanaro dalla raccolta Rubrica degli inverni

Parola chiave INVERNO

Tempo fa intitolai un blog Cahiers d’hiver. Funzionò. Forse piacque ai malinconici cronici, forse sedusse per le immagini evocanti il messaggio sotteso ai post. In realtà era semplicemente vergato di digressioni nostalgiche, romite. Bastava poco per averne un quadro d’insieme. Tenne alla larga cervellotici e ballerine di fila.

Sono passati parecchi inverni da allora. Nel frattempo, per sembrare normale, per prendere le distanze dagli amati giorni della merla, mi infilai di piatto nelle estati, sforzandomi di far parte di banalità darwiniane in riva al mare. Non funzionò. Neppure sotto le stelle a san Lorenzo. Presto la malinconia riprese il sopravvento, e con essa il bisogno d’appartenere al più bello degli inverni, quello in cui l’occhio non abusato coglie una struggente tenerezza. L’esorcismo bastevole al completamento di sé.

Giuseppe Montesano

Giuseppe montesano: una voce autoriale inimitabile | Nel territorio del diavolo

Conservo ed espongo con fierezza, nella libreria che segna il passaggio dalla zona giorno alla zona notte, il saggio monumentale di Giuseppe Montesano. Monumentale anche fuor di metafora data la pressione a cui sottopone i polsi di chi s’avventura a leggerlo per più di mezz’ora. Comunque. Durante la lettura random di Lettori selvaggi, a Montesano è andata la mia gratitudine di lettrice sempre alla ricerca di voci nuove, laddove per nuove è da intendersi anche antiche. Anzi, forse soprattutto antiche, perché se penso a molti contemporanei è un attimo gridare al loro indirizzo di fare una ricerca che possa essere rivelatoria, ancor prima che didattica, dell’esistenza di autrici e autori col dono della precisione di scrittura e dell’incantamento affabulatorio. Ma tornando a Montesano, grande è il suo amore per la letteratura e lo si evince una volta di più dando una scorsa al suo ultimo libro pubblicato per Bompiani. Lunga vita a chi ancora, e nonostante tutto, trae ispirazione dalle nuvole. Che sono un precipitato di beatitudine anche quando cariche di pioggia. O di neve.

Io sono vivo! Io sono vivo! Io sono vivo! E voi? Voi siete tutti morti… Mi parli così, di notte, quando mi sveglio con un sussulto, e l’ansia morde… Che vuoi dirmi? Perché gridi che sono morto? Sei tu che sei morto, e tanto tempo fa, non io… Io sono vivo, come tutti – o almeno così credo… Che cosa vuoi dirmi, Monsieur Baudelaire? Mi rimproveri? Mi avverti? Che cosa hai già visto negli anni profondi? Via, va’ via, fantasma, dissolviti nell’aria! Ma non te ne vai, parli dalla grondaia che gocciola, parli nel buio, nella pioggia, nell’afa… Io sono sveglio nella notte e ho paura, ho paura, e il buio della vita mi opprime…[…] Come dicevi, tu? “Ho chiesto spesso a vini ingannevoli di addormentare per un giorno il terrore che mi insidia, ma il vino rende l’occhio più acuto e l’orecchio più sottile! Ho cercato nell’amore il sonno dell’oblio – ma l’amore per me è solo un materasso di aghi…” Hai ragione, l’amore senza amore rende più amara la mente, e la grazia del sonno non arriva… Sì, tu le conosci fino alla feccia le notti oscure, Charles, quando tu, che non credevi in niente, tentavi di pregare per tenere lontana l’angoscia, le notti in cui ti rifiutavi di dormire perché quando cadevi esausto in un sonno ansioso arrivavano sogni più tremendi della veglia… Eppure! Eppure tu sei vivo, e parli a chiunque abbia ancora voglia di non abbandonarsi alla morte in vita, e quando riesco a dimenticare la mia ansia, per qualche attimo, allora in un lampo capisco finalmente che cosa mi dici, capisco che cosa hai davvero chiesto alla poesia quando hai detto: “Si può stare anche tre giorni senza pane ma nemmeno un giorno senza poesia!” Alla poesia hai chiesto quello che tutti chiediamo ai giorni, hai chiesto quello che tutti vogliamo ma non riusciamo a dire, nemmeno nella solitudine e nel silenzio della notte: vivere senza paura… Come risuonano abissali, queste parole: vivere senza paura… Liberi nonostante tutto e tutti, contro i demoni meschini della vita comprata e venduta, contro la noia orribile che ci piega nella ripetizione, ci consuma nell’abitudine… Ma è possibile, questoCome è difficile ricominciare! E abbandonare le paure! Forse bisogna diventare come il tuo enigmatico straniero?

“Che cosa ami di più, uomo enigmatico? Tuo padre, tua madre, tua sorella, tuo fratello?”

“Io non ho né padre né madre, né sorella né fratello.”

“I tuoi amici?”

“Ti servi di una parola il cui senso mi è rimasto ignoto fino a oggi.”

“La patria?”

“Ignoro sotto quale latitudine si trovi.”

“La bellezza?”

“La amerei volentieri, dea e immortale.”

“Il denaro?”

“Lo odio come tu odi Dio.”

“Eh! Ma allora che cosa ami, straordinario straniero?”

“Amo le nuvole… le nuvole che passano… laggiù… laggiù… le nuvole meravigliose!”

Giuseppe Montesano, Tre modi per non morire

Ceni da me?

Una tavola ben apparecchiata, intendo dire apparecchiata con cognizione di causa, è comunque un propagarsi dell’inconscio. Quando poi è pensata per due si fa ponte che unisce sentimento ed eros, e questo si sa. Tuttavia, io ci ravvedo qualcos’altro, ed è un qualcosa che, sebbene di difficile descrizione, afferisce all’amore, caparbio nel ripercorrere territori già noti pur di aprirsi ancora al turbamento. Che sfianca e ritempra, e per pochi attimi interrompe l’ineludibile fluire della vita.

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ma non chiamatelo maestro

Ferdinando Scianna in mostra nella sua Sicilia - Art and Cult Blog

In definitiva al tempo non ci credo. Einstein aveva dei problemi col tempo, e anch’io penso che non esista. Certo, io ero giovane e adesso sono vecchio, questo implica che c’è stato un tempo da allora ad adesso. Ma il tempo di quando ero giovane lo vivo nel presente, come ricordo. E questo è sempre stato un problema per ogni forma espressiva dell’umano, soprattutto per la letteratura. La fotografia è stata un tentativo tecnologico pazzesco di dare una risposta all’implorazione di Faust «Fermati, tempo!». Ma non si può fermare il tempo anche se almeno per un istante la fotografia ha preteso e pretende di farlo. E non è vero. Le fotografie non fermano un bel niente. Se adesso guardo le fotografie del mio amico Sciascia, non è che queste mi fanno ritornare il tempo: costituiscono lo strazio del presente, ma non recuperano quel tempo“. Ferdinando Scianna

Storia di un cosofobo

Stefano Bonaga e l'amore: «Alba Parietti? Ho sofferto essere al centro dell'attenzione. Vannacci è la versione politica di Wanna Marchi» - Open

“Giovanni vive da solo e sopravvive con gli altri. Man mano che cresceva, Giovanni si accorgeva progressivamente di capire sempre meno del mondo, finché una sera al tramonto si trovò a smettere di voler capire e cominciò unicamente a reagire agli stimoli come un ente qualsiasi della natura privo di riflessione. La sua quotidianità si configurò da allora come una continuità di processi stimolo-risposta. Istintivamente egli pensava che gli umani e le cose hanno la stessa natura, tuttavia, sopportava neutralmente gli umani, mentre percepiva nelle cose o una indifferenza insopportabile o una ostilità congenita. Questa è la breve storia non cronologica di Giovanni. Alle sette del mattino, Giovanni si trova ad alzarsi al suono della sveglia che egli comincia ad aggredire verbalmente: “Fanculo sveglia di merda, maleducata, non potresti suonare un po’ più piano? Stronza!”. Giovanni lavora come maschera di un cinema, cosa che gli consente di ridurre al minimo il suo rapporto tattile con le cose: durante il lavoro egli controlla i biglietti e non si accorge nemmeno della mano che glieli porge. In qualche modo i biglietti del cinema sono gli unici oggetti che egli rispetta, con le rarissime eccezioni di quando cadono in terra, nel qual caso li raccoglie borbottando comunque: “Stronzo di biglietto! Ma perché cadi inutilmente?”. Peraltro, in generale Giovanni è tormentato dalla forza di gravità, che fa cadere tutto. Naturalmente egli non pensa in alcun momento di esserne la causa; percepisce ciò come una specie di complotto fra oggetti ostili con la complicità irritante della forza di gravità. Giovanni apprezzerebbe una forza di gravità adattabile e personalizzata, che ferma gli oggetti non monotonamente al livello del terreno, ma all’altezza della comodità dell’utilizzatore: la penna che cade dovrebbe fermarsi laddove la mano la può afferrare al volo! A che titolo bisogna che tibia e perone siano coinvolti nel banale e fastidiosissimo inginocchiarsi per recuperarla? Egli trova perfino più simpatica una fetta di pane che si schiaccia per terra dalla parte del burro perché la perfidia di questo fenomeno ha un tocco di crudele nobiltà, mentre il muro imbecille contro cui Giovanni batte la testa è miserabile: “Accidenti a te!” urla Giovanni “immobile idiota manufatto troppo inutilmente duro! Impara almeno dalle pareti di legno!”

Gli umani a Giovanni risultano meno odiosi delle cose: mentre essi sono ugualmente privi di qualunque libertà del volere, ciò che implicherebbe il creare qualcosa dal nulla come Dio e dunque ogni loro atto è l’effetto di una infinita catena di macro e micro cause, almeno gli umani hanno la decenza di atteggiarsi talvolta responsabili; mentre le cose, con l’impudenza dell’esibizione della propria innocenza, con la volgarità del proprio esser così perché di sì, Giovanni non solo non ignora tale esibizionismo spocchioso, ma ne è provocato radicalmente. Cosa c’è di più provocatorio della resistenza di tutti i materiali impacchettati in plastica? Tutta quella plastica che resiste al normale tentativo di raggiungere il contenuto, dalle semplici sigarette chiuse nel pacchetto, che peraltro è inspiegabilmente avvolto da un film fine e scivoloso che costringe le dita a spasmodici sfregamenti, alla ricerca di un microscopico lembo previsto essere sollevato, ma quasi sempre introvabile.

Come compensare tale frustrazione da parte di Giovanni se non sfogando la propria rabbia: “Teste de cazzo di sigarette impacchettate! Merde inaccessibili! Che vantaggio avete a farmi impazzire per aprire il pacchetto? Avete paura che vi fumi!? Andate a fanculo voi e il pacchetto!”.

Giovanni calpesta di solito almeno due su tre dei pacchetti che compra e talvolta dà fuoco allo strato sottile della plastica con la intima soddisfazione dei teologi ortodossi di fronte al rogo di Giordano Bruno. Giovanni vive praticamente per punire le cose in quanto cose, al punto che anche le cose non ostili sono oggetto della sua aggressività. Anche quando il tubetto del dentifricio risponde educatamente alla pressione del dito e si posa sullo spazzolino, Giovanni esplode: “Che cazzo fai? Non è mica merito tuo se esci, è merito del dito che spinge! Ma vaffanculo anche te!”. Peraltro, infatti, la coerenza di Giovanni è alquanto discutibile, al punto che se le cose non funzionano, egli le interpreta come ostili provocazioni, e quando funzionano gli appaiono irridenti nella loro banalità di sfidanti: “Ma brava, sedia! Mi siedo e non ti rompi, che sforzo, complimenti, ma vaffanculo anche te!”.

Qualcuno, notando inevitabilmente l’aggressività di Giovanni verso le cose, aveva provato a parlargli di animismo; Giovanni si irritò: “Ma se neanche gli uomini o gli animali hanno un’anima, dovrebbero averla anche le cose? Ma neanche per sogno! Quello che mi fa imbestialire delle cose è la loro imbecillità, la finta inoffensività. Gli uomini fanno del male sapendo di farlo, sono crudeli volontariamente, le cose non lo sanno neanche, sono colpevoli di essere innocenti. Dunque non c’è nemmeno tanto gusto a punirle, a dar fuoco alle sigarette che non si aprono, alla bottiglietta di acqua minerale da cui si versa l’acqua passando inevitabilmente per il residuo del tappo e mai una volta che venga giù dalla parte giusta e dunque ti schizza in faccia, al barattolo dello shampoo che cade nell’acqua della doccia e si versa in terra, alle pagine del giornale talmente attaccate che sembrano una e ti costringono a insalivarle con le dita”.

Peraltro, Giovanni nutre una certa indifferenza per le strutture di oggetti coordinati. Una casa può essere considerata anche un oggetto, ma non è maneggiabile in toto, come le cucine economiche, o gli autobus, o i monumenti. Gli oggetti singoli, autonomi, trattabili a mano, questi sì che sono detestabili.

“Spaccare la biro che non funziona non mi interessa troppo”, dice Giovanni, “preferisco offenderla, disprezzarla, mandarla a fanculo”. Giovanni sogna un mondo senza cose, un mondo di res nec cogitantes nec extensae, l’eliminazione del tatto, dell’udito, del gusto, entità avvertibili solo con l’occhio, ma nemmeno, intuite con il pensiero, enti senza forma, enti indistinguibili che non lo costringano ad occuparsene. In qualche modo, Giovanni sogna una specie di inferno, abitato da ombre generiche e da un se stesso senza immaginazione né desideri, che non richieda la cura di nulla. Invece, in questo mondo, gli oggetti continuano a costituire un appello al loro uso, incombono e spesso tradiscono, Giovanni li considera una massa di stronzi. Nella prima infanzia, Giovanni fece l’esperienza traumatica del triciclo: a un compleanno, per fargli una sorpresa, glielo regalarono dentro a una grande scatola, invitandolo ad aprirla. Con l’entusiasmo tipico del bambino, Giovanni si buttò sulla scatola per scoprirne il contenuto; un’impresa bestiale: le manine tentavano di infilarsi nelle fessure del cartone ripiegato, senza esito. Dopo vari tentativi accaniti e dolorosi per le sue manine, i genitori pensarono di venirgli incontro prendendo la scatola per aprirla: Giovanni scappò via rincorso dalla mamma; quando infine apparve il triciclo, a Giovanni sembrò qualcosa di mostruoso, uscito da un cartone, ostile e resistente. Non vi salì mai. L’odio anche per le scatole di cartone nacque così.”

Stefano Bonaga