
“Giovanni vive da solo e sopravvive con gli altri. Man mano che cresceva, Giovanni si accorgeva progressivamente di capire sempre meno del mondo, finché una sera al tramonto si trovò a smettere di voler capire e cominciò unicamente a reagire agli stimoli come un ente qualsiasi della natura privo di riflessione. La sua quotidianità si configurò da allora come una continuità di processi stimolo-risposta. Istintivamente egli pensava che gli umani e le cose hanno la stessa natura, tuttavia, sopportava neutralmente gli umani, mentre percepiva nelle cose o una indifferenza insopportabile o una ostilità congenita. Questa è la breve storia non cronologica di Giovanni. Alle sette del mattino, Giovanni si trova ad alzarsi al suono della sveglia che egli comincia ad aggredire verbalmente: “Fanculo sveglia di merda, maleducata, non potresti suonare un po’ più piano? Stronza!”. Giovanni lavora come maschera di un cinema, cosa che gli consente di ridurre al minimo il suo rapporto tattile con le cose: durante il lavoro egli controlla i biglietti e non si accorge nemmeno della mano che glieli porge. In qualche modo i biglietti del cinema sono gli unici oggetti che egli rispetta, con le rarissime eccezioni di quando cadono in terra, nel qual caso li raccoglie borbottando comunque: “Stronzo di biglietto! Ma perché cadi inutilmente?”. Peraltro, in generale Giovanni è tormentato dalla forza di gravità, che fa cadere tutto. Naturalmente egli non pensa in alcun momento di esserne la causa; percepisce ciò come una specie di complotto fra oggetti ostili con la complicità irritante della forza di gravità. Giovanni apprezzerebbe una forza di gravità adattabile e personalizzata, che ferma gli oggetti non monotonamente al livello del terreno, ma all’altezza della comodità dell’utilizzatore: la penna che cade dovrebbe fermarsi laddove la mano la può afferrare al volo! A che titolo bisogna che tibia e perone siano coinvolti nel banale e fastidiosissimo inginocchiarsi per recuperarla? Egli trova perfino più simpatica una fetta di pane che si schiaccia per terra dalla parte del burro perché la perfidia di questo fenomeno ha un tocco di crudele nobiltà, mentre il muro imbecille contro cui Giovanni batte la testa è miserabile: “Accidenti a te!” urla Giovanni “immobile idiota manufatto troppo inutilmente duro! Impara almeno dalle pareti di legno!”
Gli umani a Giovanni risultano meno odiosi delle cose: mentre essi sono ugualmente privi di qualunque libertà del volere, ciò che implicherebbe il creare qualcosa dal nulla come Dio e dunque ogni loro atto è l’effetto di una infinita catena di macro e micro cause, almeno gli umani hanno la decenza di atteggiarsi talvolta responsabili; mentre le cose, con l’impudenza dell’esibizione della propria innocenza, con la volgarità del proprio esser così perché di sì, Giovanni non solo non ignora tale esibizionismo spocchioso, ma ne è provocato radicalmente. Cosa c’è di più provocatorio della resistenza di tutti i materiali impacchettati in plastica? Tutta quella plastica che resiste al normale tentativo di raggiungere il contenuto, dalle semplici sigarette chiuse nel pacchetto, che peraltro è inspiegabilmente avvolto da un film fine e scivoloso che costringe le dita a spasmodici sfregamenti, alla ricerca di un microscopico lembo previsto essere sollevato, ma quasi sempre introvabile.
Come compensare tale frustrazione da parte di Giovanni se non sfogando la propria rabbia: “Teste de cazzo di sigarette impacchettate! Merde inaccessibili! Che vantaggio avete a farmi impazzire per aprire il pacchetto? Avete paura che vi fumi!? Andate a fanculo voi e il pacchetto!”.
Giovanni calpesta di solito almeno due su tre dei pacchetti che compra e talvolta dà fuoco allo strato sottile della plastica con la intima soddisfazione dei teologi ortodossi di fronte al rogo di Giordano Bruno. Giovanni vive praticamente per punire le cose in quanto cose, al punto che anche le cose non ostili sono oggetto della sua aggressività. Anche quando il tubetto del dentifricio risponde educatamente alla pressione del dito e si posa sullo spazzolino, Giovanni esplode: “Che cazzo fai? Non è mica merito tuo se esci, è merito del dito che spinge! Ma vaffanculo anche te!”. Peraltro, infatti, la coerenza di Giovanni è alquanto discutibile, al punto che se le cose non funzionano, egli le interpreta come ostili provocazioni, e quando funzionano gli appaiono irridenti nella loro banalità di sfidanti: “Ma brava, sedia! Mi siedo e non ti rompi, che sforzo, complimenti, ma vaffanculo anche te!”.
Qualcuno, notando inevitabilmente l’aggressività di Giovanni verso le cose, aveva provato a parlargli di animismo; Giovanni si irritò: “Ma se neanche gli uomini o gli animali hanno un’anima, dovrebbero averla anche le cose? Ma neanche per sogno! Quello che mi fa imbestialire delle cose è la loro imbecillità, la finta inoffensività. Gli uomini fanno del male sapendo di farlo, sono crudeli volontariamente, le cose non lo sanno neanche, sono colpevoli di essere innocenti. Dunque non c’è nemmeno tanto gusto a punirle, a dar fuoco alle sigarette che non si aprono, alla bottiglietta di acqua minerale da cui si versa l’acqua passando inevitabilmente per il residuo del tappo e mai una volta che venga giù dalla parte giusta e dunque ti schizza in faccia, al barattolo dello shampoo che cade nell’acqua della doccia e si versa in terra, alle pagine del giornale talmente attaccate che sembrano una e ti costringono a insalivarle con le dita”.
Peraltro, Giovanni nutre una certa indifferenza per le strutture di oggetti coordinati. Una casa può essere considerata anche un oggetto, ma non è maneggiabile in toto, come le cucine economiche, o gli autobus, o i monumenti. Gli oggetti singoli, autonomi, trattabili a mano, questi sì che sono detestabili.
“Spaccare la biro che non funziona non mi interessa troppo”, dice Giovanni, “preferisco offenderla, disprezzarla, mandarla a fanculo”. Giovanni sogna un mondo senza cose, un mondo di res nec cogitantes nec extensae, l’eliminazione del tatto, dell’udito, del gusto, entità avvertibili solo con l’occhio, ma nemmeno, intuite con il pensiero, enti senza forma, enti indistinguibili che non lo costringano ad occuparsene. In qualche modo, Giovanni sogna una specie di inferno, abitato da ombre generiche e da un se stesso senza immaginazione né desideri, che non richieda la cura di nulla. Invece, in questo mondo, gli oggetti continuano a costituire un appello al loro uso, incombono e spesso tradiscono, Giovanni li considera una massa di stronzi. Nella prima infanzia, Giovanni fece l’esperienza traumatica del triciclo: a un compleanno, per fargli una sorpresa, glielo regalarono dentro a una grande scatola, invitandolo ad aprirla. Con l’entusiasmo tipico del bambino, Giovanni si buttò sulla scatola per scoprirne il contenuto; un’impresa bestiale: le manine tentavano di infilarsi nelle fessure del cartone ripiegato, senza esito. Dopo vari tentativi accaniti e dolorosi per le sue manine, i genitori pensarono di venirgli incontro prendendo la scatola per aprirla: Giovanni scappò via rincorso dalla mamma; quando infine apparve il triciclo, a Giovanni sembrò qualcosa di mostruoso, uscito da un cartone, ostile e resistente. Non vi salì mai. L’odio anche per le scatole di cartone nacque così.”
Stefano Bonaga