Tentativo di descrivere l’impenetrabile

A walking tour in Oslo, winter season activities

Letture diverse. Poc’altro da aggiungere, se non che certi libri fungono da spartiacque tra narrazioni pensate per non spaventare il lettore e altre il cui scopo è invitarlo a esperire qualcosa che gli è ignoto. O che forse conosce, ma sotto mentite spoglie.

Questa volta il narratore lo faccio io in persona, e dunque il racconto si apre, che lo crediate o no, con il protagonista che digita il numero di telefono dell’autore (cioè il mio) con l’idea di chiedergli un incontro per discutere il suo (cioè il mio) ultimo romanzo (La relazione del professor Pedersen…), che ha suscitato in lui una profonda (benché erronea) impressione. Il protagonista ha dunque digitato il numero. Il protagonista cerca di mettersi in comunicazione. Tiene la cornetta all’orecchio e sente suonare, una volta, due volte, tre volte. Intanto io, nel mio appartamento, sento il telefono che squilla. Il telefono! Vado al telefono e alzo la cornetta. “Pronto”, dico, teso come sempre, e sento il mio nome pronunciato da una voce all’altro capo del filo invisibile che ci ha appena collegati e che, senza che io ancora lo sappia, avrebbe continuato a collegarci fino alla fine di tutta la vicenda. “Con chi parlo?” gridai. “Sono AG”, rispose con una risatina imbarazzata. “Cosa??? AGSei proprio tu?! Non è possibile!”

Invece era proprio AG. Arne Gunnar Larsen. Il mio amico d’infanzia a Sandefjord […] sparito in silenzio dalla mia vita nel 1965, per non ricomparire più fino appunto a quella telefonata in un giorno qualunque d’inverno, pungente, ventoso e bianco, a Oslo, capitale della Norvegia, poco dopo Capodanno, nel 1983. Possibile? Decisi di crederlo, tanto più che AG andò dritto al sodo, cominciando a elogiare in toni entusiastici il mio recente romanzo, per finire con la proposta di cenare insieme al Theatercafé la sera successiva. La proposta cadeva a dir poco male. Ero in partenza per il Messico. […] Per di più era un sabato sera quello che mi proponeva, cosa che la mia compagna di viaggio e di vita non avrebbe certo apprezzato, per lo meno non in quel momento, a tre giorni dalla partenza per il Messico. Tuttavia non dissi di no. Dovevo rivedere AG.

Perciò uscii al freddo e rimasi a congelare alla fermata Ullevål Stadio, in attesa del metro da Sognsvann che doveva portarmi in centro, al Theatercafé. La città bianca e fredda, pungente e con le sue luci al neon. Fosse stato solo per incontrare Arne Gunnar Larsen, dubito che sarei andato. E fosse stata una persona qualsiasi a telefonarmi per elogiare il mio ultimo romanzo, non ho dubbi che non sarei andato. Ma la combinazione era irresistibile. Sentirmi elogiare in toni entusiastici dal mio vecchio amico di Sandefjord: era la più grande soddisfazione cui uno scrittore possa aspirare. Date le premesse si può ben dire che varcai letteralmente a passo di danza la porta del Theatercafé […]

Ma eccolo che arriva. Nonostante i diciassette anni passati, l’ho riconosciuto all’istante. L’orchestra attacca dalla balconata. Il Theatercafé saluta agitando le sue tovaglie bianche, applaude con tintinnii e tramestii e fumo di sigarette, che sale serpeggiando come uno sparo a salve. Mi alzo e gli do il benvenuto. Vecchio amico mio! Compagno di tanti anni, antico alleato in un’eterna lotta contro l’esistenza, ora burocrate a Oslo. Architetto e burocrate. Lo guardo: “Che fine hanno fatto i tuoi capelli?” Lui guarda me: “Terje Vigen! Prima eri solo uno stravagante, adesso sei uno stravagante e grigio.”

Dag Solstad, Tentativo di descrivere l’impenetrabile