Tra Escher e Sepúlveda

Non ho mai letto Sepúlveda, se non per stralci. Ma poco importa: un’anima affine la riconosci d’istinto. Per questo motivo non serve tramutarsi in esseri kafkianamente antropologici per buttarsi a capofitto nella prosa di un autore con l’intento di cavarne il  sostrato, come se questo possa offrirsi da conforto per un’autostima traballante o contribuire all’emersione di latenze affabulatorie che, malgrado gli sforzi per renderle pregevoli, restano incastrate tra sottotrame che nessuno leggerà. Comunque, questa è una digressione da lettrice. Quello che mi interessa è il pensiero di Sepúlveda sulla letteratura, intesa come ente in grado di aprire la mente del lettore a piccole o grandi illuminazioni. Possibili solo quando algoritmi d’ogni sorta sono fuori gioco.

Enigma Escher Paradossi tra arte e geometria - La Stampa

“Borges ha detto che non conosciamo le leggi del caso, e mi fa piacere che sia una di queste inesplicabili casualità a portarmi in Olanda per provare a parlare dello scrittore e dei suoi mondi, perché ho sempre creduto che il nostro mestiere abbia molto a che vedere con il nastro di Moebius disegnato da Escher. Nessuno può dire con certezza dove inizi o dove finisca. Nel nastro di Moebius, le formiche a volte sembrano camminare sulla parte superiore e a volte sembrano attaccate alla parte inferiore. Allo stesso modo, lo scrittore a volte sembra muoversi in una determinata regione, città o quartiere, ma poiché la letteratura si nutre delle passioni umane, gli sforzi per trasferire sulla carta le forze propulsive di tutti gli uomini di tutti i tempi fanno sì che lo scrittore si muova – anche senza averlo prestabilito – in città o regioni che forse non ha mai visitato. E come funziona questo portentoso fenomeno di ubiquità? Per rispondere alla domanda dobbiamo tornare al nastro di Moebius.

Osservando il disegno, l’occhio si convince che si tratta di un nastro con due facce e due estremità. L’occhio si persuade che c’è un sopra e un sotto, e una larghezza. L’occhio osserva compiaciuto l’infinito spostamento delle formiche, mentre la ragione lavora e lavora, a tutta velocità. È possibile che a un certo punto la ragione scopra che quel nastro non ha né due facce né due estremità, che si tratta di una linea truccata dal sortilegio della geometria. È possibile che la ragione lo scopra, ma la povera ragione si ritrova con una scoperta che non le serve a nulla, perché l’occhio segue emozionato lo spostamento delle formiche.

«È un trucco. Quello che vedi non esiste» dice la ragione. L’occhio però risponde: «Che importa? A me interessa sapere se le formiche vanno o vengono. Dove o da dove. Cosa vedranno o cosa hanno visto». Allo stesso modo, la lettrice o il lettore – componente indispensabile del fatto letterario – si rifiuta di ascoltare i dettami della ragione che insistono a presentargli ciò che legge su un unico piano. Grazie all’emozione, sorta di prisma attraverso cui interpreta ciò che legge, il lettore penetra in mondi intimi e personali che fanno da casa al piacere della lettura e da rinnovato scenario alla trama”.

Sì, proprio un’anima affine il buon Sepúlveda. Che in questo caso mi ha ricordato le spiegazioni cristalline di Roberto Vecchioni alla lavagna di In altre parole.