The Bear (every second counts)

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Che peccato. Era partita così bene da mettere d’accordo pubblico e critica: serie imperdibile, dicevano. Poi è arrivata la terza stagione ed è parso subito evidente che la forza affabulatoria che aveva decretato la spettacolarità delle prime due si era dissolta. Non è bastato l’innesto di ulteriori flashback, né hanno fatto la differenza le canzoni usate pretestuosamente a riempire spazi che la trama scarna aveva lasciato vuoti di parole. Sono mancate le nevrosi di chef Carmy (in realtà ancora presenti ma sotto forma di digressioni inutili) e l’irascibilità di Richie, redento dallo stage a base di every second counts della seconda stagione. Ma, soprattutto, a mancare sono state scene come quella in cui un’impareggiabile Jamie Lee Curtis, nel ruolo della madre alcolista dei fratelli Berzatto, durante la cena di Natale perde il controllo e lascia affiorare il peggio di sé.

Ora, è noto a tutti che se un prodotto funziona va tenuto in vita, e che in assenza di spunti interessanti si opta per una ricetta svuotafrigo (fuor di metafora un escamotage interessante, meno se si ha la pretesa di intrattenere). Ma cosa dire degli spettatori che, nonostante subodorino fin dal primo episodio che niente è come prima, sono incapaci di scavallare l’asfittica prolissità di un racconto che non racconta più? C’entra forse quella forma di attaccamento morboso che ci tiene uniti all’altro/a pur consci che l’amore ha saldato il debito alla delusione? Va da sé che non sarà d’aiuto dare la stura alle lagnanze, specialmente se precedenti sessioni di binge watching ci avevano messo sull’avviso. Meglio, dovessero ripresentarsi le stesse premesse, risolversi per una sollevazione di tipo gandhiano. Sollevazione dalla poltrona, of course.