Il 25 Aprile non è un “derby”

post by Stefano C.

 

Me la ricordo bene la pioggia a Milano quel 25 Aprile del 1994.

Venivamo dalla batosta del 27 e del 28 Marzo.

Berlusconi aveva vinto, stravinto. La sinistra era alle corde.

La “gioiosa macchina da guerra” era andata a sbattere contro un muro e quel corteo del 25 Aprile si era trasformato in una dimostrazione di resistenza.

Volevamo dimostrare che la sinistra non era morta in Italia, che Berlusconi non rappresentava tutta l’Italia.

Ad un certo punto, spuntò Bossi, circondato da un nutrito gruppo di leghisti, ci furono insulti e fischi, magari anche qualche spintone, ma io ricordo un applauso,

sotto la pioggia, all’arrivo del “Senatur” in Piazza del Duomo, un applauso sorpreso ma compiaciuto.

Ci fu ovviamente un corto circuito tra antiberlusconismo ed esaltazione della resistenza. Secondo me sbagliato.

Tuttavia con quell’applauso si celebrava l’inizio di una crepa nel governo; io non ho mai creduto che la Lega fosse una “costola della sinistra”,

ma certo nel Novembre di quell’anno Bossi fece finire il primo Governo Berlusconi e quel giorno, il 25 Aprile, nell’anteprima di quel divorzio,Il 25 Aprile non è un derby

parlando disse:” il nostro posto è li, noi siamo antifascisti”.

Poi venne addirittura Berlusconi ed il suo omaggio ad Onna

La Resistenza è – con il Risorgimento – uno dei valori fondanti della nostra nazione, un ritorno alla tradizione di libertà.

 disse quel 25 Aprile del 2009. Ognuno può interpretare quelle parole e quella celebrazione come vuole, ma le parole rimangono, sono pietre.

Ma tutti seppero accantonarono le differenze, anche le più profonde, per combattere insieme.

I comunisti e i cattolici, i socialisti e i liberali, gli azionisti e i monarchici, di fronte a un dramma comune, scrissero, ciascuno per la loro parte,

una grande pagina della nostra storia. Una pagina sulla quale si fonda la nostra Costituzione, sulla quale si fonda la nostra libertà.

Non lo dico per esaltare Berlusconi, dal quale mi divide una vita di militanza politica, ma perché le parole di un avversario politico, quando vere, hanno ancora più valore.

Mi sono ricordato di questo tratto di storia recente, anche personale, leggendo ieri le parole costruite a tavolino, scientificamente provocatorie di Matteo Salvini,

il presunto leader della nuova internazionale nera dell’Europa.

Salvini diserterà la festa della Liberazione.

Non mi interessa il derby fascisti-comunisti, ci saranno fazzoletti rossi, verdi, neri, gialli e bianchi. Io vado a Corleone a sostenere le forze dell’Ordine nel cuore della

mafia.

Un derby c’è solo nella tua testa, Salvini. Nessuna mente mediamente cosciente della nostra storia, nessun osservatore in buona fede, nessuna persona che non abbia una poltrona incollata

al proprio cinismo, potrebbe pensare che la battaglia per la liberazione dai fascisti e dai nazisti sia stato un derby.

A meno che tu non sia Salvini, a meno che tu non sia un leader della destra populista, a meno che tu non abbia bisogno di dividere il popolo, per fomentarne la rabbia,

per esaltarne i problemi materiali, per distrarli dai tuoi fallimenti, con l’economia che sta a zero, l’occupazione in negativo, le tasse in aumento come il debito.

Perché la destra vince se divide, perché se unisce perde, se pacifica, se collabora, se prova a comprendere, allora deve ammettere che la sua narrazione si è infranta,

deve riconoscere che l’altro non è un nemico.

E’ infatti la destra che ha bisogno di dividere il mondo in amici e nemici.

Lo sono sempre le ideologie totalitarie.

Tutte.

Non ci fu nessun derby, non fu un gioco, fu la rinascita della libertà in Italia, per merito della lotta partigiana e degli eserciti alleati.

Fu una guerra. Di chi voleva la libertà contro chi la voleva uccidere. Guerra armata di liberazione. Non una partita di calcio.

Salvini vive se divide. Non può sopportare una storia prima di lui che ricordi cosa è costata a questo paese l’esaltazione del nazionalismo,

l’ideologia del nemico, l’ubriacatura populista. Perché in troppi comincerebbero a ragionare sui rischi che corriamo oggi.

Noi invece come sempre ricorderemo la festa della Liberazione, contro ogni fascismo, contro ogni totalitarismo, contro la cancellazione della Storia del nostro paese.

Per la difesa della Libertà. Sempre.

Per noi vale la Costituzione sulla quale ha giurato Salvini. Per lui evidentemente no.

Un caro saluto e i miei migliori auguri di buon 25 Aprile.

Emanuele Fiano

Salario minimo, tre questioni di fondo

Post by Stefano C.

 

Nelle ultime settimane si è acceso un intenso dibattito sull’ipotesi di introduzione del salario minimo,

ossia la proposta di fissare per legge il valore del compenso legale minimo orario.

La prima proposta su questo tema è del maggio scorso e recava la firma del Partito Democratico.

Oggi sono molti i lavoratori esclusi dalla contrattazione nazionale, strumento che garantisce una cornice di salario e tutele.

Molte, troppe persone subiscono gli effetti della diffusione dei contratti pirata, dello sfruttamento da parte di false cooperative,

delle dinamiche di caporalato nel lavoro irregolare. Salario minimo, tre questioni di fondo

A questi si aggiungono le fragilità di chi rientra nei casi di part-time involontario, della condizione di false partita Iva,

del ricorso a rapporti di lavoro discontinui, vaghi e dispersi.

Avere un lavoro non significa più da diversi anni ormai avere un reddito decente, si può essere poveri anche avendo un lavoro.

Credo, dunque, che la discussione sul salario minimo sia utile per avviare una riflessione seria sulla logica e sui contenuti del sistema di tutele,

senza fingere di avere la bacchetta magica, senza promettere la fine della povertà per decreto.

Le questioni di fondo a mio parere rimangono tre:

  1. L’Europa. Il progetto di salario minimo non può essere attuato se non in un ottica unitaria che coinvolga le regole anche negli altri paesi europei. A oggi, infatti, la mancata regolamentazione in materia di lavoro produce fra gli Stati una sorta di concorrenza al ribasso, per attirare il maggior numero possibile di imprese che de localizzano. Tutto questo causa attraverso l’impoverimento del welfare state, la riduzione dei salari e la progressiva cancellazione dei diritti. E quando un’impresa delocalizza il prezzo poi lo pagano sempre i territori, le comunità di persone che ci lavorano e ci vivono.
  2. I Controlli. Il secondo problema a mio parere riguarda il fatto che questa norma e qualsiasi altra riforma analoga deve essere accompagnata da un potenziamento del sistema di controlli più efficace di quello odierno. Altrimenti saremo sempre allo stesso punto. Il lavoro nero prospererà e le false cooperative continueranno incontrastate con il loro carico di sfruttamento.
  3. Le Politiche industriali. La terza questione è una domanda: il salario minimo può veramente costituire una sorta di minimo comune denominatore tra quei lavoratori che sono dispersi fra varie attività, senza che si pongano in essere serie politiche di sviluppo economico ed investimenti pubblici? E come riusciamo a intercettare questi lavoratori non sempre classificabili secondo logiche che abbiamo conosciuto per offrire maggiore tutela?

Credo che siano queste le domande a cui dobbiamo rispondere per una discussione seria in materia di salario minimo.

Solo in questo modo potremo sviluppare un sistema di tutele all’altezza delle sfide del nostro tempo.

Elena Buscemi

Mai più!!!

Post by Stefano C.

 

A Milano è nato il fascismo e a Milano è anche ufficialmente morto.
Qualcuno vorrebbe oggi e da sempre, ridurre quel quarto di secolo, tra il 1919 e il 1945, in uno spazio neutro,
di uno dei governi della storia italiana; purtroppo macchiato, questo sì, ammettono anche i revisionisti, da due colpe gravissime,
le Leggi Razziali e la partecipazione alla guerra, ma per il resto operosamente intento in ciclopiche bonifiche e in preveggenti innovazioni sociali.
Questa intenzionale e bieca riscrittura della storia, ha uno scopo contemporaneo, non viene destinata all’ovattato dibattito tra docenti di storia del ‘900, ma ad un progetto attuale di revisione delle forme della democrazia liberale.

Chi conosce la Storia, deve rinnovare le ragioni dell’antifascismo, riconoscendo nell’attualità “le matrici dell’archetipo del leader che guida il popolo non spingendolo verso mete più elevate di progresso, ma seguendone gli umori più cupi, le paure più plateali, capace di prosperare sulle passioni tristi, sul caos, sullo smarrimento, capace di far leva su ottime ragioni ma trasformandole in torti.

Siamo noi a dover mettere in guardia questo paese dalla forza seduttiva dell’uomo forte che insegue paure,
balle e leggende e le trasforma in rivalsa di masse frustrate.
Il tema è, cosa significhi esserlo oggi, non se esserlo, secondo me.

Cento anni fa in Piazza San Sepolcro, come descrive egregiamente Antonio Scurati nel suo “M-Il figlio del secolo”.

Di fronte ad una platea di pochi deliranti partecipanti, un politico sbandato alla ricerca di una strada fondò i Fasci di Combattimento. Dobbiamo conoscere la storia di quella piccola accozzaglia di reduci, facinorosi, delinquenti, sindacalisti incendiari e gazzettieri disperati, professionisti della violenza e artisti, i quali guidati da un leader pronto ad ogni tradimento, ad ogni nefandezza, pronto a scommettere sul peggio e a vincere la scommessa, pur partendo da un numero infimo e da una devastante Mai più!!!sconfitta elettorale, nell’arco di soli tre anni conquistarono il potere. Gli italiani devono sapere che, contrariamente alla leggenda nostalgica, secondo cui il fascismo sarebbe precipitato nell’abiezione soltanto alla fine della sua traiettoria, con le leggi razziali e la guerra – quegli uomini fecero sistematicamente uso di una violenza brutale come strumento di lotta politica fin dal principio, che quella del fascismo, è storia di sopraffazione, ma devono anche sapere che quei violenti poterono prevalere grazie all’ignavia di molti, al bieco calcolo opportunistico dei liberali e di una monarchia indegna, alla voracità di una classe politica sfinita, alla visionaria inconsistenza dei dirigenti socialisti. Infine, ma, soprattutto, dobbiamo conoscere e saper riconoscere quando si ripresenti, l’innovazione nel linguaggio della politica che il fascismo rappresentò, la seduzione potente che esercitò sul rancore diffuso nella piccola borghesia che, a torto o a ragione, si sentiva delusa dalle promesse della storia, tradita dalla classe politica, declassata dalle conseguenze di una crisi epocale, minacciata nelle sue poche certezze e nei suoi piccoli possedimenti da un invasore straniero ( la peste asiatica).

Per questo a noi, più che il simbolismo triste delle adunate nostalgiche, più che l’insulto dell’omaggio ai torturatori della Muti,
o agli assassini della banda Koch, più che la cerimonia del “presente” come esorcismo di un passato che non c’è più,
fa paura il segno di una ricollocazione di queste giovani e meno giovani coscienze che celebrano i Fasci,
entro una nuova visione sociale che tanto nuova non sembra.

E’ il costante bisogno di ricostruzione di un mito che ci incute timore, anzi il sogno di quel mito,
perché se costantemente in questo paese, autorevolissimi esponenti politici e leader possono affermare che in fondo
a parte le Leggi Razziali e la guerra, Mussolini ha fatto anche cose buone, noi dobbiamo impegnarci costantemente
nello smontare questa mitologia, non tanto per la storia, ma per costruire oggi coscienze vigili ad ogni tentativo di limatura
o demolizione dei fondamenti delle strutture della democrazia.

Totalitario, l’aggettivo coniato da Giovanni Amendola, che mirabilmente riconduce all’ossimoro della democrazia interpretata
come “totus”, al contrario della sua natura pluralistica ed equilibrata, appare oggi, in Europa,
non più sempre così lontano dalla necessità di descrizione dei tentativi diffusi di riduzione della Democrazia
in Democratura. Mettendo in discussione il ruolo dei Presidenti della Repubblica, incrinando la fede nell’indipendenza della magistratura,
sostenendo la non indipendenza degli organi terzi di controllo, delegittimando la difesa dell’indipendenza della libera stampa,
aumentando poteri del vertice esecutivo a discapito di quello legislativo e di quello giudicante.

Noi non dobbiamo avere paura del saluto romano, o di un striscione appeso di notte come spie, contro il giornalista Paolo Berizzi
o contro me stesso, ma dobbiamo essere coscienti che lo spirito capace di reinventare i miti della storia di omaggiare,
gli emblemi del totalitarismo europeo del secolo scorso, può oggi ricollocarsi, nelle nuove forme seducenti del leaderismo anti-europeo e illiberale
che attraversa il continente e a volte anche oltre oceano.


Ciò che è accaduto, dopo la fondazione dei fasci di combattimento, negli anni successivi, non può ripetersi uguale,
certo, ma i meccanismi perversi ed umanissimi, che unitamente alle crisi delle democrazie liberali,  
possono deviare la storia della democrazia e della libertà, verso lidi meno certi e forti, sono ancora in piedi: di questi meccanismi fa parte anche la ricostruzione falsa dei miti del fascismo,
la narrazione, ai fini presenti, di un falso passato. Sappiamo certo che furono bonificate paludi, ma conosciamo bene la scia di sangue e di insulto alla libertà che quelle bonifiche nascondevano.

A noi l’alto compito e la responsabilità che questo non avvenga mai più.

Un caro saluto

E. Fiano