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Ira

Da tanto, tanto, tempo non mi capitava di lasciarmi andare all’ira.

 

Allora il figlio di Peleo di nuovo con aspre parole

si rivolse all’Atride, e non trattenne la collera:

«Ubriacone, faccia di cane e cuore di cervo,

tu non hai mai avuto il coraggio di armarti

per la guerra assieme ai tuoi uomini, né di andare in agguato

coi migliori dei Greci: questo ti sembra la morte.

Molto meglio è restare nel vasto campo dei Greci

e portar via i premi di chi ti parla apertamente,

re divoratore del popolo, poiché comandi a gente da nulla:

altrimenti, figlio di Atreo, per l’ultima volta avresti offeso.

Ma io ti dico e ti faccio un giuramento solenne:

per questo scettro che non metterà più rami né foglie

da quando una volta è stato tagliato sui monti,

non rifiorirà mai più – il ferro gli ha tolto

foglie e corteccia, e ora lo tengono in mano

i figli dei Greci che amministrano leggi e diritto

in nome di Zeus; è questo il giuramento più grande –

un giorno la nostalgia di Achille invaderà i Greci

tutti; e tu non potrai in nessun modo soccorrerli

per quanto addolorato, quando in tanti cadranno per mano

di Ettore uccisore di uomini, e ti roderai dentro il cuore

per la rabbia di non aver onorato il migliore dei Greci».

Così disse il figlio di Peleo, e gettò a terra lo scettro

adorno di borchie dorate e sedette.

Iliade

L’ira d’Achille cantata dall’epico Omero, non la leggevo da decenni. Risuona come cannone in questo luogo cupo, dove si espiano veleni e perversioni, dove si raccontano a piè d’ombra allori e lumi.

E sì! mi vien da scrivere come mai prima. E distillare dal mio corpo offeso la goccia di pietà che dal cuore mi nasce.

È salita, l’ho sentita nelle viscere generata, come onde nella risacca sbuffare, come il seme di una pianta che, sollievo alla luce, caccia l’ombra.

Quell’io non lo vedevo da tempo, era fanciullo, incontrollabile e silenzioso, una moneta da ladrone che mostrava due facce, la buona e la cattiva.

Avevo tra le mani due tele. È stato un attimo ed ho lacerato quel cotone colorato. Vittima innocente.

Povera tela, povera arte mia, travolta dalla violenza più fragile, dal furore più antico.

Come mi sento ora? Dolente e pesante.

Ci fosse un mercante venderei per una lira le mie membra sbiancate o le scambierei per un pungolo avvelenato.

Uno stiletto dorato da dare alla luce. Affinché sia, anche, all’occhio più distante, presente. E quando ella, sbendata e armata, si troverà a passare, si guardi dalla mia feroce vendetta.

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Comportamenti fastidiosi

Oggi è San Giuseppe, festa del papà.

Mia madre, qualche giorno fa, mi ha chiesto di accompagnarla al cimitero per far visita ai suoi genitori (i miei nonni) e trovare mio padre o meglio ritrovare visto che ogni settimana è da lui, di solito l’accompagna mia sorella, oggi, non poteva e l’ha chiesto a me. Ovviamente, l’ho accompagnata.

La confusione al cimitero era da momenti di festa, file interminabili e macchine in coda in tripla fila.

Rispetto chi vuole andare a trovare il caro estinto, ma trovo tutto inutile.
E ancor peggio, lucroso, una rosa che di solito compri a 1 euro, oggi, 3 euro.
Sinceramente io, i fiori, li metterei di plastica.

“Per me odioso, come le porte dell’Ade, è l’uomo che occulta una cosa nel suo seno e ne dice un’altra.”
Omero

Devo esser sincero mi sono sentito come l’uomo descritto da Omero, con nel seno occultato un pensiero che non libero e anzi, per non creare dispiacere in chi ascolta assecondo il suo agire.
Perché? Perche penso, che per mia madre, così, come per altri a me vicino, tutto questo dà conforto. Perché, quindi, dovrei palesare un pensiero che a loro darebbe sconforto. Faccio buon viso a cattivo (per me) gioco, alla fine c’è di peggio.

Me lo chiudo, però, c’è un limite a questo gioco?
Qual è limite superato porta a mutare l’indifferenza in codardia?

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