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Il diritto all’ingenuità

Stamattina sono andato alla posta per pagare una bolletta, dopo 20 minuti di attesa, entra un tizio che si dirige verso gli sportelli e con tono non molto educato pretende di passare avanti.

Il tizio aveva un numero di turno chiamato dieci muniti prima.

Il tizio, però, non c’era quando il display l’aveva chiamato, si era allontanato, ed ora voleva, anzi pretendeva, passare, senza prendere un nuovo numero.

Al mio turno mancavano due persone, chi era prima di me si è infastidito, più che altro per la pretesa.

Bastava chiedere per favore, nessuno avrebbe disatteso un atto di gentilezza.

A rifiutarsi di dare il posto e prendere di petto il tizio, è stato un vecchietto.

Non mi dilungo, vi dico solo che sono dovuti intervenire i dipendenti della posta alla fine.

Alcune persone, compreso me, hanno preso le difese del vecchietto, la lite per poco (molto poco) non è degenerata in rissa.

 

Non amo fare a botte, mai reagito alle provocazioni e se è capitato di alzare le mani è stato solo per difendermi (questo tanto tempo fa, quando si era giovani e incoscienti). Non mi farà onore quello che scriverò, ma ammetto che: quel tizio avrebbe meritato una lezione.

 

Già dobbiamo fare i conti con la nostra vita a volte pesante, se si mettono a rompere le scatole pure questi tizi, diventa difficile restare calmi e non violenti.

 

La cosa che dà fastidio è constatare che esistono (anche qui dove la violenza non è scontata) persone che cercano la lite. Sarà banale come pensiero, visto quel che succede nelle piazze e la sera in alcune città.

Ma sento l’esigenza di affermare il mio diritto ad esser banale e ingenuo, non resta che questo per evitare la disillusione.

Ed è forse già tardi.

 

Dopo l’ultimo post ho reso palese (ancora una volta) il disagio in cui spesso mi trovo a vivere, un disagio etico e morale.

Non sempre, dunque, riesco a far coesistere in piena armonia quel che sono, con quel che vorrei essere. Non sempre, quindi, riesco ad evitare la disillusione e la malinconica consapevolezza di non esser così forte da vincere i miei demoni.

 

L’isolamento non è un’opzione accettabile per questa nostra società. Per quanto, volontariamente o involontariamente, cerco di evitare il contatto, non è possibile reiterarlo allungo. Alla fine, anche la solitudine è triste e dolorosa.

 

Che fare quindi?

 

Una volta trovato, con immensa fatica e sacrificio, l’equilibrio con la parte irrequieta e ferita che vive in me, come posso mantenere questo equilibrio stabile? Ed evitare di accettare gli inviti al caos della nostra società?

 

La mia compagna a volte mi accusa (a fin di bene – così dice) di vittimismo, quando cerco di giustificare un mio comportamento.

Lei si trincerà dietro l’ironia (io puntualizzo che più che ironia è sarcasmo, brutale e poco sensibile sarcasmo) e giustifica le sue parole a volte offensive (se io mi sento ferito, lo sono anche se chi le pronuncia dice il contrario) con l’intelligenza, perché chi è ironico è, intelligente e non ferisce, dice solo la verità. Una scusa per occultare dietro la verità, la sfacciata pretesa di poter dire quello che si vuole, e più la confidenza è intima e affettiva, più l’irriverenza si sostituisce alla delicatezza. Più passa il tempo più penso che l’ironia sia un altro scudo che nasconde l’inadeguatezza della vita.

 

Come restare, quindi, equilibrato e contemporaneamente non diventare vittima o comportarsi come una vittima?

 

Ci sta a questo punto una citazione illustre:

 

“L’onore della vittima è di non essere l’assassino.”

Khalil Gibran

 

Meglio vittima o carnefice?

Vista l’attuale società direi che la maggioranza ha scelto la seconda opzione.

 

La verità è che non sono un essere umano “normale”, la mia opinione potrebbe essere, quindi, distorta e non essere poi così saggia. A mio parere e non solo, se fossi sotto analisi, gli esperti concluderebbero la mia diagnosi con il disturbo borderline della personalità.

 

Meno male che non sono il medico di me stesso.

 

Ringrazio la natura per avermi concesso il dono dell’ingenuità e della mite timidezza, perché mi hanno permetto di pensare come una vittima, di agire come una vittima e non come un carnefice.

Mi è stato concesso l’onore dell’oppresso e non il disonore dell’assassino.

 

Che dite troppo retorico? Troppo drammatico? Troppo fuori tema.

 

Vi confido che sono sempre stato sopra le righe, teatrale in certi comportamenti. Eccedo, a volte, negli estremismi. Zitto e solitario nella realtà, prolisso e retorico nelle opere ed omissioni.

 

Quello che vorrei ed ho sempre desiderato, è essere in pace.

Non lo sono quasi mai, in pace. Lo sono quando sono solo, vorrei esserlo anche quando sono al centro della società.

 

Chissà se capite quello che cerco di esprimere?

 

Perché un’altra accusa (sempre a fin di bene) della mia compagna, è di essere poco chiaro. Ed è vero, su questo non posso obbiettare, è la verità. Ed oltre alla poca dimestichezza verbale devo aggiungere un certo pensiero contorno.

 

Chissà!? Forse sono un po’ matto. Mi viene in mente la canzone di Cristicchi, “ti regalerò una rosa”, in particolare alcuni versi.

 

[…]

La mia patologia è che son rimasto solo

Ora prendete un telescopio, misurate le distanze

E guardate tra me e voi, chi è più pericoloso?

[…]

 

Un pensiero poetico straziante, ma attuale.

Al debole si dà la medaglia del pericoloso. Il forte? Vince, vince sempre, e in una lunga e cupa notte vive il lutto del buono che muore.

 

Mi sono dilungato un po’ troppo, mi scuso. Mi scuso per la lunghezza e per la cupezza del pensiero.

Buon fine settimana a tutti.

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Orrore

Giusto ieri ho scritto nel mio blog:
“[…] Dopo Palermo, Caivano. […] Poi c’è un cucciolo di riccio, preso a calci, trasformato in un pallone da un gruppo (branco) di bambini. […]”

Un groviglio di pensieri sul dolore e la violenza e oggi a non meno di un giorno:

18enni uccidono a calci una capretta ad Anagni e postano il video su Instagram.

 

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Ho visto parte del video, un animale rabbioso sarebbe stato meno crudele.

e poi:

Cane accoltellato da ragazzini a Crispiano vicino Taranto: aggredito a calci e pugni, voleva solo giocare.

 

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Sono solo animali alla fine!!! La capretta, poi, la mangiamo. Buone le costellata!!! Perché mai mostrare umanità e affinità?

Un gioco, ecco cosa è diventata la vita delle creature che ci circondano, siano essi piccoli insetti o intelligenti e amorevoli cagnolini.

La scuola e la famiglia hanno fallito.

Io non sono un genitore il destino ha voluto così.  Se è questo, però, il mondo che mio figlio avrebbe vissuto.

BENEDICO il cielo per non aver permesso che subisse questa società, questo orrore.

E dire che l’orrore l’abbiamo conosciuto, dopo la seconda guerra mondiale, si doveva insegnare che la violenza non era e non è un’opzione. E invece oggi è un linguaggio ad uso e consumo di tutti.

COMPLIMENTI a tutti noi.

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Lotta o fuga?

Attenzione, gli argomenti trattati potrebbero urtare la vostra sensibilità.

La piccola Frida è diventata signorina. Il primo ciclo, il primo calore. Non è più cucciola, non è più la tenera creatura che prendevo in braccio senza alcuno sforzo, in verità lo è ancora tenera e affettuosa, anche di più, non è più piccolina.

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Iniziano tre settimane di caos ormonale che metteranno (affettuosamente) a dura prova me e la mia compagna, è la natura, l’istinto alla riproduzione.
Ora, l’argomento permette di esplorare pensieri più profondi e creare analogie.
Il sangue è l’elemento che seguirà il filo della narrazione.
Il sangue da inizio al calore e porta i maschi all’inafferrabile e irrefrenabile desiderio di accoppiarsi. La cosa strana (ma poi non tanto) è, che in questa circostanza altamente primitiva e istintiva, i cani, i maschi competono tra di loro. Alla cagna, la femmina è dato il diritto, il privilegio, l’onore di scegliere, lei scansa la coda e quel che deve avvenire, avviene. Sapete che fa il maschio, in quella ressa di ormoni? Poggia il muso sul dorso delle femmine e solo se la femmina è pronta accade quel che natura richiama.
La stessa identica cosa, accade, ai maschi umani, quando presi dall’eccitazione feroce prendono la femmina, la donna.

Beata ironia.

Eh sì!!! I cani attendono che la femmina sia pronta, basta un cenno, un ringhio della femmina è il maschio retrocede, per riprovare in un corteggiamento ossessivo che ha un arcano rispetto animalesco.
All’uomo questo animalesco rispetto non riesce, la sua infima anima non regge il paragone, non regge l’analogia con l’essenza unica del nostra amico a quattro zampe. L’uomo non trova o meglio non ha quell’elemento invisibile che giace nell’anima dell’animale: La purezza.

Un branco di cani in calore difficilmente prenderebbe con la forza una cagna non in calore, l’istinto li porta a cercare il consenso scritto geneticamente in quel flusso rosso. L’uomo non chiede consenso e al rifiuto va contro ogni istinto di conservazione e protezione, mostrando la sua natura di morte.

“Ora sono diventato Morte, il distruttore di mondi”
Bhagavadgītā

Il ciclo è un evento per l’uomo misterioso e controverso, un tabù. Perché poi?
Ricordo una scena di un vecchio film dell’orrore, un cult anni 70’, Carrie – Lo sguardo di Satana,  film tratto dal romanzo Carrie di Stephen King. La descrizione cupa di King mostra una realtà non lontana e per nulla invisibile.

Carrie stava in piedi, muta, al centro di un circolo di ragazze urlanti, con l’acqua che le scivolava sulla pelle a rivoli. Stava lì come un bue paziente, conscia di essere (come sempre) il bersaglio dello scherno generale, infelice, crudelmente imbarazzata, ma non stupita.
Sue guardò esasperata le prime gocce scure di sangue mestruale che cadevano sulle piastrelle, formando dei dischetti grandi come monetine. «Per amor del cielo, Carrie, hai le tue cose!» gridò. «Pulisciti!»
«oheh?»
Carrie girò intorno uno sguardo bovino. I capelli le si erano appiccicati alle guance, come un casco aderente. Aveva un’eruzione di acne su una spalla. A sedici anni, l’impronta delle ferite che le erano state inferte dall’infanzia era già chiaramente stampata nei suoi occhi.
«Crede che i tamponi servano per togliersi il rossetto!» strillò improvvisamente Ruth Gogan, con falsa allegria, e scoppiò in una risata acutissima. Più tardi, Sue ricordò quel commento e lo inserì nel quadro generale, ma in quel momento fu solo un altro suono senza senso in mezzo a
tutta quella confusione. A sedici anni, pensò. Deve pur sapere cosa le sta succedendo, deve pur…
Altre gocce sul pavimento. Carrie sbatteva le palpebre, guardando confusa e istupidita le sue compagne di classe.
Helen Shyres si voltò verso le altre facendo finta di vomitare.
«Stai sanguinando!» gridò improvvisamente Sue, infuriata. «Non vedi che sanguini, maledetta oca?»
Carrie abbassò gli occhi sul proprio corpo. Il suo grido echeggiò acuto nello spogliatoio umido.
All’improvviso un assorbente la colpì sul petto e ricadde a terra. Un fiore rosso si allargò sul cotone bianco. Allora le risate sprezzanti, disgustate e sconvolte sembrarono fondersi in qualcosa di sgradevole e malsano, e tutte le ragazze si misero a bombardarla di assorbenti e tamponi, presi dalle borse e dal distributore sul muro.
Volarono in aria come fiocchi di neve, e la cantilena ossessiva cambiò suono: «Tampò-na-ti, tam-pò-na-ti, tam-pò-na-ti…»
Anche Sue partecipò al lancio e al coro generale, senza rendersi ben conto di quello che stava facendo, ma una frase le lampeggiava nella testa come un’insegna al neon: Non le facciamo niente di male, non le facciamo niente di male… Era ancora accesa, luminosa e rassicurante, quando di colpo Carrie indietreggiò urlando, sbattendo le braccia, grugnendo e gorgogliando.
Le ragazze si fermarono: avevano capito che la fissione e l’esplosione erano state finalmente raggiunte. Alcune di loro, ricordando, avrebbero poi asserito di essere rimaste sorprese da quanto succedeva. Ma non era così. C’erano stati tutti quegli anni: tutti quegli anni di facciamo il sacco al letto da campo di Carrie e nascondiamo da qualche parte le sue mutande e mettiamole questa biscia in una scarpa e facciamole questo e facciamole quest’altro e ancora quest’altro, e Carrie che arrancava in bicicletta, sempre in coda, sentendosi chiamare una volta budino mal riuscito e un’altra volta faccia di merda, sudando e odorando di sudore e non riuscendo mai a raggiungere le altre; Carrie che si pungeva con le ortiche mentre faceva pipi nei cespugli e tutti
lo scoprivano (ehi, grattaculo, ti brucia il didietro eh?); e Billy Preston che le metteva un pezzo di margarina nei capelli quella volta che si era addormentata in sala studio; e i pizzicotti, gli sgambetti nei corridoi della scuola, i libri spinti giù dal suo banco, le foto pornografiche infilate nella sua borsa; Carrie che in chiesa si inginocchiava goffamente per pregare e la cucitura della vecchia gonna di madras si strappava lungo la lampo con un rumore da scoreggia; Carrie che non riusciva mai a prendere la palla neanche coi piedi; Carrie che cadeva lunga distesa durante la lezione di danza moderna e si scheggiava un dente; Carrie che finiva contro la rete giocando a
pallavolo; Carrie che aveva le calze sempre cascanti o sul punto di cascare; Carrie che aveva sempre macchie di sudore sotto le ascelle; e la volta che Chris Hargensen le aveva telefonato a casa chiedendole se sapeva che il culo dei maiali in America si chiamava anche Carrie. Di colpo tutto questo si era sommato e si era arrivati all’esplosione. Il colpo definitivo, così a lungo
cercato, era stato inferto. Fissione.
Carrie indietreggiò urlando nell’improvviso silenzio generale ,con le braccia grassocce intorno alla testa e un assorbente infilato tra le cosce. Le ragazze la guardavano con occhi lucidi e solenni.
Carrie si appoggiò a uno dei quattro divisori delle docce, e scivolò lentamente a sedere per terra. Emetteva deboli, disperati lamenti. I suoi occhi bagnati si rovesciarono mostrando il bianco, come gli occhi di un maiale al mattatoio.
Sue disse lentamente, esitando: «Credo che sia la prima volta che…»
A questo punto la porta si spalancò con un colpo sordo e Miss Desjardin piombò dentro a vedere cosa diavolo succedeva.
[…]
«Sto morendo dissanguata!» urlò Carrie, e la sua mano in un gesto di terrore si aggrappò implorante agli short bianchi di Miss Desjardin, lasciandovi un’impronta di sangue.
La faccia dell’insegnante di ginnastica si contorse in una smorfia di disgusto. Con uno strattone la tirò in piedi.
«Vattene là in fondo!»
Carrie prese a oscillare tra le docce e il distributore di assorbenti, tutta rannicchiata, i seni puntati verso il pavimento, le braccia ciondolanti. Sembrava una scimmia. Aveva gli occhi lucidi e lo sguardo vuoto. «Adesso sbrigati!» disse Miss Desjardin, con voce sibilante minacciosa. «Tira fuori uno di quegli assorbenti… no, non serve mettere la moneta, tanto è rotto… su, prendine uno e… accidenti ti vuoi sbrigare? Sembra che tu non abbia mai avuto le mestruazioni!»
«Me-struazioni?» chiese Carrie.
La sua espressione di totale incomprensione era troppo sincera, troppo piena di terrore muto e impotente per essere ignorata o negata. Un nero presentimento si fece strada nella mente di Miss Desjardin. Era incredibile, non poteva essere. Lei aveva avuto le prime mestruazioni a undici anni appena compiuti, ed era corsa da sua madre tutta eccitata, gtidando: «Ehi mamma, ho
le mie cose!»
«Carrie?» disse avanzando verso la ragazza. «Carrie!»
Carrie indietreggiò. Nello stesso istante, una rastrelliera con le clave da ginnastica che stava in un angolo cadde per terra co un fracasso assordante. Le clave rotolarono da tutte le parti, Miss Desjardin fece un salto per evitarle. «Carrie, sono le tue prime mestruazioni?»
Ma una volta ammessa quella possibilità, non c’era più bisogno di chiederlo.
Il sangue scuro scendeva con terribile lentezza. Le gambe di Carrie erano tutte macchiate, come se avesse guadato un fiume di sangue.
«Fa male,» gemette Carrie. «La mia pancia…»
«Ti passerà,» disse Miss Desjardin. Era combattuta tra la compassione e l’imbarazzo. «Devi… ehm, fermare il flusso di sangue. Devi…» Ci fu un lampo sopra di loro, seguito da uno sfrigolio e da uno scoppio: era bruciata una lampadina. Miss Desjardin emise un grido di sorpresa e le venne in mente (ma qui sta andando tutto a pezzi) che queste cose accadevano sempre quando Carrie era sconvolta, come se la sfortuna si volesse accanire contro di lei? Ma questo pensiero le uscì di testa con la stessa velocità con cui si era formato. Prese un assorbente dal distributore rotto e lo estrasse
dall’involucro. «Guarda,» disse, «si fa così…»

Questo breve estratto mostra la cruda e violenta realtà d’un mondo che ha fatto del sangue un simbolo di sopraffazione e dolore. Oggi psicologi ed educatori con in bocca quel bullismo etimologico cercano cause alla natura della violenza, circoscrivendo un muro di parole tra società e carnefice, delegittimando, di fatto, l’indecenza di chi da complice sta a guardare.

“Ciò che mi spaventa non è la violenza dei cattivi; è l’indifferenza dei buoni.”
Martin Luther King

Dopo Palermo, Caivano. Nulla è diverso. Tutto è, spaventosamente, uguale: Una, due, “vittime” e un branco. Poi c’è un cucciolo di riccio, preso a calci, trasformato in un pallone da un gruppo (branco) di bambini. Ha rischiato il piccolo mammifero, salvato in tempo da un passante.

Il sangue deve scorrere sempre. Sembra, quasi, un richiamo per l’essere umano. L’unico modo per sopravvivere, per sentire, provare.

“Amo ascoltare. Ho imparato un gran numero di cose ascoltando attentamente. Molte persone non ascoltano mai.”
Ernest Hemingway     

Può essere questo il motivo? Molte persone non ascoltano, non sentono, non provano?
A me è stato sussurrato, urlato, detto, spesso: non provi nulla.
E ne ho approfittato, ho trasformato questa etichetta in un vestito da indossare in pubblico. Ad un certo punto, nessuno più senti il desiderio di venirmi vicino, persi il buono certo, ma con il buono spari anche il brutto.

Si può sanguinare in tanti modi quindi.
Per esperienza so che due sono, le vie per chi sanguina: lotta o fuga.

Lottare o fuggire?

Un’altro memorabile film racconta magistralmente questo dualismo.
Si può fuggire per tanti motivi, a volte si fugge dalle persone (io, purtroppo, ne so qualcosa). La pellicola in questione è: Thelma & Louise, film manifesto, del riscatto femminile da una società maschilista e violenta, una violenza di cui esse stesse, loro malgrado, si macchiano.
Thelma & Louise è la fuga della donna dal marito violento, dalla routine soffocante e dalla vita sempre uguale.
La scena finale è memorabile e malinconicamente struggente.
Inseguite da decine di auto della polizia, simbolo probabilmente dell’ordine, quell’ordine maschilista che cerca nella sottomissione la cura alla violenza, la nostra Thelma e la nostra Louise si ritrovano davanti ad un baratro (il Grand Canyon), il vuoto, non solo fisico, ma anche spirituale.
Thelma e Louise sono alle strette, senza via d’uscita, se non la sola prospettiva di finire per molto tempo in prigione, subendo umiliazioni ancora peggiori di quella che hanno subito fino a quel momento. Basta loro un attimo per decidere, per dirsi che non si torna indietro. Sul loro volto la felicità per averci provato, per averci creduto.
“Andiamo avanti” grida Louise, e giù il piede sull’acceleratore, mano nella mano.

Perché alla fine si è soli: Lettera di un padre.

Il legante della vita, delle vite che si susseguono, sembra essere, sempre, la violenza e con essa il sangue scorre sempre.

“Togli il sangue dalle vene e versaci dell’acqua al suo posto: allora sì che non ci saranno più guerre.”
Guerra e pace
Lev Tolstoj

Eppure il sangue genera vita.
Frida ora è pronta per generare. Il suo scopo è lo stesso di qualunque altro maschio che l’incontra, non stuprare, non umiliare, né uccidere, creare la vita.

L’uomo nella stessa circostanza riesce solo a far peggio.
Eppure la via esiste, l’amore esiste.

“Gli uomini che aspirano ad essere liberi difficilmente possono pensare di rendere schiavi gli altri. Se cercano di farlo, non fanno che rendere più strette anche le proprie catene di schiavitù.”
Mahatma Gandhi

Forse il senso di tutto è nella libertà che concediamo ai nostri cuori.

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Dolcezze e amarezze della vita

Riallacciandomi alla riflessione condivisa nell’ultimo post, voglio aggiungere un tassello al pensiero, un tassello che segue per forza di cose la natura espressa in quel dì.

Tra gli elementi più rilevanti alla base del pensiero c’era e c’è il sesso.
Quando si parla di prostituzione si sottintende, anzi, si esplicita il sesso.

Nella coppia, è, in molti casi, l’ago, insieme al carattere e alle sue incompatibilità, che determina le dinamiche di scontro.
La mia compagna due anni fa ha subito un intervento chirurgico che ha provocato dei notevoli cambiamenti nel suo stile di vita e conseguentemente causato difficoltà.
Tra questi c’è il rapporto sessuale, in questo momento della sua vita, in cui lotta per adeguare un corpo e uno stile di vita nuovi, è passato in secondo piano, le sue necessità sono altre.

Le mie necessità, in questo contesto temporale potrebbero scontrarsi con le sue, è causare un conflitto tacito e silenzioso.
Questo è quello che accade, secondo me, nella mente degli uomini che per un motivo o un altro vedono chiusa quella porta, quel desiderio.

L’amore mi impedisce di vedere altro se non il suo benessere, il suo stare in pace con sé stessa, non la obbligherei mai a nulla che non fosse per lei un desiderio o una scelta, in questo caso ancor più d’amore. C’è da dire che per natura non sono mai stato tormentato dal sesso, è stata fortunata ad incontrare me 😀 lo so, me la tiro un pò, spero mi concediate questa lusinga.

Certo non è tutto rose e fiori, gli scontri ci sono, è nella nostra natura ancorarci a idee e giudizi e batterci per sostenerli.

Se con uno sconosciuto nulla impedisce di superare il limite del dolore, con chi conosciamo e amiamo quel limite dovrebbe esser invalicabile e invece. Sembra più facile offendere il nostro riflesso che un’ombra.

Amore e violenza, due parole che insieme non stanno bene, non le immagini complementari, ma opposte, la realtà sembra invece prepotentemente gridarci che camminino mano nella mano.

Persino l’amore più innocente quello per i figli vede la violenza un alibi per l’educazione.
Chi non ha mai ricevuto uno schiaffo o una cinghiata?

Amore!!! Quante parole ci sprechiamo e quanti alibi inventiamo per nascondere una natura incapace di viverlo a pieno.

Quanti versi per lusingarlo, provocarlo e infine incoronarlo.

Immaginate una stanza buia, l’unica luce, la luna sfumare delicatamente dalla finestra.
Immaginate un uomo innamorato, nel buio fa sue le forme indefinite del corpo dell’unica amata, tra le mani un oggetto, che quotidianamente usa per accedere la sigaretta, in quei momenti di tormento fisico.
Ecco!!! Ora immaginate.

Tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte
Il primo per vederti tutto il viso
Il secondo per vederti gli occhi
L’ultimo per vedere la tua bocca
E tutto il buio per ricordarmi queste cose
Mentre ti stringo fra le braccia.
Jacques Prévert

Bella no? Che provate a leggere questi versi? Di certo passione, quella che fa arrossire il cuore e tenerezza per quel che la vita riesce a far sbocciare.

Quasi ogni mattina io e la mia compagna facciamo collazione, ieri mentre preparavamo, lei intenta ad uscire dal frigo le delizie, io occupato ad apparecchiare il tavolo, mi sono, senza alcun riguardo per la sua salute, messo a cantare, salute delle sue orecchie perché sono, letteralmente, stonato e così per il purò gusto di dedicarle alcuni versi mi sono impietosamente cimentato in una serenata mattutina.

Oje vita, oje vita mia…
Oje core ‘e chistu core…
Si’ stata ‘o primmo ammore…
E ‘o primmo e ll’ùrdemo sarraje pe’ me!

Potrei concludere, qui, questo pensiero, questa dedica alla mia compagna. L’unico e più grande amore della mia vita, ora insieme a Frida.

Ma aleggia, ancora, nell’aria la violenza, brutto da dire, pericoloso d’affermare, ma è presente nel mio cuore, non si dimentica quel che si è subito e vuoi o non vuoi riemerge a volte latente, come un vecchio e morente fiore di loto che galleggia isolato in un lago calmo e cristallino a volte esplode prepotentemente come le onde in tempesta che s’infrangano sulle rocche alte e violente e l’anima non può che spaurirsi.

Amore e violenza o odio che dir si voglia, due facce per la stessa moneta.
Potevo lasciarvi in bocca la dolcezza della vita e concludere, è, però, un’illusione, irreale, dovete assaporare anche l’amarezza per gustare a pieno la vita, senza illusioni, nella sua interezza, così comè: bella e tragica.

Ed è sempre la poesia a mostrare l’amarezza, come prima ha donato la dolcezza d’un amore delicato.

“[…]
Come sono salita su questo camioncino? Ci sono venuta io da sola? Muovendo i piedi uno dietro l’altro, dietro la loro spinta o mi hanno caricata loro, sollevandomi di peso? Non lo so. Non lo so.
È il cuore, che mi sbatte così forte contro le costole, ad impedirmi di ragionare… e il male alla mano sinistra, che sta diventando davvero insopportabile. Ma perché me la storcono tanto? Io non tento nessun movimento. Io sono come congelata.
Ora, quello che mi tiene da dietro non tiene più il suo ginocchio contro la mia schiena… s’è seduto comodo… mi tiene tra le sue gambe… divaricate come ho visto fare anni fa, ai bambini quando toglievano loro le tonsille. È l’unica immagine che mi viene in mente.
Ma perché la radio? Forse, forse perché non grido. Non c’è molta luce, neanche molto spazio, è per questo che mi tengono semidistesa. Oltre a quello che mi tiene da dietro, ce ne sono altri tre. Li sento calmi, sicurissimi. Che fanno? Si accendono una sigaretta.
Fumano adesso? Perché mi tengono così e fumano? Ho paura, sta per capitare qualcosa, lo sento. Respiro a fondo… due, tre volte. Ma non riesco a snebbiarmi. Ho soltanto paura. Uno, uno si muove, si ferma qua in piedi davanti a me, l’altro si accuccia alla mia sinistra, l’altro a destra, sono vicinissimi. Ho paura, sta per capitare qualcosa, lo sento. Aspirano profondamente le sigarette. Vedo il rosso delle sigarette vicino alla mia faccia.
Quello che mi tiene da dietro non ha aumentato la stretta, soltanto teso tutti i muscoli… li sento intorno al mio corpo come a essere più pronto… a bloccarmi. Il primo che si è mosso, si inginocchia tra le mie gambe divaricandomele, è un movimento preciso che pare concordato con quello che mi tiene da dietro, infatti subito i suoi piedi si mettono sopra ai miei, a bloccarmi.
Io ho sù i pantaloni. Perché mi aprono le gambe con sù i pantaloni? Sono a disagio, peggio che se fossi nuda! Da questa sensazione mi distrae qualcosa che non riesco a capire subito, un tepore tenue poi sempre più forte, fino a diventare insopportabile, sul seno sinistro. Una punta di bruciore. Le sigarette… le sigarette, ecco perché si erano messi a fumare. Io non so cosa debba fare una persona in queste condizioni, io non riesco a fare niente, mi sento come proiettata fuori, affacciata a una finestra, costretta a guardare qualcosa di orribile. Una sigaretta dietro l’altra sotto il golf, fino alla pelle, insopportabile. Il puzzo della lana bruciata deve disturbare: con una lametta mi tagliano il golf da cima a fondo, mi tagliano il reggiseno, mi tagliano… anche la pelle in superficie. Nella perizia medica misureranno ventun centimetri.
Quello che è inginocchiato tra le gambe, ora mi prende i seni a piene mani, le sento gelide sopra le bruciature… Quello che mi tiene da dietro si sta eccitando, sento che si struscia contro la mia schiena. Ora tutti si danno da fare per spogliarmi una gamba sola… una scarpa… sola. Ora uno mi entra dentro. Mi viene da vomitare. Calma, devo stare calma. Mi attacco ai rumori della città, alle parole delle canzoni. Devo stare calma. “Muoviti, puttana. Devi farmi godere”.
Non conosco più nessuna parola, non capisco nessuna lingua. Sono di pietra.
“Muoviti puttana, devi fammi godere”. Ora è il turno del secondo… Una sigaretta dietro l’altra: “Muoviti puttana devi farmi godere”. La lametta che è servita per tagliarmi il golf mi passa sulla faccia una, più volte, non sento se mi taglia o se non mi taglia. “Muoviti, puttana. Devi farmi godere”. È il turno del terzo. Il sangue dalle guance mi cola alle orecchie. “Muoviti puttana, devi farmi godere”. È terribile sentirsi godere nella pancia… Delle bestie.
Sto morendo, riesco a dire. Ci credono, non ci credono.
Facciamola scendere. Sì, no. Vola un ceffone tra di loro e poi mi spengono una sigaretta, qui, sul collo. Ecco, io lì, credo di essere finalmente svenuta. Sento che mi stanno rivestendo. Mi riveste quello che mi teneva da dietro come se io fossi un bambino piccolo. Non sa come metterla con i lembi del mio golf tagliato, me lo infila nei pantaloni e si lamenta, si lamenta perché è l’unico che non abbia fatto l’amore… pardon… è l’unico, che non si sia aperto i pantaloni, mi mettono la giacca, mi spaccano gli occhiali e il camioncino si ferma per il tempo di farmi scendere e… e se ne va.
Mi chiudo la giacca sui seni scoperti. Dove sono? Al parco. Mi sento male… mi sento male proprio nel senso che mi sento svenire… e non soltanto per il dolore fisico in tutto il corpo, ma per la rabbia, per l’umiliazione, per lo schifo… per le mille sputate che mi son presa nel cervello… per… quello che mi sento uscire. Mi appoggio a un albero… mi fanno male anche i capelli… certo me li tiravano per tenermi ferma la testa. Mi passo una mano sulla faccia… è sporca di sangue.
Alzo il bavero della giacca e vado. Cammino… cammino […]”
Stralcio da: “Lo Stupro” di Franca Rame.

Ogni tanto rivedo lo straziante monologo di Franca, dovrebbero mostrarlo con tutta la sua ferocia nelle scuole magari non medie, ma superiori, come esempio di quel che l’uomo non deve essere, di come si deve sentire guardandosi allo specchio, una merda, una vigliacco senza palle e intelligenza, così, come le donne devono comprendere che non è necessario conquistare il cuore di un uomo camuffandosi da puttana, fingendosi una puttana.

Un’amica con grande cuore e empatia, ha espresso la compassionevole volontà di comprendere anche la prostituta, distinguendola dalla puttana e forse ha ragione le prostitute a volte non sono puttane.
Cara amica, però, non ho pietà neanche di loro, come non ne ho dell’uomo che sbatte la faccia di una ragazza sul marciapiede, le strappa le mutandine e la violenta, solo perché a differenza di una puttana dice di no.

Principi e valori.

Come tanti homo sapiens dal nostro piedistallo in coro gridiamo alla pace, alla non violenza, al deporre le armi, e come tante teste di cazzo, tutti, nessuno escluso, facciamo finta di niente mentre armiamo mani e braccia che uccidono, alla faccia della morte. Allo stesso modo camminiamo a passo di lumaca con in mano fiaccole e manifesti in omaggio e ricordo della morta strupata di turno, gridando lo slogan più accattivante, mentre in silenzio si lasciano figlie e figli ruzzolare in un fango virtuale dove accattivanti pose e luccicanti labbra si vestano da puttane, togliendo piano, piano dignità e arte, quell’arte che rende un nudo una preghiera all’anima.

Eccola, la vita dolce e amara di ogni essere umano.

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Il fascino del forte

Ieri è capitato quello che io e mia sorella speravamo non accadesse.
Era già da un pò che stava palesando un atteggiamento ribelle e contestatario, in fin dei conti fa parte della crescita contestare i genitori.
Mio nipote, da inizio anno maggiorenne, ha palesato com’è naturale per la sua l’età, l’età in cui si iniziano a prendere decisioni e seguire ideali, una posizione di pensiero, oggi, purtroppo molto in voga. Colpa, probabilmente, anche della sua attività sportiva, il pugilato.

Ieri c’è stato un acceso dialogo, sulle sue posizioni che stanno, sempre più, andando verso un estremismo nazionalista.
Colpa della madre a detta sua, troppo “inclusiva”.
Come spesso accade la vittima diventa o rischia di diventare carnefice, lui che da bambino veniva preso in giro, oggi prende in giro e critica chi è diverso da lui.

È arrivato a dire – secondo me per pura provocazione, troppo giovane per comprendere il senso profondo dell’affermazione – che è, fascista, ma non il fascista criminale e razzista, quello moderato, perché all’interno del fascismo c’erano anche i moderati che non accettavo la violenza gratuita fine a se stessa. È il fascismo che ha lasciato del buono, quello che adottava un metodo autoritario che oggi manca a detta sua, il fascismo che considerava la violenza come necessaria solo in alcuni casi. Questo mi fa capire che il suo è un pensiero indotto da una nicchia di idealisti, forgiati da un contesto fortemente agostico e nichilistico.

Da tutto questo ci siamo resi conto che il ragazzo è ottuso.

“È una caratteristica delle menti istruite accontentarsi del grado d’esattezza consentito dalla natura dell’argomento e non cercare l’esattezza laddove solo l’approssimazione è possibile.”
Aristotele

Non è mai l’ignorante che fomenta l’odio ideologico, è l’istruito che non va oltre la sua condizione di comprensione, che si ferma all’approssimazione ideologia di una verità, creando inevitabilmente danni e divisioni. Chi crede di sapere tanto da escludere il sapere insito nella sua opposizione, trasforma un’idea in un’arma.

Comprendo che è giovane e che la maturità porterà altre posizioni, ma riflettendoci, ieri, mi sono dovuto arrendere al fatto che il fascino del forte (per non dire male) è, in alcuni casi, irresistibile.

Per chi è stato un debole, rivalersi, può diventare come una droga, un effetto allucinogeno che può dare dipendenza.
Il mondo diventa il nemico su cui scatenare, rabbia e frustrazione.

Più è diverso il riflesso più è acuta la cuspide che punge.“Sei grassa”, non è un insulto è, solo un evidenza, un fatto, che non può portare a definirmi bullo, “io non me la prendo se mi dicono ottuso”. Ecco cosa pensa la gioventù d’oggi, questi i ragionamenti sfiorati ieri con mio nipote.

Ad un certo punto gli esempi cambiano, prima sono i genitori, dopo le celebrità, poi …. Bisogna con intelligenza e dialogo contrastare ogni esempio che possa nuocere, ma anche qui è questione di prospettiva, per me la Meloni è un brutto esempio, per altri è invece la guida da seguire.
È tutto relativo. Il buon senso? Un punto di vista.

Stamattina sono uscito con Frida una passeggiata, oramai è quasi libera e può godersi le belle giornate. Mentre passeggiavamo abbiano incontrato una signora con un cane e poi un’altra ancora, quest’ultima ha detto una frase che rispecchia gli esempio sbagliati che girano e che il tempo ha reso verità da usare come giustificazione per la paura, il pregiudizio e perché no anche la violenza.
La signora ha riconosciuto in Frida la razza pitbull, ed ha sorridendo detto, che si è fermata solo perché era cucciola, se era adulta non si sarebbe fermata, anzi, avrebbe cambiato strada, non si fida dei pitbull, ne ha visto uno uccidere un altro cane.

Ho cercato di spiegare insieme all’altra signora che non è il cane, “cattivo”, ma il padrone, il pitbull come ogni altro cane se educato con amore non attacca nessuno. E anche fosse non sarebbe da meno certo dell’essere umano, che a violenza non è secondo a nessuna razza.

Il pitbull è riconosciuto come un esempio di violenza e brutalità, e lo è.
È l’esempio della violenza e della brutalità che un uomo ha nel cuore. Il pitbull è l’esempio di quello che l’uomo può infliggere ad una creatura innocente e incapace di far male.

“Quelli che rendono impossibili le rivoluzioni pacifiche rendono le rivoluzioni violente inevitabili.”
John Fitzgerald Kennedy

Era una soleggiata giornata primaverile. Come ogni sabato Giulia si recò dalla nonna materna per accompagnarla a fare una passeggiata lungo la spiaggia. All’anziana donna faceva bene camminare e respirare l’aria di mare, e Giulia adorava passare del tempo con sua nonna con la quale spesso si confidava.
Quella mattina la giovane ragazza era molto triste per aver rotto con il suo fidanzato la sera precedente.
Parlando del suo stato d’animo con la nonna, chiese: “Come si fa a mantenere un amore e farlo durare?”
La nonna guardò la nipote e le rispose: “Raccogli un po’ di sabbia e stringi il pugno…”
Giulia strinse la mano attorno alla sabbia e vide che più stringeva, più la sabbia gli usciva dalla mano.
“Credo di capire cosa vuoi dire, nonna. La sabbia scappa” – disse la ragazza.
“Ora tieni la mano completamente aperta…” – aggiunse la nonna con un sorriso.
Una folata di vento portò via molta della sabbia rimanente.
La nonna sempre sorridendo disse: “Adesso raccogli un altro po’ di sabbia e tienila nella mano, mantenendo la mano aperta come se fosse un cucchiaio…”.
Giulia fece quanto suggerito e capì.
La sabbia non sfuggiva dalla mano ed era allo stesso tempo protetta dal vento, perché la mano era sufficientemente chiusa per custodirla e sufficientemente aperta per lasciarle la sua libertà.
“Ecco come far durare un amore”

La storia potrebbe esser all’apparenza slegata dalla prima parte della mia riflessione, ma nulla è slegato dalle mani che accudiscono, proteggono e insegnano.

Che sia un ragazzo o un cane, che sia una singola voce o un popolo intero è nel modo in cui noi tutti accogliamo le parole e con le parole le emozioni, che si forgiano idee di pace.

poveroMani

Buon 25 Aprile a tutti.