Ci sono molti articoli in rete sull’omicidio di Martina Scialdone, vittima dell’ex che non si dava pace per la fine della loro relazione, il quale, in ottemperanza a un iter ormai codificato – il cui modus operandi varia solo in relazione all’arma da usare – alla lite in un ristorante di Roma ha fatto seguire un colpo di pistola al petto della 34enne. L’articolo che più mi ha incuriosita è quello che riporta alcune note biografiche dell’ingegnere 61enne che si struggeva per amore. Tra queste: famiglia d’origine numerosa, un fratello morto in un incidente stradale, due sorelle che si sarebbero suicidate a distanza di pochi mesi, e la scelta di lavorare in smart working dopo aver saputo di avere un tumore ai polmoni. Solo io, in questi elementi, scorgo traccia di una possibile giustificazione di cui gli avvocati difensori potrebbero tener conto? Il punto è che se le iraniane vengono vessate, incarcerate e violentate, e ogni volta che se ne presenta l’occasione condannate a morte, le italiane sono vittime di una cultura patriarcale che non è neppure agonizzante e, quantunque non letale come quella iraniana, bisognosa tuttavia d’essere arginata. Del resto basta guardare ai casi in cui l’omicida è un giovane uomo per capire quanto sia apparentemente ineradicabile.
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