Catastrofe

Molto si è scritto a proposito dell’alluvione in Emilia-Romagna, e troppe sono state le polemiche che non hanno tenuto conto dei tempi del lutto, tempi che esigono di non essere violati da diatribe incardinate sul rispettivo tornaconto delle parti belligeranti. Meglio sarebbe, a tempo debito, affidare la conta dei danni al dialogo, evitando la ricerca pedissequa delle colpe di chi quelle terre ha governato in maniera evidentemente eccepibile. Del resto, almeno in questo frangente, a chi giova aprire lo scrigno delle cialtronerie e delle scelleratezze che a rigore di logica sono imputabili a più d’uno?

Catastrofe” è il titolo che Maurizio Maggiani dà alle sue riflessioni, e ci regala una pagina tra le più delicate e dense dell’intero panorama giornalistico italiano, che in molte occasioni ha dato prova di perdersi tra i rivoli di un evidente fallacia del discorrere.

“È una delle molte parole che i latini hanno preso in custodia dal greco per descrivere ciò che a loro, così poco inclini all’assoluto, non riusciva di dire. E appunto catastrofe ha a che fare con l’assoluto; da katà, giù e stréphein, voltare, rivolgimento totale. Dalla catastrofe non c’è riparto; se dalla disgrazia (vedi voce relativa) c’è riparo nella provvida benevolenza divina, se dalla tragedia possiamo trovare riparo nella giustizia, la catastrofe non dà scampo. Ai bordi delle strade di Faenza si ergono, sul pelo del fango liquido d’argilla che ancora sciorina mosso da correnti ignote, grandi monoliti, opere di una civiltà remota. Sono le cataste delle cose andate perdute. Ogni genere di cosa, persino l’inimmaginabile, perché le vite mettono assieme anche questo, anche l’inimmaginabile. Tutto, anche il più piccolo oggetto, è ricoperto da un consistente strato di finissima argilla scivolata via dai famosi calanchi faentini che lo sigilla e trasfigura, ne fa qualcosa di astratto, una creazione artistica, ardita, più che post moderna che potrà anche essere messa in un forno e diventare porcellana. Chi ha posseduto quelle cose ora le guarda e fatica a riconoscerle, non sono più niente di quello che è stato, e dunque ciò che è stato non lascerà una qualche traccia familiare di sé, può non essere mai stato. Questa è la natura devastatrice della catastrofe, rivolgimento totale, nulla è salvabile, riutilizzabile, adattabile. Punto e a capo. E il punto è lì, ovunque evidente nell’orizzonte catastrofico, e l’accapo è nell’invisibile altrove”.

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