Billy il Cane

A ben guardare è una storia che possono scrivere in tanti. Basta che i tanti abbiano avuto un cane, e con lui aver costruito un rapporto speciale. Poi, certo, Alberto Rollo possiede la maestria che gli arriva dal curriculum di scrittore e saggista, e il lettore si soffermerà sulle sue pagine con maggior piacere. Però, poiché tutte le storie d’amore sono belle – e mi verrebbe da dire che quelle tra essere umano e animale lo sono particolarmente – si perdonerà al narratore meno dotato qualche ingenuità di tipo strutturale. Del resto, chi resta indifferente a un assaggio di infinito?

Ho trovato questa lingua. Tracce ha lasciato, e io ci sono andato dietro, niente di più semplice. Mi viene facile andar dietro alle cose. Sarà l’olfatto. Sarà che cerco. Sarà che trovo. Sono capace.

So chi sono. So di sapere, e sapendo di sapere eccomi bestia impeciata di storia e di pensiero. Dicevano: «Gli manca la parola». Roba che ammoscia, immaginazione molle. Dicono che è un modo di dire, dicono. I modi di dire sono trappole. O scorciatoie.

Non mi è mai mancato niente, sia ben chiaro.

Ma la lingua degli umani mi è entrata dentro senza fatica, più come una pioggia che cade dal cielo che come una conquista. E dunque eccomi qui che parlo come lui, tale e quale, come loro, che mi hanno lasciato in dotazione anche vezzi e trucchi. Poi magari ogni tanto rispondo solo alla chiarezza canina, è inevitabile. Detto questo, so che avrei potuto farne a meno di questa lingua, ma ci sono impastato dentro da una vita.

[…]

Mi chiamano.

Ho poco tempo, e io lo so: lo so dalle zampe che appoggiano incerte sulla terra, dalla vista che si appanna, dal sonno che mi sopraffà, che vuole sciogliersi, che mi scioglie.

Ci sto comodo qui dentro. Mi chiamano. Mi troveranno?

Non mi sto nascondendo.

Devo proteggere la vergogna dello strappo, respirare quest’ombra e questa solitudine.

Torno dove ho cominciato. Mi verrebbe voglia di pregare, di chiudermi nella mia attesa come in una preghiera.

Io ho guardato il mondo senza parametri. Mi son preso le misure da solo.

Per loro sono un piccolo cane.

[…]

Non lo abbiamo perduto, ha voluto perdersi. Ce lo dicono, impassibili, gli uomini di campagna. Dignità animale, capiamo, ed è un concetto tanto cristallino quanto tremendo. Mi aggiro per le balze che sto imparando a conoscere. È solo una dozzina di mesi che chiamiamo nostro questo ettaro di terra. Ci abbiamo raccolto le olive lo scorso autunno. Billy, verso sera, era sparito. L’avevo ritrovato sotto il tavolino dell’annesso agricolo. Ci si era infilato come si è sempre infilato sotto il letto, le sue latebre. E ora son tornato spesso a quel tavolaccio sperando di ritrovarlo. Latebra è il mondo là fuori ormai, è tutto un oscurarsi profondo, l’Ade da cui vorremmo che ci venisse incontro.

«Billy!» chiamo come se ora, solo ora, potesse sentirmi, come se la notte di luglio lo aiutasse a sentirmi. Sono sicuro che mi sente. Mostrati, sussurro fra me e me. Dammi un indizio.

Eccoli, sento che mi chiamano. Per tutta la campagna gridano «Billy!» e io mi sono trascinato dove solo una faina può trovarmi, o una volpe, e volpe e faina saranno benedette, bestie di estinzione. Solo se non hai fretta riesci veramente a sparire e io non ho fretta, ma ho colto al volo la distrazione e ho cercato e trovato il rifugio, l’anfratto, le latebre. Qui faine o volpi mi estingueranno se sarò di loro gusto, o magari un lupo, se mi trovasse semivivo.

[…]

Della loro lingua possiedo, me ne rendo conto, una certa proprietà. Loro la chiamano così: «proprietà», che è come dire coerenza, congruenza, logica. Purtroppo non sapranno mai che io sapevo, che so, e che sapendo posso competere: sì, perché loro credono di avere gli strumenti per raccontarmi, ma non potrebbero mai farlo così come lo faccio io. Loro cianciano di memoirs, roba che lascia cattivi odori. Io mi imbroglio e li imbroglio e sto a mezza strada, muso nel vuoto animale, culo nel mondo umano – ma posso anche invertire la posizione.”