Il sapore della malinconia

I migliori libri di settembre secondo Wired | Wired Italia

Mi sono bastate poche pagine per capire che questo non era un libro da consegnare all’oblìo e così, visualizzandolo nella nicchia destinata ai preferiti, l’ho incastonato tra quelli col dorso che va dal glicine al blu. Colori a parte, succede lo stesso con le persone: ne incontri una che inspiegabilmente ti apre uno spiraglio sull’infinito e decidi di tenerla con te. Bastano pochi minuti. Se ci pensi, la mattina per prepararti il caffè ne impieghi qualcuno in più. Se poi la storia non ha un lieto fine, come questo libro che già svela in premessa dove vuole andare a parare, non importa.  Purché, dopo i titoli di coda, si giunga pian piano ad apprezzare “il sapore della malinconia”, che è un po’ come salvare il salvabile e pensarsi sopravvissuti, ma senza avvertire il retrogusto amaro dei primi tempi, quando a sprimacciare l’altro cuscino non ci si pensa proprio per paura di cancellare il solco. Tuttavia, se si appartiene alla schiera desiderante ricchi premi e cotillon, meglio lasciar perdere i minuti istintuali e agire per calcolo. Magari indossando i panni del burocrate dell’amore, che non concede al cuore il lusso di una tuta alare e al sole nega di smarrirsi tra le sue stanze.

Quante volte mi sembrava di trovarlo incupito, chiuso nell’involucro della sua ferinità, divinità pensosa all’ingresso di un mondo che doveva restare ignoto. C’erano cupezze che avrei potuto ascrivere nel catalogo delle emozioni mie. Le metteva in comune, mi ci lasciava entrare. Certamente il sapore della malinconia lo conosceva. Sedeva sulla poltrona blu del mio studio e sfiatava malinconia tutta di naso. Da Ponte avrebbe detto che aveva gran pensieri in mente, e di sicuro ce li aveva. Come li leggesse dentro di sé non saprei.

La poltrona blu sta nell’angolo della libreria fra Marcel Proust, Henry James, il teatro di Racine, Marivaux, Molière e Shakespeare. I saggi sono altrove, la filosofia lontanissima. Søren Kierkegaard irraggiungibile. Mi piace pensare che consultasse non visto quel po’ di patrimonio dell’umanità.

Una settimana dopo il suo arrivo fu come desse retta a Calibano, a cui Shakespeare fa dire: «Ricordati, per prima cosa, di impossessarti dei suoi libri, perché senza di essi non è che un interdetto come sono io, e non ha più alcuno spirito a cui dare ordini». Addentò La tempesta, ma poi prese a nutrire un rispetto davvero encomiabile per il libro cartaceo. Forse Calibano ambisce al potere di Prospero, alle sue magie. Per Billy il Cane si trattava di pura rabbia, immagino, o, meglio ancora, era in gioco la misura dei nuovi confini. Quel volume non l’ho conservato, ma c’è traccia dei suoi denti su Riccardo III e sono ancora lì, perché mi piace che abbia lasciato una sua personale selezione dell’opera shakespeariana. Certo che ha letto, ne sono sicuro – l’ha fatto per osmosi. In fondo siamo animali osmotici, ci passiamo l’un l’altro bene e sapienza.

Avrei qualcosa da dirgli, vorrei fermare la notte, vorrei svegliare la natura quando invece inclina verso il riposo e il sonno, che mi dica la strada, che il silenzio si volga in bisbiglio, che i volatili diurni collaborino con i notturni e concordino sulla via da prendere per trovarlo. Sto con la schiena contro l’albicocco e spingo lo sguardo sin dove può arrivare. Son pronto a perdonare.

Alberto Rollo, Billy il Cane