Retriva

Mauro Corona: biografia, alpinismo e curiosità su Mauro Corona - Montagna.TV

C’è il rischio d’essere bollati come retrivi confessando d’avere un’inspiegabile fascinazione per il tempo mai vissuto. Ma se quel tempo – a cui non sai dare un nome perché ne ha almeno cento – ti viene raccontato con la sapienza divertita di un Mauro Corona o di chiunque altro sia in grado di affabulare narrando, è probabile che una connessione esplicativa la trovi. Solo bisogna tenere per sé lo struggimento che ne consegue, ché certa contemporaneità mal sopporta i conservatori. Figuriamoci i retrivi.

Oggi mio padre avrebbe compiuto cento anni. Era del ’23. Scrivo questo “calendario sentimentale” anche per lui, per onorare la sua triste memoria. Tante cose, svolte nelle stagioni, le ho fatte sotto la sua guida. Erano azioni condotte in regime di terrore. Altre, più belle e importanti, le ho frequentate col nonno paterno, dentro un regime di bontà e pazienza. Entrambi sono morti da anni. Del primo non sento la mancanza, del secondo sì. […] Prima che il monte Toc perdesse la carne con la frana che ancora oggi gli lascia esposte le ossa, il nostro calendario divideva i mesi coi nomi dei lavori che si dovevano svolgere in quel periodo. Gennaio era il mese del letame, febbraio delle maschere, marzo degli sterpi, aprile era il mese delle vanghe. Maggio piegava i virgulti, giugno scuoteva i campanacci, luglio era mese del fieno. Agosto apparteneva a musiche e canti, settembre alle grappe che ubriacavano frutti di bosco. Ottobre mese delle foglie, novembre re delle cataste, dicembre degli abeti bianchi. Così si andava avanti. Pochi mezzi, poche illusioni, scarse speranze e molta serenità. […]

Gennaio era il mese del letame. Lo si spargeva sui campi innevati, che in autunno dovevano dar patate. […] Pochi conoscono il peso specifico del letame spostato a spalle. Piombo pastoso, compatto, denso e sgocciolante ancora fresco, marmoreo quando stagionato. I miei fratelli e io guardavamo esterrefatti e impauriti quel bianco puro, liscio, perfetto improvvisamente sporcato, contaminato, oltraggiato dalle chiazze scure del letame o dai numerosi mucchi a cono rovesciato. Qualcosa non tornava nelle nostre anime. […] Quando il materiale stercoso s’accumulava troppo in fretta, urgeva portarlo in loco a primavera, prima che l’erba premesse. A quel punto la faccenda cambiava musica. La pasta argillosa generava un percolato denso che usciva dalle gerle finendo sulla schiena. Per proteggersi alla buona, si metteva un sacco di iuta infilato a mo’ di cappuccio sulla testa che da lì scendeva alle anche. A portare il letame nelle gerle erano solo donne. […] Ogni tanto, quando il letame era tenero per la primavera incipiente, qualche cinico maschio fingeva di sbagliare badilata e buttava una zolla di merda bovina in testa alla portatrice, specie se carina. Dopodiché, inscenando scuse false, giù risate e commenti sarcastici.

D’inverno, quando il letame diventava marmo, e finiva sulla neve anch’essa di marmo, gli scherzi cambiavano forma. Sulla pala stava un blocco di pietra scavato a picconate. Cosa c’era di meglio che sollevare la badilata di sterco più in alto del necessario e calarla con forza nell’apertura della gerla? Prese alla sprovvista, le poverine piegavano le ginocchia fino in terra. Con l’ulteriore sforzo di doversi rialzare. Genuflessione obbligata agli dei dell’arroganza. Non sempre le prese di mira accettavano di buon grado. Una volta Genoèfa dal Col reagì di suo carattere. All’ennesima badilata di concime tenero sulla guancia, si voltò, lasciò cadere il carico, afferrò con le mani una grossa fetta di merda sgocciolante e la spalmò sulla faccia dell’incauto cretino. Accanto a lei, Zolìana de Bia disse: «Efa, non buttare così il letame, merda su merda è roba sprecata».

Mauro Corona, Lunario sentimentale