Una vita da mediano

Poiché ci piace poco la disciplina e ancor meno il rigore, proviamo maggiore empatia per il mediocre, anche se di nascosto tutta la nostra ammirazione – fatalmente destinata a convertirsi in invidia – è per chi ha saputo fare la differenza e ora gode degli allori. Il problema è che troppo presto prendiamo coscienza del fatto che il successo esige il sacrificio, sacrificio che di solito bussa alla porta quando la carta d’identità ci autorizza a spassarcela ancora. Ecco allora che ci risolviamo per un ruolo da mediano (Ligabue docet), salvo poi scoprire che avremmo potuto diventare ben altro se solo avessimo sudato sette camicie invece che una. Primo Levi, che sul lavoro eseguito a regola d’arte ci credeva, scrisse:

Il muratore italiano che mi ha salvato la vita portandomi cibo di nascosto per sei mesi, odiava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando gli facevano costruire un muro, lui lo faceva dritto e solido, non per obbedienza, ma per dignità professionale“.

Ora, se le mie nipoti di diciannove e vent’anni avessero la bontà di leggere il mio blog potrebbero, adesso che sono a un crocevia, riflettere su quanto sia importante non protocollare l’approssimazione tra le aspirazioni della vita, perché ci si consegna all’insanabile contraddizione di ambire alla vetta pretendendo di sottrarsi al percorso faticoso e accidentato che la sua conquista sottende.