Millenium21

Lo scrigno dei segreti dei Pink Floyd


Per me questa roba è spazzatura, ma se voi siete convinti fate un po’ quello che volete”.

Così si espresse Norman Smith, produttore discografico, all’ascolto di “A Saucerful of Secrets”.

I Pink Floyd stavano vivendo un momento delicato a seguito dell’estromissione del chitarrista e cantante Syd Barrett; i due vecchi manager Peter Jenner e Andrew King mollarono tutto per stare dietro a Syd, convinti che, senza di lui, il resto della band non avrebbe avuto alcun futuro (...oltre 250 milioni di copie in tutto il mondo). Con Barrett se ne era andato l’autore delle canzoni dei primi Pink Floyd,  il suo incedere stralunato riusciva a conferire alla band quel tocco di originalità che valeva a distinguerla dal resto dei gruppi dell’epoca. Gli altri membri, fino a quel momento, si erano limitati a fornirgli un diligente supporto ritmico, quasi una complesso di accompagnamento capace di andar dietro alle sue folli peregrinazioni.

Eppure con lui la band non aveva più alcun futuro. Dilaniato dall’uso smodato di lisergici e dalla sua labilità psichica, il membro fondatore dei Pink Floyd  era ormai fuori dal regno dei significati ( o almeno ne avrebbe potuti avere altri col suo talento).  Dal vivo, il gruppo era riuscito a metterci una pezza, assoldando il chitarrista David Gilmour, amico d’infanzia di Syd, che ne conosceva bene lo stile ed era in grado di riprodurne il modo di suonare. Ma tutto l’estro creativo della band si era perso.

Per compiere  il secondo album, iniziato l’anno precedente quando Syd era ancora nel gruppo (alcuni brani portano il suo contributo), i restanti membri dovevano riempire ben dodici minuti con un unico brano, strumentale e sperimentale.

Gilmour, Wright, Waters, Mason riuniti in una stanza davanti ad un foglio di appunti, indecisi su come procedere, tracciarono linee come studenti d’architettura quali erano all’epoca. “Il brano deve salire qui,  scendere qui, qui, deve fare così”:  un grafico, una strategia da combattimento da tradurre in musica e suoni. L’incedere in senso figurato era più o meno questo: un momento iniziale di tensione, l’esplosione del conflitto vero e proprio,  il requiem finale.

Nacque così A Saucerful of Secrets, una suite idealmente divisa in quattro parti:  Something Else. Syncopated Pandemonium, Storm Signal, Celestial Voices. Il nome con cui iniziarono a portarlo in tour era "The Massed Gates of Hercules".

Il risultato non fu un brano facile da comprendere, tanto meno da "digerire", ma il gruppo lo affinò nel corso dei concerti portandolo in tournée per diversi anni. Oltre alla versione originale nel disco omonimo, restano le testimonianze ufficiali live , nel vol. I di Ummagumma (1969), e nel film concerto “Live at Pompeii” del 1972, diretto da Adrian Maben.

Proprio la versione di Pompeii, grazie all’ausilio delle riprese video, aiuta a comprendere come la band si stesse muovendo in quel momento come gruppo, in modo figurato. Al di là delle suggestioni dovute dalle riprese effettuate nel luogo, che ritraggono la band suonare all’interno dell’Anfiteatro romano, senza pubblico, questa versione risulta la migliore anche sotto il profilo esecutivo, per due fondate ragioni.

Tutta la parte iniziale e centrale velocizzata e più latente rende meglio l’idea del conflitto che anima il brano; la riduzione  a 10 minuti lo rende incisivo e con un maggior tiro. La parte finale del Celestial Voices (il Requiem) contiene due chicche che la distinguono dalle versioni solite dei Pink Floyd in tour. Il tastierista Richard Wright, per la parte d’organo, sostituisce il Farfisa Compact Duo con l’Hammond B3; la chitarra di David , con lo slide, risuona come un gabbiano che si staglia in cielo dalle rovine dell’Anfiteatro.

E se la prima parte dell’esecuzione resta ostica all’ascolto, tuttavia maggiorata dall'imponente richiamo del gong di Waters, gli ultimi quattro minuti del “Celestial Voices” di Gilmour costituiscono ancora oggi un autentico o r g a s m o, visivo e, soprattutto, sonoro.

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https://www.youtube.com/watch?v=cEfS98F89Ho