LUCA MORI, Mappa e territorio. Il problema del referente nelle rappresentazioni del mondo, in NOEMA, n. 5-2, anno 2014, ricerche
[…]
Quando Alfred Korzybski scrive del rapporto tra linguaggio, mappa e territorio , precisa quanto segue:
“[…] Due importanti caratteristiche delle mappe devono essere prese in considerazione. Una mappa non è il territorio che rappresenta (A map is not the territory it represents), ma, se corretta (correct), essa ha una struttura similare al territorio (similar structure to the territory), che dà conto della sua utilità. […] Se riflettiamo sui nostri linguaggi, troviamo che al massimo essi possono essere considerati solo come mappe. Una parola non è l’oggetto che rappresenta; e i linguaggi esibiscono anche questa peculiare auto-riflessività, che rende possibile analizzare i linguaggi mediante mezzi linguistici. Questa auto-riflessività dei linguaggi introduce rilevanti complessità, che possono essere risolte soltanto con una teoria della multiordinalità […]. Trascurare queste complessità è tragicamente disastroso nella vita quotidiana e nella scienza.” (Cfr. A. Korzybski, Science and sanity. An Introduction to Non-Aristotelian Systems and General Semantics, The International Non-Aristotelian Library Publishing Company, Lakeville (Connecticut) 1933; 1973)
In Gregory Bateson – il più celebre tra coloro che hanno ripreso la considerazione di Korzybski – il rapporto tra mente e mondo è tale che è l’osservatore a dare contorni alle cose. C’è coimplicazione e, per così dire, co-emergenza tra osservazione e contorno. Possiamo tuttavia chiederci se, in qualche modo, non siano proprio le differenze percepite nel territorio a giustificare una mappa, o almeno a farcela preferire ad altre mappe possibili: in tale prospettiva, quelle differenze possono bensì restare implicite e latenti finché non interviene l’osservazione, ma sarebbero pur sempre nel territorio oltre che nella mappa, almeno “in qualche modo”. In alternativa, si potrebbe argomentare che, se ammettiamo di conoscere il territorio sempre e soltanto tramite selezioni di differenze fatte emergere dall’atto di osservazione, propriamente non conosciamo il territorio, ma solo mappe e mappe di mappe.
[..]
Perciò ci sono carte diversamente «realistiche» per differenti società e, in generale, le mappe non si limitano a segnalare come andare da un posto all’altro, ma consentono di esprimere i «molti modi (many ways)» in cui cerchiamo di comprendere il mondo. Ad esempio, nelle mappe cinesi è molto importante la fusione di immagine e testo, del denotativo e dell’espressivo, dell’utile e del bello; per leggere certe mappe dei navigatori della Micronesia, invece, bisogna saper riconoscere un’isola non in un qualche segno che le corrisponda, bensì inferendone la presenza da linee intrecciate e sovrapposte che segnalano configurazioni di onde e correnti; di conseguenza, navigando, bisogna saper sentire e riconoscere la corrente. Restando in Europa, con riferimento al Medioevo, Naomi Reed Kline (2001) ha mostrato come una mappa possa essere un dispositivo/schema concettuale (conceptual device), in cui quelle che potremmo percepire come distorsioni hanno un senso preciso e conseguono al prevalere della preoccupazione concettuale su quella pratica. Harley pensa invece alle mappe come a mediazioni tra un mondo mentale interiore ed un mondo fisico esterno, che aiutano l’uomo a «dar senso (make sense)», e dunque ad orientare il proprio universo, in diverse scale . La storia delle mappe è anche storia di credenze e di universi di senso. Nella loro carta del Mondo, databile al VI secolo a. C., i Babilonesi avevano posto al centro del disegno Babilonia, laddove i Medievali avrebbero collocato Gerusalemme. Nel mappamondo di Ebstorf (XIII sec.), l’est è nella parte alta della carta, simboleggiato dalla testa del Cristo, che indica di conseguenza il nord e il sud con le mani e l’ovest con i piedi; il che richiama una mappa del cosmo egiziana del IV secolo a. C., chiusa nel ventre di una divinità.
Quando si dice che non abbiamo un accesso cognitivo diretto al territorio in senso stretto, s’intende dire che non possiamo vedere, conoscere e riconoscere l’infinità di differenze che attribuiamo al territorio e che ogni singola differenza rilevata (ogni particolare concreto) è già una costruzione per via di selezione: ci rapportiamo al territorio soltanto selezionando, includendo ed escludendo, lasciando qualcosa sullo sfondo. Il territorio è come l’orizzonte o la frangia delle nostre mappe: lo intravediamo, per così dire, nei passaggi tra le mappe e le molteplici descrizioni possibili. Diciamo, con Bateson, che il territorio è scenario di infinite differenze non perché le abbiamo viste, ma ci rendiamo conto che ogni nostra mappa è una necessaria semplificazione rispetto all’eccedenza di differenze che fa da sfondo alla sua costruzione. Il territorio è ciò che postuliamo e proiettiamo dietro le nostre mappe, allorquando intravediamo la parzialità delle mappe di cui disponiamo, la possibilità di averne altre e l’impossibilità di una mappatura definitiva. Possiamo distogliere lo sguardo dalle mappe, non assolutizzarle, non prenderle alla lettera, intravedendo l’irriducibilità di mappa e territorio e ne consideriamo la relazione.
[…]
Uno scienziato che, come Bateson, ha contribuito all’orientamento epistemologico della complessità, Maturana, poteva sostenere che la mappa è il territorio: il territorio è l’ambiente della cognizione, ma il sistema cognitivo è informazionalmente ed operazionalmente chiuso, cosicché la cognizione non avviene per passaggio d’informazioni dal territorio alle mappe, ma per passaggi tra mappe e per il conseguente complessificarsi dei domini cognitivi:
“non possiamo parlare del substrato nel quale è dato il nostro comportamento cognitivo, e su ciò di cui non possiamo parlare, dobbiamo tacere, come indicato da Wittgenstein. Questo silenzio, tuttavia, non vuol dire che cadiamo nel solipsismo o in qualche specie di idealismo metafisico. Vuol dire che riconosciamo che noi, come sistemi pensanti, viviamo in un dominio di descrizioni, come è già stato indicato da Berkeley, e che attraverso le descrizioni possiamo aumentare indefinitamente la complessità del nostro dominio cognitivo.” (H. R. Maturana, Biologia della cognizione (1970), in H. R. Maturana, F. J. Varela (1980), Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, trad. it., Marsilio, Venezia 1985, 20045 , p. 105 (ed. or. 1980)
Seguendo Varela, ci si può interrogare sulla «via di mezzo» tra l’oggettivismo «che richiede un mondo prestabilito di qualità da rappresentarsi» e il solipsismo «che nega completamente le relazioni con un mondo». Come nell’approccio di Varela, anche in quello di Bateson finiamo per ammettere di conoscere solo mappe e mappe di mappe, non senza una qualche relazione con il territorio. Ma questa relazione è precisamente ciò che non possiamo dire o rappresentare in una mappa. Parafrasando quanto Klee diceva dei suoi quadri, le mappe rendono visibile il territorio.
Dovremmo aggiungere che non rendono visibile la propria relazione con il territorio, poiché questa può essere solo evocata dall’osservatore capace di confrontare e sostituire mappe: già nel Tractatus di Wittgenstein, del resto, la nozione chiave non è quella di verificazione, ma quella di confronto, Vergleich. Accedere al territorio potrebbe allora significare che, mentre si lavora su alcune mappe possibili, si è in grado di tenere fisso uno sfondo.
[…]
6. Conclusioni
In tutti i casi affrontati nell’articolo emerge un caratteristico problema di intermedietà concernente la posizione dell’osservatore, collocato tra le sue rappresentazioni del mondo e il riferimento al mondo come referente delle rappresentazioni. Come sostenne Wilhelm von Humboldt facendo riferimento al linguaggio, con i segni l’uomo accede e vive in un regno intermedio tra le rappresentazioni e il mondo: ma i segni svolgono di volta in volta la funzione di potenti stabilizzatori, de-stabilizzatori e moltiplicatori di mappe, cosicché è nel passaggio tra le mappe che si colgono anzitutto le differenze.
La nozione di mondo intermedio, introdotta da Alfonso Maurizio Iacono, può aiutare a tematizzare le relazioni tra mappe, mappe di mappe e territori. In questa prospettiva, con ‘mappa’ possiamo genericamente intendere, in via provvisoria, una selezione di differenze o, meglio, un insieme strutturato di differenze che fanno la differenza per l’osservatore. Ci sono mappe, livelli di mappe e mappe di mappe. Già la percezione, lo suggerisce anche Bateson, segna per così dire il territorio selezionando differenze; i segni, i sostituti con cui l’essere umano si relaziona a sé e al mondo, consentono poi di fissare e articolare in mappe le differenze selezionate e le loro relazioni.
Tra le posizioni che abbiamo considerato nell’articolo, quella di Maturana è la più singolare e sembra eliminare il problema dell’intermedietà, poiché considerando le basi neurofisiologiche della conoscenza umana non distingue più come polarità autonome e sussistenti i due termini della relazione mappaterritorio. Le nostre mappe diventano il nostro territorio e non possiamo uscirne. Circolarmente, il solo territorio che possiamo conoscere e di cui possiamo parlare consiste nelle nostre mappe. Muoversi nel territorio e conoscerne aspetti diversi significa dunque muoversi tra mappe e considerarne parti diverse o possibili variazioni, quali si ottengono cambiando codici o regole di “proiezione”. Ma il territorio da proiettare, per noi, non è altro che una mappa “costruita” dall’embodied mind. Pretendere di uscire dalle mappe o anche soltanto di sporgersi al di là del loro contorno sarebbe come pretendere di spogliarsi del sistema nervoso: significherebbe figurarsi in una posizione in cui non si può essere, come se si potesse conoscere il mondo senza il filtro neurofenomenologico che ci contraddistingue, senza il quale non potremmo esistere né conoscere.
Se da un lato la tesi di Maturana contrasta con l’affermazione di Korzybski citata in partenza e ripresa da Bateson, l’analogia tra territorio e cosa in sé kantiana proposta dallo stesso Bateson riconduce alla posizione di Maturana, giacché della cosa in sé – in quanto in sé – non possiamo dire né conoscere alcunché. Possiamo dunque tentare di conciliare le due posizioni affermando che 1) la mappa non è il territorio e 2) poiché il territorio in sé ci è inaccessibile, 3) la mappa è il solo territorio di cui possiamo parlare e che possiamo conoscere. Questa ipotesi di riscrittura utilizza il termine ‘territorio’ con due significati differenti. Ci sono un territorioX che ci rimane inaccessibile e non rientra nelle nostre mappe – di cui, citando il Wittgenstein ripreso da Maturana, non possiamo che tacere – e un territorioM – il nostro territorio – costituito dalle nostre mappe, con le loro differenze. La riflessione di Bateson invita in effetti a tenere presente la questione della differenza, ossia di come possiamo percepire e concettualizzare le differenze che fanno la differenza per noi, e di quali ne siano i referenti. Da qui possiamo ricavare un’altra ipotesi per elaborare la relazione mappa-territorio, facendo riferimento alla possibilità di un territorio ‘intravisto’.
Quando si dice che non abbiamo un accesso cognitivo diretto al territorio in senso stretto, s’intende dire che non possiamo vedere, conoscere e riconoscere l’infinità di differenze che attribuiamo al territorio e che ogni singola differenza rilevata (ogni particolare concreto) è già una costruzione per via di selezione: ci rapportiamo al territorio soltanto selezionando, includendo ed escludendo, lasciando qualcosa sullo sfondo. Il territorio è come l’orizzonte o la frangia delle nostre mappe: lo intravediamo, per così dire, nei passaggi tra le mappe e le molteplici descrizioni possibili. Diciamo, con Bateson, che il territorio è scenario di infinite differenze non perché le abbiamo viste, ma ci rendiamo conto che ogni nostra mappa è una necessaria semplificazione rispetto all’eccedenza di differenze che fa da sfondo alla sua costruzione. Il territorio è ciò che postuliamo e proiettiamo dietro le nostre mappe, allorquando intravediamo la parzialità delle mappe di cui disponiamo, la possibilità di averne altre e l’impossibilità di una mappatura definitiva. Possiamo distogliere lo sguardo dalle mappe, non assolutizzarle, non prenderle alla lettera, intravedendo l’irriducibilità di mappa e territorio e ne consideriamo la relazione.
Se conosciamo transitando tra mappe, consegnarsi ad una visione singola significa ingannarsi. È la preoccupazione che William Blake espresse poeticamente in una lettera a Thomas Butts il 22 novembre 1802: «May God us keep from single vision and Newton sleep». È interessante che il Newton di Blake conservato al Tate Britain di Londra sia chinato pesantemente verso terra, mentre con il compasso disegna presumibilmente una mappa del cielo. L’immagine ricorda la postura del Dio di The Ancient of Days, posta nel frontespizio inciso di Europe. A Prophecy (1794): qui è il vegliardo che si china verso il basso, disegnando il mondo con due raggi di luce che si divaricano ricordando l’apertura di un compasso. Come se il punto di vista di Newton (o di un’altra mente geometrizzante) potesse restituire all’uomo il disegno originario alla base del cosmo – e dunque la mappa definitiva, vera in quanto coincidente con l’essere: riformulata in più varianti, l’attitudine epistemologica che sostiene tale credenza induce a ricercare la «single vision», mentre l’orientamento epistemologico della complessità sollecita ad interrogarsi sulla possibilità di percepire più aspetti e relazioni attraverso la moltiplicazione delle mappe.
(pp. 19-20, 21-22, 30-31, 34-36)
“Che ne è esattamente […] della facoltà di giudicare? […] Dalle mie esperienze di vita posso solo dire che non ho avuto davvero certezze che con le persone che possiedono questo rarissimo dono della ragione […] Ma dovremmo parlarne. E so che se potessimo parlarne insieme e «prenderci per i capelli» tutto sarebbe improvvisamente diverso”. Nel senso che tutto potrebbe chiarirsi.”
Hannah Arednt a Karl Jaspers, 1963
(fonte web)
http://www.treccani.it/vocabolario/mappare/
http://www.cronachediordinariorazzismo.org/sport-preferito-il-salto-alle-conclusioni/
Paul Klee, Case rosse e gialle a Tunisi, 1914
Paul Klee, Uno sguardo al paesaggio, 1926
Federico Clapis, Addolorata Concezione, 2018
Federico Clapis, Connection, 2017
Federico Clavis, Cultivating the void
Mappa mundi babilonese, c. 500 a.C.
https://it.wikipedia.org/wiki/Mappa_mundi_babilonese
Imago Mundi – La mappa babilonese del Mondo (VI secolo a.C.)
Riccardo di Haldingham e Lafford, Mappa di Hereford, 1276-1283
https://it.wikipedia.org/wiki/Mappa_di_Hereford
http://www.lundici.it/2017/08/imago-mundi-viaggio-fantastico-in-una-mappa-medievale/