176. cara Poesia, ti chiedo scusa … e un po’ di Pablo Neruda

Cara Poesia, ti chiedo scusa.

Per la mia parte, perché evidentemente non ho espresso e vissuto nei giusti modi il mio amore per Te. E quindi il mio non è stato un buon esempio. Esempio, silente e delicato esempio, che è potente tacere del verbo e potente canto del gesto. E non convincimento dell’altrui sentire, non invasione dello sguardo altrui, non strategia comunicativa col doppio fine di vendere se stessi o i propri prodotti.

Ti vedo usata, abusata, violata. E stupisce che, a farlo, sempre più spesso siano coloro che dicono di amarTi; in psicologia parleremmo di bias cognitivi, ma non qui non adesso, non con con Te così vicina al mio cuore e così ricca di sorprese e protezioni. Ti vedo fraintesa e scambiata con proclami o con parole che nulla hanno di Te. Ti vedo scambiata con altro da chi pensa di scrivere di Te e con Te e invece farfuglia balbettii. Ti vedo fatta a pezzi, ridotta a frasette. Ti vedo utilizzata come ‘cavallo di troia’ per portare altri fini, che sono l’io di chi ti abusa, o la vendita di qualcosa, o attirare le persone dentro i trabocchetti personali per farsi belli agli occhi degli altri.
Ti vedo diminuita, rimpicciolita, abbassata dai tanti che sono convinti di amarTi, gli stessi che rimangono identici a come erano prima di leggerTi e non si aprono, non diventano più Grandi entrando innamorati e fiduciosi nella dimensione che Tu proponi; ma che sono convinti di averlo fatto, questo grande passo, solo per il motivo di aver sentito un’emozione, un riconoscersi: un ri-conoscersi, appunto, e non un Non-Conoscersi, uno smarrirsi trovandosi in un altrove, quell’Altrove proposto da Te, quel Novum che naturalmente ci fa essere diversi.

Perché, se accadesse davvero il Novum in tutto il nostro essere, saremmo davvero diversi, non potremmo mai più essere quelli che eravamo prima di incontrarTi e leggerTi, e il mondo sarebbe migliore.
Non Ti sbandiereremmo ai quattro venti dell’esibizionismo e della superficialità, bensì Ti terremmo stretta al cuore, celata come cosa preziosa da proteggere, Ti faremmo circolare di nascosto come Pacifici Cospiratori Di Bellezza: allora sì il mondo Ti conoscerebbe attraverso i nostri comportamenti mutati e illuminati da Te e rinnovati dal Tuo Maestoso Narrare.
Avremmo rispetto della nostra Casa-Madria-Terra; avremmo rispetto delle persone e delle cose; fondamentalmente avremmo rispetto per quel Noi Stessi che apre agli Altri, per quell’ ‘Io’ che finalmente conosceremmo com’è realmente, e cioè fatto di Mondo, di Universo, e tale che  non può vivere senza Mondo-Universo; un Io immenso perché include tutte le diversità, come Tu, Poesia, in splendido modo sai dirci.
Ci scopriremmo Originali Costruttori Di Tutto Ciò Che Tu Descrivi, e non agiremmo più scimmiottando imitando copiando come invece facciamo, nella nostra massificata impotenza ad agire secondo la Nostra Unica E Irripetibile Strada avuta in dono per realizzare la Vita.

E invece.

Era un po’ di tempo fa. Il mio cuore batteva forte quando le parole si mettevano insieme in un certo modo, quando mi facevano scoprire nuovi mondi e nuove me stesse. Ero piccola, curiosa, gioiosa. Era difficile condividere quel tumulto del cuore.

Era un po’ di tempo fa. Ero una ragazzina innamorata di Te. Spesi una cospicua mancia ricevuta per il mio 15esimo compleanno per comprare il mio primo libro di poesie, erano le poesie di Neruda e fu come scoprire l’Universo, altre strade apparvero in un mondo fino allora per me etereo, ed erano le strade del corpo, dell’amore fisico fatto di natura e rispetto e molteplicità. Dell’incanto fece parte il testo a fronte, una somiglianza dell’italiano con la lingua originale e quindi il piacere incommensurabile della comprensione della lingua in cui aveva scritto il poeta. Ché dovremmo imparare tutte le lingue anche solo per rispettarTi, leggendoTi nella lingua in cui nasci.

Era un po’ di tempo fa. Ero una ragazza. Qualche amica comprendeva. Ci regalavamo poesie per i compleanni, per Natale, e anche senza scuse, così, con riservatezza, incontrandoci, salutandoci: un foglietto piegato, parole scritte, Ti regalavamo sempre per intero, non Ti spezzettavamo mai, dall’inizio alla fine eri preziosa, non solo quella frase che sembrava corrispondere a un’esperienza a noi già nota o che sembrava ‘colpire di più’, anzi, non potevamo fare a meno di tutta la Tua Completezza.
Erano cose intime, non dette ad altri. Non avevamo bisogno di proclami, caso mai erano i nostri comportamenti che  mutavano dall’incontro con Te; le Tue Parole, Cara Poesia, erano terra sole acqua fertilizzante dei nostri gesti.

Era un po’ di tempo fa. La parte della mia libreria a Te dedicata aumentava sempre più, la parte del Prezioso Silenzio, la parte che noi Trafficanti di Armonia ci scambiavamo senza nulla dire, il gesto della mano che tiene il libro, il gesto del braccio che si protende verso l’amica, lo scambio e null’altro: e poi diventare più belle-buone, senza i trucchi senza gli orpelli senza le mode, col cuore nel cuore. Provarci, almeno; impegnarsi; e a volte riuscirci.

Era un po’ di tempo fa. Ero una giovane donna. Il consumismo aumentò in modo vorticoso; l’esibizionismo iniziò a farsi strada fino a stravincere sulla discrezione e sul sottrarsi; l’economia i guadagni e ‘io possiedo’ divennero i figli prediletti di ogni discorso e di ogni azione. La televisione si insinuava e prevaleva su altre attività di comunità, instillando il veleno dell’apparire, dell’apparire ad ogni costo. Apparire e vendere, anche i libri e soprattutto i non-libri. Nacquero gli opinionisti, i padri e le madri di ogni nostro ‘parlare su tutto e di tutto’, venditori di opinioni e di ogni cosa. Iniziò un certo ‘mescolarsi’ che poi divenne normalità, anzi doverosa moda, sciccherie di inconsapevoli parvenu dell’‘ultimo grido’ nel mondo che è andato oltre il consumo, arrivando alla violazione di ogni cosa che tocca, reMida che fa oro ma fa morire di fame il corpo e l’anima.

E Tu, Cara Poesia, anche Tu sei stata fatta diventare una moda, un bene di consumo, esposto sugli scaffali dell’Io piccolo piccolo che non vuole crescere e si serve di Te per farsi bello, per specchiarsi senza fine nella pozza di Narciso.
Presentazioni di libri con miscuglio di cibo e di poesia, che andrebbe pure bene se fosse davvero cultura e non commercio; miscugli di tutto senza senso, anzi con il solo senso di guadagnare-vendere-guadagnare; mescolanze di frantumazioni e disidentificazioni che hanno come effetto quello di irrigidire l’identità e renderla bandiera di una patria esclusiva; affermazioni e pareri su di Te, che invece vuoi solo essere amata, e non venduta al migliore offerente al mercato dove ogni cosa è ormai resa schiava: tutti a dire di Te senza conoscerTi, senza tuffarsi in Te, senza espandersi attraverso Te, senza amarTi con la costanza della scoperta, senza farsi nuovi ad ogni incontro con Te, senza abbracciarTi baciarTi fare l’amore con Te.
Senza tuffarsi totalmente in Te, e nella vita di chi Ti scrive, e in tutto di Te, in ogni virgola, in ogni spazio in ogni sillaba e accenti e rime e risonanze e ritmi.

E’ oggi, il giorno dopo dedicato alla Tua giornata mondiale e, come disse qualcuno, l’istituzionalizzazione fissa il Movimento e lo fa morire. Non voglio festeggiarTi, voglio viverTi.
Una delle cose che Tu puoi insegnarci è proprio vivere nel Movimento, essere capaci della fluidità di cui  anche sei fatta: è una grande sfida, mai esperita dal genere umano e invece costanza della Natura in cui viviamo e di cui Tu sei amorosa portavoce. Tu, tra le cose inventate dagli umani, quella che più ci apri al mondo alla natura alle diversità; Tu fatta di parole di tutti i giorni rese incantate magiche potenti dal Tuo tocco divinatorio profetico veggente.

Tu, Poesia.

Tu.
Canto da cantare con le mani gli occhi i piedi i seni i fianchi. Canto da cantare dando cibo a chi non ne ha. Canto da cantare accogliendo i profughi. Canto da cantare stando vicini agli anziani e ai malati. Canto da cantare recuperando fino all’impossibile gli errori fatti. Canto da cantare aggiustando una casa. Avendo cura di tutto ciò che incontriamo e viviamo. Facendo crescere un fiore.  Coltivando un orto anche minuscolo. Facendo in modo che ci siano spazi per orti e giardini e campi da coltivare. Canto da cantare aggiungendo posti letto negli ospedali pubblici, e non togliendoli. Canto da cantare non coprendo il mondo con una coltre di smog; non facendo più morire le persone di guerre, di mancanza di acqua e di cibo.
Canto da cantare per cambiare le impostazioni delle nostre vite.
Canto sublime.

Allora sì che possiamo declamare recitare cantare le parole che Ti compongono.
Allora, solo allora potremo scorporare alcune frasi, conservare pezzetti di Te, meditarci su, per poi rimetterle nel loro contesto come un gioiello nello scrigno o come una perla sfilata dalla sua collana  e poi rimessa insieme a tutte le altre a ricomporre la completezza del monile.

Allora sì, allora sì avremmo capito amato baciato reso vita versi come “dolce è chiara è la notte e senza vento, / e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti / posa la luna, e di lontan rivela / serena ogni montagna”.
Allora sì che “quindi uscimmo a riveder le stelle”.
Allora sì che avremmo nei nostri passi la “Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura”.
Allora sì che “m’illumino d’immenso”.
O “Voglio cantare, voglio inneggiare: / svegliati  mio cuore, / svegliatevi, arpa e cetra, / voglio svegliare l’aurora.”
Allora sì “Sous le pont Mirabeau coule la Seine / Et nos amour / Faut-il qu’il m’en suovienne / La joie venait toujours après la peine”.
Allora, ad ogni Tua parola fatta nostra carne e non esibizione, allora sì che potremo dire “io vivo, io sono, io amo” e cantarTi a squarciagola, utopia fatta realtà, sogno diventato azione, progetto realizzato.
Allora sì, quando diventiamo noi stessi Poesia.
Quando diventiamo noi stessi Poesia, allora sì che potremo dire “Confesso che ho vissuto” le stesse meravigliose parole del titolo del diario di Pablo Neruda.

 

Perdonami Poesia, se non Ti ho nascosta abbastanza dai predatori del Tuo Tesoro, in modo da poterTi poi cantare integra in ogni attimo del futuro responsabile che, seguendoTi, creeremo; perdonami se non Ti ho saputo rendere vita come la Tua stessa essenza richiede.
Spero Tu possa ritornare silenziosa come seme quale sei, prima del Tuo Giusto E Atteso Dilagare Attraverso Le Nostre raggiunte Maturità Di Esseri Umani.

 

Qui, in questo spazio, e dopo queste considerazioni-a-modo-mio, regalo cinque Poesie tratte dal libro che fu uno dei mattoni per la vita dell’adolescente che fui.
Se qualcuno vuole farne sangue respiro passi mano-tesa amore perdono carezza responsabilità rispetto, eccole.

Sono tratte, aprendo il libro a caso, da PABLO NERUDA, Poesie d’amore, a cura di Giuseppe Bellini, Nuova Accademia, 1963/1971

 

PER IL MIO CUORE …

Per il mio cuore basta il tuo petto,
per la tua libertà bastano le mie ali.
Dalla mia bocca arriverà fino al cielo,
ciò ch’era addormentato sulla tua anima.

In te è l’illusione di ogni giorno.
Giungi come rugiada alle corolle.
Scavi l’orizzonte con la tua assenza.
Eternamente in fuga come l’onda.

Ho detto che cantavi nel vento
come i pini e come gli alberi di nave.
Com’essi sei alta e taciturna.
E ti rattristi all’improvviso, come un viaggio.

Accogliente come una vecchia strada.
ti popolano echi e voci nostalgiche.
Mi son svegliato e a volte emigrano e fuggono
uccelli che dormivano nella tua anima.

(in ‘Venti poesie d’amore e una canzone disperata’, pag. 53)

 

SENTO LA TUA TENEREZZA …

Sento la tua tenerezza avvicinarsi alla mia terra,
spiare lo sguardo dei miei occhi, fuggire,
la vedo interrompersi, per seguirmi fino all’ora
del mio silenzio assorto, della mia ansia di te.
Ecco la tua tenerezza d’occhi dolci che attendono.
Ecco la tua bocca, parola mai pronunciata.
Sento che mi sale il muschio della tua pena
e mi cresce tentoni nell’anima infinita.

Questo era l’abbandono, e lo sapevi,
era la guerra oscura del cuore e tutto,
era il lamento sprezzato di angosce commosse,
e l’ebbrezza, e il desiderio, e il lasciarsi andare,
ed era questo la mia vita
era questo che l’acqua nei tuoi occhi portava,
era questo che stava nel cavo delle tue mani.

Ah, farfalla mia e voce di colomba,
ah coppa, ah ruscello, ah mia compagna!
Il mio richiamo ti raggiunse, dimmi, ti raggiungeva
nelle ampie notti di gelide stelle
ora, nell’autunno, nella danza gialla
dei venti affamati e delle foglie cadute!

Dimmi, ti giungeva,
ululando o come, o singhiozzando,
nell’ora del sangue fermentato
quando la terra cresce e vibra palpitando
sotto il sole che la riga con le sue code d’ambra?
Dimmi, m’hai sentito
arrampicarmi fino alla tua forma per tutti i silenzi,
per tutte le parole?

Mi son sentito crescere. Mai ho saputo verso dove.
Al di là di te. Lo capisci, sorella?
Il frutto s’allontana quando arrivan le mie mani
e rotolano le stelle prima del mio sguardo.

Sento che son l’ago di una freccia infinita,
che penetra lontano, mai  penetrerà,
treno di umidi dolori in fuga verso l’eterno,
gocciolando in ogni terra singhiozzi e domande.

Ma eccola, la tua forma familiare, ciò ch’è mio,
il tuo, ciò ch’è mio, ciò ch’è tuo e m’inonda,
eccola che mi empie le membra di abbandono,
eccola, la tua tenerezza,
che s’attorce alle stesse radici,
che matura nella stessa carovana di frutta,
ed esce dalla tua anima spezzata sotto le mie dita
come il liquore del vino dal centro dell’uva.

(in ‘Il fromboliere entusiasta’, pag. 99 e 101)

 

L’INFINITA

Vedi queste mani? Han misurato
la terra, han separato
i minerali e i cereali,
han fatto la pace e la guerra,
hanno abbattuto le distanze
di tutti i mari, di tutti i fiumi,
e tuttavia
quando percorrono
te, piccola,
grano di frumento, allodola,
non riescono a comprenderti
si stancano raggiungendo
le colombe gemelle
che riposano o volano sul tuo petto,
percorrono le distanze delle tue gambe,
si avvolgono alla luce della tua cintura.
Per me sei un tesoro più colmo
d’immensità che non il mare e i grappoli,
e sei bianca e azzurra e vasta come
la terra della vendemmia.
In questo territorio,
dai tuoi piedi alla tua fronte,
camminando, camminando, camminando
passerò la mia vita.

(in ‘I versi del capitano’, pag. 159)

 

ODE E GERMINAZIONI
I

Il sapore della tua bocca e il colore della tua pelle,
pelle, bocca, frutta mia di questi giorno veloci,
dimmi, furon senza sosta al tuo fianco
per anni e viaggi e lune e soli
e terra e pianto e pioggia e gioia,
o solo ora, solo
escono dalle tue radici
come alla terra secca l’acqua reca
germinazioni che non conosceva
o alle labbra della brocca dimenticata
sale nell’acqua il gusto della terra?

Non so, non dirmelo, non sai.
Nessuno sa queste cose.
Ma avvicinando tutti i miei sensi
alla luce della tua pelle, sparisci,
ti fondi come l’acido
aroma di un frutto
e il caldo di una strada,
l’odore del mais che si sgrana,
la madreselva della sera pura,
i nomi della terra polverosa,
il profumo infinito della patria:
magnolia e fratta , sangue e farina,
galoppo di cavalli,
la luna polverosa del villaggio,
il pane appena nato:
ahi, tutto della tua pelle torna alla mia bocca,
torna al mio cuore, al mio corpo,
e torno ad essere con te
la terra che tu sei:
in me tu sei profonda:
torno a sapere in te come germoglio.

(in ‘I versi del capitano’, pag. 252 e 254)

 

C

In mezzo alla terra scosterò
gli smeraldi per scorgerti
e tu starai copiando le spighe
con una penna d’acqua messaggera.

Che mondo! Che profondo prezzemolo!
Che nave navigante nella dolcezza!
E tu forse e io forse topazio!
Più non sarà divisione nelle campane.

Più non sarà che tutta l’aria libera,
le mele portate dal  vento,
il succulento libro sulla pergola,

e lì dove respirano i garofani
fonderemo un vestito che resista
l’eternità di un bacio vittorioso.

(in ‘Cento sonetti d’amore. A Matilde Urria, Notte, pag. 401)

 

https://www.limesonline.com/rubrica/la-tutela-delle-foreste-e-una-priorita-ma-la-politica-sembra-non-capirlo?fbclid=IwAR2IS15w_IV2kkP3SxGuFI3NDyATG5GtH1Lumuj4R-DSzJquS4cy7qHKni0

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176. cara Poesia, ti chiedo scusa … e un po’ di Pablo Nerudaultima modifica: 2020-03-22T14:29:04+01:00da mara.alunni