170. è il corpo, è il corpo il più sconosciuto

Continua. Mia madre mi fa domande che piano piano mi chiariscono cosa si sta dibattendo nel suo mondo interiore. Le sue domande sull’anima cercano un appiglio di fisicità che duri nell’aldilà in cui lei crede, qualcosa di fisico, di quel corporeo di cui lei ha unica esperienza.
“Il babbo è ancora come l’abbiamo visto l’ultima volta, vero?” mi chiede, intendendo per ‘ultima volta’ l’attimo prima che venisse chiusa la cassa.
“Non lo so, mamma.” le rispondo dal centro di una battaglia in cui mi dibatto per sovrapporre, al ricordo di mio padre immobile e ormai lontano da noi, le immagini e il ricordo di lui vivo, di lui che sorride, che cammina, che parla, che balla, che lavora …
“Sì, è ancora così.” si rassicura mia madre. “Quando riaprirono la cassa di mio padre, dopo più di sessant’anni che era morto, era ancora intatto, per qualche secondo lo videro così e poi l’aria lo polverizzò. Non lo vidi io, lo vide il babbo, che era lì al cimitero ad aiutare a fare i lavori.”
“… non lo so … sicuramente è come dici tu …” le dico.
“Mi manca tanto.” dice.
“Anche a me.”
Quando andiamo al cimitero, mia madre mia sorella e io, sostiamo smarrite davanti all’ultima dimora fisica di mio padre. Io porto in me un’incredulità che mi rende difficile anche scegliere la lapide per mio padre, che mi rende impossibile decidere per questa “casa” dove io non abiterò insieme a lui; mentre invece la casa dove abbiamo abitato insieme è vuota di lui e di tutto ciò che lui era.
E’ un vuoto fisico quello che sento, sento la fisicità del vuoto lasciato da mio padre. E’ come se sentissi il suo corpo in forma di vuoto. Non mi consola andare a sfogliare i libri sul corpo, anzi … loro sono qui nella mia libreria, fisicamente presenti con le loro parole fisicamente stampate a parlarmi del corpo attraverso pensieri di autori famosi, mentre mio padre è una forma di assenza fisica.
E le parole di mia madre mi traghettano verso riflessioni ancora più impegnative di quelle sull’anima.

Dell’anima è più o meno normale non sapere, più o meno normale immaginarla in modo totalmente diverso dal corpo, eterea, spirituale, una forma fluttuante, una non-forma, una trasparenza, un suono, un’eco, una diffusione costante di uno stato di pienezza … è normale immaginarla, o negarla e nel negarla comunque immaginare cosa si stia negando …

Ma il corpo.
Il corpo non si immagina.
Cioè, siamo convinti che non si immagina. Il corpo c’è, lo vediamo, il nostro, quello degli altri.
E invece no. Anche in questo caso, vediamo ciò di cui siamo convinti.
Quale corpo vede ognuno di noi?
Come percepisce il proprio corpo ognuno di noi?
Dove comincia il corpo? Dove finisce il corpo?
Mia madre vorrebbe che anche l’anima avesse un corpo, lo vorrebbe per essere rassicurata nel suo dolore; forse di questo era convinta e adesso la mancanza fisica del babbo fa crollare una sua convinzione fondante del suo mondo.

Io ho sempre pensato che il corpo sia la parte più intima che abbiamo, la parte più nascosta, quella che non espongo, quella che tutelo.
Questo è il corpo che mi manca di mio padre. Il più esposto e contemporaneamente il più intimo, il più evidente e contemporaneamente il più nascosto. Quello che non ho mai visto fino in fondo, che non ho conosciuto perché lo vedevo attraverso i miei filtri mentali, quello che ancora aspettavo di conoscere: l’evidenza fisica che invece ci sfugge, che è ‘sotterrata’ dal nostro sguardo, dal nostro tatto.
Mi manca ciò che lui era e che non so, ciò che attraverso il corpo trasmetteva e che io interpretavo invece di amare.
E adesso che lui è ‘sotto la terra’ col suo corpo non più visibile, sento tutta la piccolezza della condizione umana dell’interpretare che ‘sotterra’ ogni attimo ogni evidenza; ricorro con le immagini della memoria al suo corpo vivo, così splendidamente sotto gli occhi di tutti, come ogni corpo di ognuno di noi, e così incredibilmente sconosciuto.
Ne danno notizia la medicina, la comunicazione, la psicologia, l’antropologia, l’educazione fisica … eppure il corpo rimane sconosciuto, la fisicità è inafferrabile, il soggetto è un elemento grammaticale al limite dell’astrazione, il “chi sei” non è salvato da una relazione che esiste solo per giudicare.

“Dov’è il babbo?” sembra chiedere mia madre, allargando la sua certezza che il corpo di mio padre riposa il sonno eterno alla speranza che di quel corpo sopravviva la fisicità l’unicità la bellezza in un dove che però sempre più le sfugge, per lasciarla poi incredula nel vuoto di questa realtà in cui viviamo e nel sospetto della vanità di un aldilà che somiglia sempre meno al suo immaginario.

‘Dove sei?’ ci chiediamo quando ci manca una persona, non ‘chi sei?’. ‘Dove’ include una fisicità che il ‘chi’ può anche tralasciare; ‘dove’ include anche il concetto, metaforicamente, di ‘a che punto sei con la tua vita?’, ed è anche questo significato che diamo al ‘dove sei?’ di quando ci manca una persona.
La mancanza ci fa spostare in un ambito più ampio di ricerca dell’altro/a, ci fa chiedere di un intero mondo dell’altro/a. Ci rende forse più umili, più pronti a raggiungere l’altro/a, dovunque sia. Raggiungere, cioè superare la distanza, il limite, il giudizio; vedere finalmente.
Rimanere abbagliati da ciò che fino a quel momento non si è visto, sorprendersi dell’evidenza fisica dell’esistenza, di quella evidenza così preziosa e così sconosciuta.

Prima che sia troppo tardi.

 

babbo e io con fontana

 

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170. è il corpo, è il corpo il più sconosciutoultima modifica: 2020-02-23T20:16:42+01:00da mara.alunni