Com’era piccolo il mondo ai tempi in cui nacque Gesù Bambino. Era piccolo anche mille e duecentoventitré anni dopo, quando san Francesco a Greccio inventò il presepe, giusto otto secoli fa. O quando Dante scrisse la storia universale di tutti i tempi e dell’umanità, parlando in realtà quasi sempre di vicende accadute tra la Toscana e dintorni e trasferite in cielo o negli inferi. Era un microcosmo ancora piccino, entrava tutto in uno sguardo, come nel presepe; la terra era al centro dell’universo, il sole la riscaldava e la luna vegliava la notte. Il sole paterno, la luna materna, tutto era in famiglia. E al centro la terra, come il Bambino tra il padre e la madre, l’asino e il bue, e un piccolo popolo che andava da Lui. L’intero universo convergeva a Betlemme, ombelico del mondo. La terra era poco abitata, le città erano rare, le altre poco più che villaggi. Un impero che sembrava dominare la terra, valicare i monti, attraversare i mari, era in realtà un centro abitato in mezzo alla natura, una civiltà circondata dall’ignoto. Il lontano era rappresentato dai Re Magi che venivano da terre remote, ma in fondo non molto lontane, a testimoniare che tutto l’universo si dava appuntamento in un luogo, che si pensava cruciale per l’intero creato, ed era solo un punto illuminato immerso tra ombre sconfinate e oscuri cammini. Altri continenti restavano ignoti. Un punto di raccolta ben indicato dalla segnaletica celeste, raggiungibile attraverso il primo navigatore satellitare e terrestre, la stella cometa, che guidava verso quella meta. Le stelle in quel tempo punteggiavano il cielo, quasi affabili, raccolte intorno alla terra per accudirla e decorarla; e si facevano ancora più splendenti per incoronare il piccolo Re del mondo, disceso dai cieli in una grotta della Palestina. Le distanze non erano siderali, l’infinito era un modo di dire che indicava le vie del Signore, che aveva mandato dal cielo in terra Suo Figlio, a mostrare la contiguità dei due mondi, il rapporto filiale dell’una dall’altro. Quel piccolo mondo non era affatto perfetto, era povero e crudele, a volte cruento, ma tutto sembrava a portata di mano, anche la morte e la santità erano di casa, si viveva di vicinanza. Poi si è perso quel mondo piccolo e circoscritto scagliato come una biglia tra le galassie, smarrito tra pluriversi e tempi infiniti. Tutto è svanito nella solitudine cosmica dove il tutto è niente, solo un minuscolo frammento di tempo e di spazio sperduto nell’immensa amnesia di astri, costellazioni, miliardi d’anni e pianeti. E la vita umana, la vita terrestre si riduceva a una piega trascurabile dell’universo, un lembo sottile e passeggero, come una virgola nell’infinito. Il mondo era piccolo, allora, e non conosceva altri mondi e altre vite, oltre quella che si chiamava storia dell’uomo. Non era il piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro e nemmeno il mondo piccolo di Giovannino Guareschi, che alludevano uno al piccolo mondo di ieri, l’altro al mondo paesano, della provincia padana. Ma era il mondo intero a essere piccolo agli occhi di chi ci viveva dentro. E il presepe ne era la rappresentazione, la mappa. Perduto quel piccolo mondo raccolto intorno a un evento divino ma familiare, venne lo spaesamento, la fluttuazione gratuita tra essere e sparire. L’infinito è il Niente. La fisica ha ingoiato la metafisica, il buio ha inghiottito la luce, il caos ha risucchiato l’ordine del mondo; tutto svanisce negli interminati spazi e nei sovrumani silenzi, e dissolve quel presepe vivente e morente che sembrava al centro di tutta l’esistenza dell’uomo, della storia e della natura. La perdita del centro produsse effimere illusioni policentriche e poi onnicentriche, fino a che si colse la vanità di ogni confine e l’evanescenza di ogni centro. Estraneità incommensurabili, l’immenso vanifica il concreto a noi più vicino. La ricerca oltre gli spazi domestici deve continuare, la sete di conoscere è necessaria e feconda, l’esplorazione di mondi sconosciuti, l’avventura del sapere nell’ignoto non deve fermarsi; ma non può diventare il buio la misura della luce, l’infinito la misura del finito, il non essere la misura dell’essere. Altrimenti ci disperdiamo nel vuoto e nel nulla. Bisogna che il mondo resti dentro la sua misura confacente. Il piccolo, nella sua prossimità, è l’autentico, il genuino, l’identità. Per continuare a vivere, a credere, a pensare e sperare, forse dovremmo, dico forse, fermarci dentro quei limiti, non scrutare gli abissi, accettare di vivere dentro il nostro orizzonte, ancorarci alla realtà, alla natura e ai suoi confini; non siamo déi ma uomini, mortali e imperfetti. Facciamoci bastare quel mondo, quella vita, quel presepe, quella carezza, quel Bambino. E più non dimandate . I greci saggi avevano orrore per l’infinito (Apeiron) e figuravano la perfezione come un cerchio e non una retta che si perde nell’infinito come si perde la mente nella notte della pazzia. Ritenevano che la peggiore insolenza dell’uomo fosse l’hybris, la tracotanza smisurata che rende superbi e poi dementi. Non misurate la realtà coi desideri illimitati. La civiltà è un perimetro delimitato dai propri confini, non solo geografici, e dal proprio cono di luce. Salvo gli ardimentosi esploratori e le loro missioni nell’ignoto, la vita è accettazione saggia del nostro destino e dei suoi limiti. Amor fati. Perciò conviene ripartire dal piccolo, riprendere a pensare e a vivere nella prossimità, nella realtà accessibile, tra mete raggiungibili e illuminate, in un mondo amico, vicino e comprensibile, alla nostra portata. Dovremmo forse, dico forse, rientrare in quell’habitat, accettare quel che avemmo in sorte, abbracciare i presenti, ricordare gli assenti. Rientrare nel presepe, trovare il nostro posto, riconoscere gli altri, riaffermare la vicinanza, assumerci il fardello che ci tocca in sorte. Ripartire dal piccolo, come il Bambino, ritornare alla prossimità, ritrovarsi in un mondo che non è aperto all’infinito, ma alle vicine latitudini, nella comune finitudine. L’infinito lasciamolo all’infinito; noi torniamo a casa, per Natale.
Marcello Veneziani