La calda umanità di Giovannino

Chissà perché ma quando arrivano le feste natalizie ci viene sempre in mente Giovannino Guareschi col suo mondo piccolo, fiabesco e sanguigno. Guareschi è un autore natalizio, domestico, familiare, cristiano e paesano, e perciò il suo nome, i suoi racconti, i suoi personaggi sono di casa in questi giorni, sanno di presepe e di vita genuina. Distano anni luce dal nostro presente, abitano una preistoria sentimentale, politica, civile, umana ormai difficile da concepire oggi, vivono in una dimensione paesana e rurale, tra casa e parrocchia, sezione e piazza, canonica e municipio, operai e contadini. Un mondo popolato e vivace, non abitato da solitudini depresse, osservato con benevolo umorismo. Ai credenti narra la familiarità coi santi, l’affabile prossimità col divino, l’intreccio quotidiano tra naturale e soprannaturale. Un mondo padano ed emiliano simile, in molte cose, al sud di una volta e a ogni provincia nostrana. La vita semplice e combattiva dei suoi personaggi che sembrano vivere sotto il cielo e sopra la terra con più naturale consonanza di noi, più evoluti e contorti, scontenti e sofisticati nipoti, è scandita da un alfabeto elementare degli affetti, delle passioni, della vita e della morte, della fede intrepida, anche politica. Se don Camillo è il prete che portiamo nel cuore, generoso senza essere buonista, in confidenza col Signore ma anche pronto a usare le mani per una causa buona e giusta, anche Peppone il sindaco, in fondo, è il comunista che abbiamo più amato, il più simpatico e verace dei compagni, anche lui a suo modo motivato dalla giusta causa e da forti ideali di giustizia sociale e di riscatto dell’umanità. Pur parteggiando per don Camillo, Guareschi ha mostrato rispetto e simpatia per l’umanità passionale, energica (e un po’ fascista) del sindaco comunista. Nessun dialogo tra sponde avverse ha toccato il cuore più di quello, pur aspro e conflittuale, tra il parroco e il sindaco rosso con la loro buffa inimicizia. Si combattevano fino all’ultimo rintocco di campana e fino all’ultimo inno comunista, non si risparmiavano colpi bassi anche plateali, ma erano cresciuti insieme, condividevano lo stesso microcosmo, erano nemici fino alle cose penultime, ma poi uniti nelle ultime; condividevano un orizzonte elementare ma vigoroso di valori, di affetti, di legami comunitari. E quando il nemico era in pericolo di vita, quando erano in gioco la salute o il bene comune, si facevano in quattro per salvarsi l’un l’altro e poter così continuare a combattersi vita natural durante. Era successo a Peppone in un racconto guareschiano, quando era in pericolo la vita di don Camillo. E successe a don Camillo quando stava morendo Peppone. Questo racconto, Cristo nel comò, mi è stato ricordato da un bel libro uscito poche settimane fa, Parole che curano (ed. dream book), di Paolo Gulisano, un medico che racconta l’universo guareschiano nelle storie dedicate alla salute, alla cura e alla malattia. Il compagno Peppone stava molto male e si pensava che stesse per andarsene all’altro mondo. Chiamarono allora don Camillo e lui arrivò, lo vide mal ridotto ma non gli risparmiò il sarcasmo di sempre: gli rinfacciò di aver paura di morire, mentre il povero Peppone fingeva di non averne, dicendosi preoccupato solo di lasciare i figli. Ma a loro ci penserà il Partito, chiosò perfidamente don Camillo. Peppone da comunista all’antica credeva ancora alla famiglia patriarcale e rispose “Per i figli è meglio il padre più scassato che il partito più efficiente”. Una frase da ricordare nei giorni nostri, tra assistenti sociali invadenti e genitori commissariati, tipo la famiglia nel bosco. A un certo punto don Camillo notò un chiodo sopra il letto di Peppone e capì che mancava qualcosa. Peppone ammise in confessione che aveva nascosto nel comò il crocifisso perché erano venuti a trovarlo tanti compagni, compreso il segretario provinciale del Partito, e non voleva passare per un comunista all’acqua santa. La fede, al più, era per lui cosa da donne. Don Camillo andò a riprendere il Crocifisso dal comò, lo rimise d’imperio al suo posto, e alla fine della confessione, assolse il vecchio compagno per i suoi peccati. “Nel complesso era poca roba” ma per penitenza lo condannò a recitare cinquemila Pater, Ave e Gloria. È una bellissima, tenerissima condanna a lunga espiazione, perché “costringeva” il malato peccatore a restare in vita più tempo possibile per assolvere alla sua penitenza; in realtà era una prescrizione e un auspicio per resistere al morire. Peppone protestò che non ne avrebbe avuto il tempo. Don Camillo gli rispose che il tempo “lo si trova” ma il suo era un atto di fiducia nella divina provvidenza, favorito dal ritorno di Gesù sul letto del moribondo. Con quella penitenza, così esagerata, il sacerdote stava in realtà dicendo al suo vecchio nemico del cuore, “non morire”, non devi, non puoi morire. Un atto di fede e di speranza, che andrà a buon fine. E per noi una lezione di umanità che supera ogni divisione politica e ideologica, senza cadere nell’untuosa ipocrisia.
Il racconto, in fondo, è pure una parabola. Sono in tanti a nascondere Cristo nel comò; la chiesa li chiamava un tempo nicodemisti, da quel Nicodemo che andava a trovare Cristo solo di notte, per non farsi vedere. Oggi non c’è più neanche quel comò e di notte per trovare la serenità ci affidiamo ai video, ai sonniferi e alle pastiglie di melatonina…
Ma l’umanità di Guareschi non è consegnata solo ai suoi racconti e ai suoi mitici personaggi, traspare anche in prima persona nel suo Diario clandestino. C’è una pagina che si intitola semplicemente “Ci” ed è un compendio doloroso di una paternità mancata. “Giovannino seduto per terra sulla sabbia deserta. È solo ma non è solo. La vita gli diede tre figli, ma il secondo non ebbe niente dalla vita” perché morì alla nascita. Guareschi gli dette un nome breve come la sua non-vita, per farlo almeno vivere nella memoria: lo chiamò Ci. Una sillaba al posto di un nome, perché la creatura non aveva visto la luce del mondo. “E Ci – non nato – visse. E fu sempre con suo padre, e anche ora è qui con lui, e nessuno lo sa”. Così “Giovannino ha tre figli. Due sono il legame fra lui e la vita: Ci è il legame tra lui e la morte. Due gli fanno dolce la vita; Ci gli fa dolce la morte”. Una pagina intensa e struggente, semplice e profonda, che dice tutto di Guareschi, della sua umanità, della sua premura di padre e della sua ostinata, religiosa fiducia nella vita.
Tutto quel che scrisse e visse Guareschi è irrimediabilmente passato remoto, impensabile oggi. Ma a volte fa bene all’anima e pure alla mente viaggiare a ritroso e abitare i ricordi più inattuali. E nelle feste natalizie in particolare. Nell’epoca dei coming out sulle proprie inclinazioni sessuali e vicende private, Guareschi esorta a non vergognarci di fare outing dei sentimenti più intimi e più veri. Il verismo lirico di Giovannino, dove la realtà e la poesia si tengono per mano.
Marcello Veneziani





