«Qui abbiamo solo Proust!» – ha allargato le braccia come in una sorta di orgogliosa, divertita rassegnazione, il giovane addetto della Maison de Tante Léonie a Illiers-Combray, quando gli ho chiesto se lì intorno ci fosse un bar aperto, o un posto dove mangiare qualcosa. La risposta mi ha fatto vergognare della domanda, e in qualche modo di me stesso: tra qualche attimo potrò vedere il copriletto a fiori dell’infanzia, la stanza di e da cui parla Proust all’inizio della Recherche, e mi preoccupo di dove mangiare?
La verità è che in un lunedì di agosto, nella controra muta e senza passanti di Illiers, l’unica sembianza umana che puoi incrociare è proprio la sua. Di nuovo, solo Proust, o meglio la statua di bronzo che lo ritrae bambino, seduto su una panchina in quel momento molto assolata. «Non hai caldo, Marcel?»
Uscito dalla casa museo piena di luce, con la suggestione -forse naif- di aver attraversato o abitato davvero qualche pagina della Recherche, ho sentito distintamente un rumore credo inudibile altrove, in qualunque posto con un passaggio più o meno sostenuto di automobili: la serranda elettrica di un piccolo supermercato alla riapertura. Qui, nel piccolo paese di Illiers che da qualche decennio porta anche il nome immaginato da Proust, Combray, le spire capitalistiche da orario continuato non hanno ancora attecchito. Conquistato qualche snack, noto su uno scaffale dietro la cassa delle scatole di cioccolatini bluette. Rimandano all’inverno, lontane promesse di souvenir rimaste lì, velate di polvere.
C’è scritto sopra Marcel Proust, con un disegno stilizzato del suo volto. Il sole di Illiers Combray mi fa ben sperare per Cabourg, ma il tempo, a oltre due ore di strada, può variare anche di molto. Mi preoccupo del tempo perché sono stato lì proprio ieri, e a pochi passi dal Grand Hotel dove soggiornava Proust, in quella che nell’«eteronimia» dei luoghi della Recherche diventa Balbec, nel suo italiano poco allenato, una signora gentile mi ha invitato alla cena speciale che dovrebbe tenersi stasera sul lungomare. «Qui non passano mai italiani, lei ci sarà domani sera?» In un giorno stabilito di fine agosto, a Cabourg, le persone del posto portano da casa tavoli, sedie e qualcosa da mangiare, e così si compone una tavolata interminabile all’aperto, tra sconosciuti. «Se dovesse piovere, bisognerà aspettare l’anno prossimo». Ho tenuto per me il pessimismo, ma le nuvole nere sopra di noi, ieri, mi hanno fatto pensare che sarà per la prossima estate, e in fondo è anche un modo per dirsi: ci saremo ancora.
La signora sembrava colpita quanto me da una coppia di mezza età. Elegantissimi, e come appena arrivati da un viaggio lungo cento anni, marito e moglie sono stati a lungo a fotografarsi davanti all’ingresso dell’hotel – forse soggiornavano lì, non lo so. Il taglio degli abiti fuori moda, i colori pastello, i gesti misurati, sembravano davvero provenire da un altro mondo, da salotto proustiano. E a proposito di Proust, e di casa sua, forse avrei davvero dovuto chiedere scusa al giovane addetto della Maison de Tante Léonie per avergli chiesto di un posto dove mangiare – come uno entrato lì per caso, e che ha solo fame. A Rouen, alla casa museo Flaubert, non me lo sarei potuto permettere. Solo per averle viste esitare nel riprendere l’ombrello all’ingresso, il custode ha letteralmente incenerito le persone che stavano uscendo insieme a me dal museo. Guardava tutti con una tale impazienza! Però in effetti c’è sempre, l’attimo in cui ti chiedi se quello è davvero il tuo ombrello. La pesante porta di legno si è chiusa alle spalle di noi ultimi avventori della giornata con una grande forza, come se non solo il custode ma anche lo stesso Flaubert volessero dire allo sparuto gruppo di Bouvard e Pecuchet di cui ero parte: «Via, levatevi di torno!». Per le visite, si sa, non sempre è un buon momento – ma in alcuni casi, vale la pena comunque.
Paolo Massari
Paolo Massari è in libreria con “Tua figlia Anita” (Nutrimenti)