L’«Infinito» di Giacomo Leopardi
Perché l’Infinito è la poesia più celebre della letteratura italiana? Forse perché è un testo breve e vertiginoso; un testo che, nel breve giro di quindici versi (potremmo dire che è un falso sonetto, che ne ha normalmente 14), condensa, come dichiara Leopardi stesso in una lettera del 1828: «esperimenti, situazioni, affezioni, avventure storiche» del suo animo. È poi è un testo di cui Leopardi, sin dalla prima pubblicazione a stampa, che avviene in rivista il «Nuovo ricoglitore», nel 1825, riconosce subito l’importanza, tanto da continuare a ristamparlo, nelle successive edizioni del libro dei Canti, fino all’edizione finale che tutti conosciamo, quella pubblicata a Napoli, da Saverio Starita, nel 1835. E l’Infinito, che è il primo di una serie di Idilli e volgarizzamenti di alcuni versi morali dal greco, conserverà sempre una posizione centrale nel libro di poesie, e viene individuato, subito, come un testo cardine nell’equilibrio dei Canti.
Eppure, sappiamo che l’Infinito non era stato scritto nel 1825, ma nel 1819. Ed era rimasto nei cassetti di Giacomo per sei anni, i cassetti di una scrivania molto piccola, situata di fronte alla finestra del palazzo Leopardi di Recanati: è quindi una nascita nascosta, occultata: una specie di figlio segreto, messo a balia e ripreso con sé, sei anni dopo la nascita.
L’«Infinito» era rimasto nei cassetti di Giacomo per sei anni
E subito sorge una domanda. Perché Leopardi non lo pubblica subito? Perché aspetta per ben sei anni? Le ragioni sono tante, ma sicuramente perché era un testo troppo temerario, potremmo dire che era un testo ribelle, sia verso la forma della poesia (non segue nessun schema metrico), sia verso i suoi contenuti. Non è infatti solo una poesia, ma è una meta-poesia, un testo che parla della possibilità di fare poesia, a partire dalla solitudine (un ermo colle) e dall’immaginazione di ciò che non si vede, gli «interminati spazi» che si nascondono dietro una siepe che chiude lo sguardo («il guardo esclude»), e di ciò che non si sente, un flebilissimo «stormire del vento tra le piante», che si può cogliere solo nel silenzio più totale: i «sovrumani silenzi» e la «profondissima quiete» che l’immaginazione è in grado di «fingere», cioè formare in sé, e che provoca vertigini: «dove per poco il cor non si spaura». Ed è una poesia che nasce dall’incontro-scontro tra l’infinitesimamente piccolo e lo smisuratamente grande, ciò che la mente è in grado di comprendere in sé, allargandosi fino ai confine dello spazio e del tempo: «l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva e il suo di lei».
Ma torniamo al 1819. Non è un anno qualsiasi, è un annus terribilis, di una crisi esistenziale mai sperimentata prima da Leopardi: in cui si aggrava la malattia agli occhi, si inasprisce lo scontro con il padre Monaldo, fino – nel luglio, appena divenuto maggiorenne – al fallito tentativo di fuga, quando Giacomo, abbandonando Recanati, scrive quella lettera al padre che nessun genitore vorrebbe mai avere letto: «So che sarò stimato pazzo, come so ancora che tutti gli uomini grandi hanno avuto questo nome. E perché la carriera di quasi ogni uomo di gran genio è cominciata dalla disperazione, perciò non mi sgomenta che la mia cominci così. Voglio piuttosto essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi, tanto più che la noia, madre per me di mortifere malinconie, mi nuoce assai più che ogni disagio del corpo. I padri sogliono giudicare dei loro figli più favorevolmente degli altri, ma Ella per lo contrario ne giudica più sfavorevolmente d’ogni altra persona, e quindi non ha mai creduto che noi fossimo nati a niente di grande: forse anche non riconosce altra grandezza che quella che si misura coi calcoli, e colle norme geometriche».
Nell’anno della fuga, al padre scrisse: «Ella non riconosce altra grandezza che quella che si misura coi calcoli»
È molto probabile che questi 15 versi siano stati scritti proprio dopo questa lettera, e la fallita fuga; possiamo anche intenderli come una risposta a quella mortificazione dell’immaginazione. Se li guardiamo nella loro veste originaria, nella prima redazione manoscritta che ci è rimasta, che, insieme alle altre carte leopardiane, è depositata presso la Biblioteca Vittorio Emanuele III di Napoli, che le ha messe in condivisione, nel catalogo della World Digital Library, dove possono essere ammirate da tutti, scopriamo che il testo dell’Infinito è un po’ diverso da quello che abbiamo nella nostra memoria. Il quaderno di cui fa parte, infatti, comprende sei testi, scritti in tre tempi diversi, e a ogni nuovo tempo, Leopardi tornava sui testi precedenti per correggere qualche verso. Possiamo dire, quindi, che nell’Infinito vi sono più infiniti, che è un testo in perenne movimento.
Nell’«Infinito» vi sono più infiniti, è un testo in perenne movimento
Il “clic” dell’Infinito.
Se osserviamo l’autografo, infatti, notiamo che, come tutte le carte leopardiane che ci sono rimaste, è scritto in bella copia. Lo si vede dall’impaginazione, con titoli centrati, i rientri o gli aggetti del primo verso e delle strofe dei testi più lunghi, le correzioni che – cominciamo a familiarizzarci con il modo di correggere di Leopardi – sono di tipo diverso. Alcune poche sono apportate all’atto della scrittura (come l’inciampo dopo «Io mi», che viene corretto in «Io nel pensier mi fingo», un errore di «anticipo», che è una tipica correzione «da copista», di Leopardi copista di sé stesso…), altre invece sono apportate in un momento successivo alla stesura, cioè alla copia della lezione base, come quelle ai versi 3 e 4, dove «celeste confine» («del celeste confine il guardo esclude»), viene corretto in «ultimo orizzonte» e «un infinito spazio» («Ma sedendo e mirando un infinito / spazio») diventa «interminato spazio». Ma come in un mirabile gioco combinatorio, gli ultimi versi, 13-14, scambiano di nuovo le parole dell’infinito: «Così fra questa / immensitade il mio pensier s’annega,» vengono corretti in «Così tra questa infinità (ma prima aveva modernizzato «Infinitade» in «Infinità», lo vediamo corretto in rigo) s’annega il pensier mio», con un passaggio tra la prima variante, i cui si bilanciano lessico più letterario «Immensitade» e sintassi moderna: «il mio pensier s’annega», con la seconda formulazione, più moderna nel lessico: «Infinità», ma più letteraria – Leopardi avrebbe detto «elegante» – nella sintassi: «S’annega il pensier mio». E poi una piccolissima correzione nel passaggio cruciale della poesia, al v. 11: «io quello / Infinito silenzio a questa voce / Vo comparando». Qui Leopardi aveva chiuso la frase con un punto fermo, facendo seguire il momento successivo, quello del clic: «E mi sovvien l’eterno», con una nuova frase, introdotta dalla lettera maiuscola. La correzione invece cambia la sintassi della frase. Cancella il punto fermo e lo trasforma in due punti. Non è solo una correzione formale. Il clic con cui, dallo «stormire del vento fra le piante», la mente porta alla memoria tutto il passato («e le morte stagioni, e la presente e viva e ‘l suon di lei»), è una conseguenza della comparazione (cioè viene dopo i due punti dichiarativi), potremmo dire che è un «legato» musicale, non uno «staccato». Anche da una semplice correzione, da «due punti», si possono trarre interpretazioni, perché questo è lo scopo della filologia, la lettura attenta dei dettagli di questo splendido testo, che, come tutti i classici, come diceva Italo Calvino, «non ha ancor finito di dire quello che ha da dire».
Paola Italia__da__Le lezioni__Il corriere della sera
