Oltre il pensiero...


 Sunset Taverna

Ero stata in vacanza a Stavròs diverse estati prima. Quante, mi era impossibile stabilirlo ragionevolmente: mi veniva da dire «appena un paio» e «cento almeno» ed entrambi i conti mi sembravano tornare. Un motivo c'era. Tra la scoperta dell'Akrotiri e il ritorno in quella zona dell'isola di Creta, stava lunga distesa una forma, vuota e trasparente come la muta di una serpe, una fragile spoglia fantastica che avevo abbandonato a un certo punto, e che pure ero io: ancora, non più. La sentivo sotto i piedi, attraverso i sandali sottili, mentre camminavo sulla spiaggia nella mia pelle nuova. La calpestavo e lei si sbriciolava, arrendevole, come si erano sbriciolate al vento, al sole, all'acqua, chissà quante pietre e conchiglie, tutte cose dure e solide; altro che la vita. Ero diretta verso la grande taverna, sempre piena di luci e di festa che, me lo ricordavo bene, stava fuori dal perimetro del Blu Beach. Mi lasciavo alle spalle i villini bianchissimi, sparpagliati a monte della piscina e del bar, svuotati e immobili a quell'ora, nel sortilegio del primo pomeriggio di luglio. Avevo verificato: era rimasto tutto come allora. Potevo dunque proseguire la mia missione fuori dal villaggio. Mentre affondavo nella sabbia e sudavo sotto il sole greco, mi sentivo di nuovo la bambina che giocava a fabbricarsi in testa scenari avventurosi, affannandosi in pochi metri di mondo, che diventavano il suo vasto dominio. Intanto, sorrideva non vista: nessuno dei grandi aveva minimamente idea di quello che stava accadendo, che era lì lì per accadere, di emozionante, di straordinario… Poveri sciocchi. Quella volta, però, l'unica grande in giro ero io e mi sorrideva il mare, che la sapeva più lunga di me. Superato un piccolo schieramento di sdraio vuote e ombrelloni chiusi, passata una baia d'acqua purissima, raccolta da due bordi di rocce come in un palmo, ero arrivata su quella frangia estrema di litorale occupato dalla taverna del Tramonto, detto però in inglese, Sunset, che fa subito un altro effetto. Non avevo più pensato al nome e mi tornava così, sul posto, dove, a considerare bene lo spettacolo che avevo di fronte, mancava tutto tranne la possibilità del tramonto. Del locale erano infatti rimasti solo i muri e le fondamenta, uno zoccolo di calcestruzzo di circa tre metri e, sopra, uno spazio ampio, rettangolare, interrotto da colonne, totalmente aperto sul lato lungo, a oriente, chiuso sugli altri tre da muri coperti di graffiti, da angoli piastrellati; forse la vecchia cucina, i bagni. C'erano ancora segni di sanitari e tubature divelti. Dai tre finestroni a ovest e a nord, il mare si sporgeva a guardare dentro. Si rammentava degli ospiti che, fino alle prime ore del mattino, ogni sera, rimanevo a fissarlo nel buio, buttando, mezzi ubriachi, mezzi felici, i sassi invisibili dei loro desideri a fiore d'onda, a rimbalzare tra i riflessi della luna. E tra gli ospiti, mi veniva in mente, sulla veranda, in un angolo, una ragazza con un vestito bianco sopra il ginocchio, le spalle scoperte. Stava seduta sull'orlo di una sedia. Accanto, un tavolo ancora mezzo ingombro di piatti e bicchieri, musica greca tutto intorno. Allungava le gambe abbronzate, come se dovesse scivolare via, le caviglie intrecciate, i piedi nudi. A poca distanza da lei si ballava. Il personale della taverna aggirava con destrezza, per nulla infastidito, il cerchio che si era formato in mezzo al locale e che girava vorticoso, per poi fermarsi e incitare qualcuno al centro, impegnato in un a solo. Quello che sembrava l'oste, intanto, girava tra i clienti in maniche di camicia. Ogni tanto si voltava a guardare lo spettacolo e batteva le mani a tempo. Poi riprendeva le sue visite. Parlava in greco coi greci e in un inglese che diventava greco a forza di suoni scivolati e aspirati, di occhiate e alzate di mento, con gli altri ospiti. La ragazza con il vestito bianco guardava due ballerini, due ragazzi sui vent'anni, come lei. Erano i più bravi e più chiassosi. Anche loro, tra un salto, uno schiocco di mani e un opa, la guardavano. Anzi, ballavano per lei, perché era molto bella e loro pure. Quando si accorgeva dei loro occhi, si girava e si metteva a parlare con qualcuno, coperto dalla folla, sorridendo improvvisamente, da seria che era un attimo prima; o rovesciava la testa indietro, sullo schienale della sedia, e si stirava annoiata. Fissava la luna capovolta, mentre il vestito scendeva sul seno e saliva sulle gambe. In una pausa dei balli, me lo ricordavo bene, erano scesi insieme dietro la taverna, sugli scogli, senza parlare. Degli amici si sbracciavano a chiamarli, dalla spiaggia. Forse li avrebbero raggiunti. Quella sera io tenevo in braccio mia figlia ancora piccola. C'era anche mia madre, più giovane. Aveva ballato anche lei. Il vino bianco resinato, servito freschissimo, le aveva impedito di opporsi al genero, che la voleva a tutti i costi nella mischia. Io ero rimasta seduta a guardarli per un po'. Poi eravamo andate via. Era l'ora di dormire. Avevamo attraversato da sole la baia, la spiaggia attrezzata, per salire fino al nostro villino bianchissimo. Dall'altra parte della taverna i ragazzi forse facevano il bagno. Non ero mai stata dall'altra parte. Così ho aggirato quel grande involucro vuoto e ho trovato, svoltando a sinistra, un altro muro scrostato, un altro tag; ma non un disegno, una frase in corsivo greco: Abbiamo scritto con lo spray il nostro amore per rendere famosi questi muri, ti ricordi? Sì, mi ricordavo. - Mamma, ma cosa fai? - La voce di mia figlia arrivava da dentro. - Arrivo - risposi d'istinto e tornai dentro. La trovai a gambe divaricate e braccia conserte in un fascio di luce che entrava da un finestrone. Aveva lo sguardo corrucciato di una super eroina adolescente ed era incantevole. Sfidava così tutto quel cumulo di rovine, quel tramonto in un primo pomeriggio di luglio. - Ma com'è che mi hai trovata? - chiesi. - Guarda che non è mica così lontano. Dalla piscina ti vedevo che camminavi… Voglio fare il bagno. Dai, vieni, che non c'è ancora nessuno. Mi annoio da sola -. Saltò giù dallo zoccolo di calcestruzzo e si avviò attraverso la piccola baia. Io dietro a lei. La taverna aveva chiuso qualche anno prima; quanti, nessuno del Blu Beach sapeva dirlo con esattezza. Dovevano essere molti visto lo stato di abbandonato del luogo. Eppure, non erano convinti che fosse passato effettivamente molto tempo. I due soci avevano litigato, uno se ne era andato, l'altro non ce l'aveva fatta a fare fronte da solo a tutte le spese … C'era dietro una faccenda d'amore, c'entrava una donna, assicurava la signora del bar, alzando gli occhi al cielo. I camerieri annuivano, non credo perché ne sapessero qualcosa. La storia pareva loro verosimile. Anche a me, dopo tutto. Il giorno dopo, alla stessa ora, tornai alla taverna, spoglia fantastica, fragile che avevo abbandonato e che stava là, a tramontare in pieno sole. Eppure, sì, mi ricordavo altre forme, spazi, ore. Mi confondevo in mezzo a tutti i personaggi di una festa d'estate. La spiaggia deserta sull'Akrotiri era fatta dei granelli di una gigantesca clessidra che si era rotta. Francesca Sensini

   Illustrzione  Lavinia Fagiuoli

Francesca Sensini è in libreria con "Afrodite viaggia leggera", Ponte alle Grazi