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Persino il disincanto più radicato è soggetto a crepe se sottoposto a scossoni emotivi. E non necessariamente pirotecnici.

Qualora si sia destinatarie di prose e rose che dicono di un’imprescindibile matrice virtuale, benché inopportuno un riserbo superbo, è consigliabile accogliere quel materiale con bonaria sufficienza. Chiarendo che l’intimità che potrebbe derivarne, direbbe solo della nostalgia di un’assenza.

Andrea e noi

Un’estate via l’altra come fossimo inseparabili. Poi la maggiore età e la possibilità di affrancarsi dall’obbligo di andare al mare con i genitori. In pullman, per giunta, ma almeno non era quello di linea. Era un pullman “esclusivo” e aveva come destinazione la spiaggia degli ufficiali. Eravamo un bel gruppetto di idioti, non di rado sguaiati, anche se non perdevamo occasione di darci un tono declinando lupus-lupi o infilando nello zaino qualche libro per preparare il temuto esame di riparazione. Adolescenti, né carne né pesce, ma con un pallino fisso: il sesso. Soprattutto d’estate. E a qualsiasi ora. All’epoca andava ancora il gioco della bottiglia. Ci chiudevamo col chiavistello nella cabina più grande che chissà perché non veniva occupata quasi mai, e ci baciavamo alla controra, satolli di un pranzo consumato su in mensa e che malgrado fosse abbondante non inficiava la nostra linea. Eravamo magri da fare paura. E felici, benché non mancassero le ore di struggimento profondo.

Andrea non si mostrò mai per com’era. Arrivava in spiaggia in bermuda e camicia bianca e si eclissava in cabina: ne usciva confidando nella solidarietà del lino informe che lo copriva fin quasi alle ginocchia. Obeso, molliccio e lentigginoso si vergognava a tal punto da rinunciare al bagno, e non lo si poteva biasimare. Così, in virtù di una colpa che tale non era, trascorreva luglio e agosto all’ombra di un pino. Oppure giocava a biliardino. Ovviamente, essendo l’unica attività praticata con assiduità giornaliera, a fine estate si portava a casa il trofeo di miglior giocatore. Lo persi di vista l’anno in cui mi sentii donna per la prima volta; ero pronta a lasciare la vecchia compagnia che aveva cominciato ad apparirmi ridicola. Ora avevo un ragazzo con la moto, la spiaggia la sceglievo io. In realtà non dimenticai gli amici con cui ero cresciuta; solo di Andrea non tenni traccia, in fondo non era mai stato uno di noi. Dai vent’anni in poi le estati divennero un’altra cosa. Frequentavo i lidi alla moda, compravo i bikini firmati, andavo in vacanza nei posti dove non c’era la massa. Il divertimento non era più lo stesso, era “da grandi”, ma diventava sempre più faticoso fare in modo che non si snaturasse.

Rividi Andrea per caso una sola volta in centro, di pomeriggio. Indossava i jeans e una polo blu. Era dimagrito, era come noi vent’anni prima, e si era fatto sorprendentemente bello, con gli zigomi alti non più soffocati dalle guance paffute e gli occhi verdi con una luce nuova, inedita e confidente. Strinsi la mano a uno sconosciuto.

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La vita è fatta anche di giornate anomale, direi randagie rispetto al fluire regolare delle ore che lentamente sgretolano le nostre esistenze. Quando arrivano portando in dono piccole gioie che i saggi trasfigurano in porte aperte sulla speranza, finiscono con l’essere assimilate a una sorta di clemenza del cielo, a una ricompensa per non si sa bene cosa. Per converso, le giornate perturbanti aggrovigliano i fili narrativi delle nostre agende, obbligandoci al confronto con l’imperturbabilità del destino. Che un tempo scrivevo con la maiuscola, come se l’ossequio sotteso nella lettera svettante sulle altre, avesse potuto risparmiarmi dall’amoralità del male.